Anno XX, n. 225
novembre 2024
 
In primo piano
Quando la toponomastica fascista
impera tuttora sfidando la Costituzione
Belmonte, Vibo, Cosenza, Crotone, Reggio, Girifalco: la Calabria
piena di simboli fascisti che resistono nell’indifferenza generale
di Alessandro Milito
In Italia la legge che regola la «toponomastica stradale e i monumenti a personaggi contemporanei» è la n. 1188 del 23 giugno 1927: sei articoli in totale promulgati «per grazia di Dio e volontà della Nazione» dal Re Vittorio Emanuele III e controfirmati da Benito Mussolini. Un testo chiaro ed essenziale, con una tecnica legislativa che farebbe invidia alle leggi odierne, spesso composte da un solo articolo e centinaia di commi. Semplificando: la Giunta comunale approva la determina con la quale decide di intitolare una strada o un monumento a personalità decedute da almeno dieci anni; la Prefettura, sentito il parere della Deputazione di storia patria del luogo, autorizza l’intitolazione. Se si tratta di persone decedute da meno di dieci anni, la Prefettura può comunque dare il via libera in «in casi eccezionali» e se hanno «benemeritato della Nazione».
La normativa, con modifiche minime, è ancora quella del Ventennio e la Calabria interpreta appieno lo spirito di quegli anni con monumenti, lapidi e «ricordi permanenti» dichiaratamente fascisti o dedicati ai gerarchi del regime. Senza pretesa di esaustività, ecco come esempio una breve panoramica dell’universo nero della toponomastica calabrese: da Belmonte Calabro a Vibo Valentia, da Crotone a Cosenza fino a Reggio Calabria e Girifalco.

Il Mausoleo al gerarca
Il viaggiatore, che decidesse di risalire verso Nord il litorale tirrenico cosentino, nelle giornate con il cielo più limpido potrebbe persino avvistare all’orizzonte il profilo delle Isole Eolie. Quella però non sarebbe la visione più sorprendente: l’attenzione del viaggiatore potrebbe ricadere su un’imponente colonna di travertino, piazzata strategicamente su un punto panoramico dalla vista mozzafiato e con in cima una croce di ferro. Alla base della colonna, chiaramente ispirata alla ben più nota Colonna Traiana antistante Palazzo Chigi, ecco un mausoleo decorato con figure fiere e maschie che sembra quasi vogliano sfidare le leggi del tempo. Dentro il mausoleo si apre una camera funeraria con i più grandi onori possibili.
È questo il colossale monumento dedicato a Michele Bianchi, sindacalista e segretario del Partito nazionale fascista. Un gerarca della prima ora: quadrumviro della Marcia su Roma, sottosegretario e poi Ministro dei lavori pubblici del Regno d’Italia. Un curriculum di primo piano - sempre ai vertici del regime - al quale si aggiunge la particolare attenzione che Bianchi dedicò alla provincia di Cosenza: dalle fascistissime opere di bonifica fino alle numerose opere pubbliche che ebbe modo di sollecitare con il suo ruolo ministeriale.
Poco importa che questo potere abbia avuto come origine lo squadrismo fascista più violento e antidemocratico, e cioè quello delle ossa rotte e delle case del popolo bruciate, il tutto condito con una bella dose di olio di ricino. Al camerata Bianchi è giusto dedicare, e soprattutto mantenere ancora oggi bene in vista, un enorme mausoleo nei pressi di Belmonte Calabro, lì dove un tempo sorgeva una torre del XVI secolo.

Una “città grata” al ministro fascista
Qualche chilometro più a Sud ed ecco un altro monumento, questa volta nel cuore di uno dei capoluoghi provinciali calabresi: Vibo Valentia, un’intera «città grata» al suo Luigi Razza. L’allora Monteleone di Calabria poteva vantare tra i suoi cittadini più illustri un fascista “sansepolcrista”, ovvero uno di quelli che sin dal 1919 aveva accompagnato Mussolini nella sua scalata al potere. Dalle colonne de Il Popolo d’Italia alle colonne della Marcia su Roma, Luigi Razza fu sempre in prima fila nella costruzione del regime fascista, anche nella sua Calabria. Sindacalista “rivoluzionario fascista”, poi deputato del Regno e successivamente membro del Gran Consiglio del Fascismo, Razza raggiunse l’apice della carriera occupando proprio lo scranno che fu di Michele Bianchi: quello di Ministro dei lavori pubblici: a quanto pare una carica che doveva piacere molto ai fascisti calabresi di allora. La sua morte prematura nel 1935, causata da un incidente aereo mentre era in volo verso l’Eritrea, venne salutata con grande commozione dal Duce e dalla sua città natale che ancora oggi lo ricorda in tanti modi. Lo Stadio comunale è infatti dedicato al Ministro fascista vibonese, così come l’eliporto militare nei pressi del centro abitato.
Ma il ricordo permanente più plateale è senza dubbio la sua imponente statua che lo raffigura sopra un piedistallo, con alle spalle una colonna sulla cui sommità svetta l’effige della vittoria alata: il tutto davanti alla centralissima villa comunale. Giusto per essere ancora più chiari, regolarmente viene posta alla base del monumento una corona di fiori con su scritto «la sua città grata».
Fortunatamente a Vibo Valentia non manca l’umorismo: la statua affaccia proprio su Via XXV Aprile. Una casualità?

Il Gladio dei repubblichini di Salò
Hai vinto le elezioni, sei il primo sindaco eletto direttamente dai tuoi concittadini, sei stato riconfermato a furor di popolo, quello stesso popolo che per decenni ha votato prevalentemente per le forze di sinistra, e sei il primo sindaco dichiaratamente di destra, proveniente dalle fila del Movimento sociale italiano, alla guida di Crotone, un tempo l’operaia “Stalingrado del Sud”. E quindi, perché non lasciare un segno? Perché non erigere un monumentale Gladio di 12 metri su uno dei punti più alti della città e dedicarlo «ai ragazzi della Repubblica sociale italiana morti per la patria»? Certo, il monumento bisogna dedicarlo anche ai caduti della Resistenza, non si può volere tutto. Ma intanto il segnale lanciato, o meglio, realizzato, è chiarissimo: a Crotone svetta un monumento fascista che mette sullo stesso piano i collaborazionisti dei nazisti della Repubblica di Salò e i partigiani, sulla cui lotta sarebbe stata fondata – e si fonderebbe tuttora – la Repubblica italiana.
Da ormai più di vent’anni, nonostante si siano alternate giunte di ogni colore politico, il Gladio rimane ancora lì e pare intenzionato a restarci (nel suo ventesimo anniversario ne abbiamo parlato su Direfarescrivere: Il gladio neofascista di Crotone: una nefandezza da cancellare). Così come rimane una domanda ancora senza risposta: come è stato possibile permettere un simile gesto antidemocratico e, dopotutto, maldestramente cafone?

Il monumento ai caduti le parole del Duce
Rimanendo nel campo dei monumenti dedicati ai caduti in guerra, una menzione d’onore spetta senz’altro a quello per i morti della Prima guerra mondiale di Cosenza. Inaugurato nel 1936, il monumento può iscriversi al sistematico programma di costruzione di memoriali della Grande guerra lanciato dal regime fascista (anche) per scopi propagandistici e per «forgiare lo spirito guerriero del popolo italiano». Di per sé il monumento, eretto in Piazza della Vittoria, non si distinguerebbe dai tantissimi altri se non fosse per un particolare: alla sua base presenta delle citazioni tratte da alcuni discorsi di Mussolini, con tanto di sua firma in primo piano.
Ed ecco quindi che in una piazza dell’“Atene della Calabria” risaltano frasi come «all’ombra dei nostri gagliardetti è bello vivere ma se necessario è ancor più bello morire» e «ama il rischio e ricorda che la razza italiana è l’aristocrazia dell’audacia».
E pensare che i cosentini avevano pure deciso di abbatterlo, proprio il 4 novembre – anniversario della vittoria della Prima guerra mondiale – del 1943. Guidati dai militanti del Partito comunista e del Partito d’azione, che a Cosenza aveva un largo seguito, i cosentini insorsero contro il prefetto fascista Enrico Endrich, incarico che quest’ultimo aveva mantenuto anche dopo l’8 settembre con la benevolenza del governo Badoglio.
Il prefetto aveva ordinato ai carabinieri di cancellare delle scritte antifasciste sul monumento ai caduti di Piazza della vittoria. Quella che venne letta come l’ennesima provocazione di un alto funzionario, legato al regime appena abbattuto ma ancora in carica, e la fame che attanagliava da diversi mesi la città, spinsero i cosentini alla rivolta. Un grosso corteo formatosi spontaneamente marciò sulla Prefettura e ne occupò gli uffici. Si dice che, rovistando tra gli armadi, il comunista Armando Merletti avesse trovato un ritratto di Mussolini per poi sbatterlo in testa allo stesso Endrich che per poco non rischiò di lasciarci la pelle.
La rivolta venne ben presto sopita dagli Alleati che non volevano delle retrovie instabili mentre risalivano la Penisola per affrontare i nazisti. Un’agitazione che durò non più di due giorni appena, a differenza della stele con le frasi del Duce ancora oggi in bella vista nel centro di Cosenza.

L’Arena per il “boia chi molla” Ciccio Franco
«Il chilometro più bello d’Italia». Che Gabriele D’Annunzio l’abbia detto per davvero o no (e pare proprio di no), poco importa: il lungomare di Reggio Calabria si fregia di questo titolo, con la consapevolezza di offrire uno scorcio di indubbio fascino. Un lungomare simbolicamente legato alle due rinascite di Reggio: la prima, successiva al devastante terremoto sullo Stretto del 1908, con la costruzione delle ville in stile liberty e della striscia botanica; la seconda negli anni Novanta, con la cosiddetta “Primavera di Reggio” del sindaco Italo Falcomatà, a cui lo stesso lungomare è stato intitolato. Ma quella passeggiata di 1,7 km sullo Stretto non è dedicata solo al sindaco comunista, poi diessino: uno dei suoi punti più iconici, il teatro-arena, è intitolato a Ciccio Franco.
Sì, proprio lui, il sindacalista neofascista a capo della rivolta di Reggio Calabria del 1970; quell’insurrezione, nata a seguito dell’indicazione di Catanzaro come capoluogo di regione, che mise a ferro e a fuoco la città dal luglio 1970 al febbraio 1971 e venne sedata con l’intervento dei blindati dell’esercito: un triste e inedito primato nella storia della Repubblica.
La rivolta di Reggio, originata da un profondo disagio economico-sociale e da un campanilismo sottovalutato e incompreso a sinistra, ben presto si andarono a fondere con alcune delle pagine repubblicane più oscure. Reggio Calabria divenne il laboratorio di un rapporto sempre più stretto tra ’ndrine ed estrema destra, con un occhio di riguardo a ciò che accadeva nei palazzi romani e a una loro possibile virata reazionaria e golpista.
Sono episodi oscuri e drammatici ben descritti nella sentenza-ordinanza del 1995 del Giudice Istruttore di Milano Guido Salvini, il magistrato che diede un corposo contributo alla ricostruzione giuridico-penale degli anni della cosiddetta strategia della tensione.
Un periodo in cui la Reggio Calabria di Ciccio Franco e dei suoi camerati del “boia chi molla” rientrano appieno e ai quali si è deciso di dedicare l’anfiteatro più scenografico e d’impatto della città. Ciccio Franco, in seguito eletto più volte senatore della Repubblica per il Movimento sociale italiano, non venne mai condannato: le accuse di aver fomentato e appoggiato fatti violenti e terroristici non trovarono un riscontro in sede penale. Ma la responsabilità politica e morale ha altre regole e gli ideali, mai rinnegati, di Ciccio Franco, parlano da soli: oggi c’è un’intera Arena a ricordarli.

La Madonna fascista sul monte
Dopo un’intensa dose di “profano” ecco finalmente anche un po’ di sacro: l’elemento perfetto per chiudere, con la catanzarese Girifalco, il tour calabrese a tinte nere. Risale al 2012 la polemica che ha avuto come protagonista un’incolpevole e piccola statua della Madonna nel punto più stretto d’Italia: l’istmo catanzarese. Qui, sul Monte Covello, nel 1939 venne eretta una statua della Madonna come tributo alla costruzione di una strada che avrebbe collegato il centro abitato di Girifalco alla montagna. La statua venne accompagnata da una stele dedicata ai «Martiri dell’idea fascista» e divenne meta di pellegrinaggio per gli iscritti alla sezione del Partito nazionale fascista e di tutte le componenti locali del regime.
Distrutta negli anni Cinquanta – pare proprio da ignoti antifascisti – la statua fu ricostruita e inserita in una struttura in ferro battuto, oggetto di pellegrinaggio della popolazione circostante e nota semplicemente come “la Madonna di Monte Covello”.
Si arriva per l’appunto al 2012, con l’iniziativa lungimirante della sezione Junio Valerio Borghese del partito Fiamma tricolore: aggiungere sotto la statua una targa di nuovo dedicata ai “martiri fascisti”, con tanto di invito su Facebook a un «raduno di camerati» convocato per l’occasione. Ne derivò una partecipata polemica sulla stampa locale e su qualche testata nazionale, con interventi dell’Anpi e della Cgil, prontamente ribattuti dai camerati sensibili alla fascistizzazione di Maria. Il Sindaco in seguito rimosse la targa, ma, visto l’attuale clima politico nazionale, non è detto che i tempi non siano maturi, ancora una volta, per un nuovo ricordo permanente dedicato ai “martiri fascisti”.

E quindi?
Un monumento a ricordo di ogni fase del fascismo: quello delle origini della Marcia su Roma a Belmonte Calabro e Vibo Valentia, quello della Repubblica di Salò a Crotone e quello della “destra sociale” del Movimento sociale italiano a Reggio Calabria. Senza dimenticare le parole del fondatore del fascismo nel centro città cosentino e l’incolpevole Madonna che veglia sui martiri fascisti nel catanzarese. Una varietà fascista veramente invidiabile per una piccola regione dell’Italia repubblicana.
Ci sarebbe molto da riflettere sul perché tali espressioni dichiaratamente antidemocratiche siano riuscite a ottenere, e godano tuttora, di un risalto così grande. Ma, data per assodata la loro esistenza, che farne: abbattere e cancellare tutto? Il tema non è così semplice e si inserisce nel calderone della cancel culture di oltreoceano, dove le statue dei generali sudisti americani sono state abbattute in quanto testimonianza di un mondo istituzionalmente razzista. Abbattere o rimuovere i monumenti fascisti può avere senso: essi rappresentano un’ideologia ostile alla democrazia, inneggiante alla legge della sopraffazione del più forte sul più debole.
La Costituzione italiana ha solide radici antifasciste e non potrebbe essere altrimenti: a scriverla furono le forze politiche del Comitato di liberazione nazionale che lottò contro la Repubblica di Salò. Per questo un “gladio” come quello di Crotone non dovrebbe avere cittadinanza nell’Italia democratica: esso rappresenta una sfida, nemmeno troppo velata, a quei principi. Il discorso si complica quando i monumenti sono dedicati a personalità che ebbero effettivamente un ruolo incisivo nella comunità locale di riferimento. Bianchi e Franco rappresentarono a modo loro le istanze del loro territorio e ad esso dedicarono il loro impegno politico.
Negare tout court tutto questo non contribuisce alla necessaria chiarezza che andrebbe fatta al più presto e che, purtroppo, porta al vero problema irrisolto: quello del rapporto tra gli italiani e il fascismo. Un’ideologia mai del tutto condannata all’unanimità, il più delle volte tenuta in vita tra revisionismi e qualunquismi, oggi in salute con l’attuale governo in carica.
La toponomastica ha un forte valore ideologico e politico: essa si evolve con la società e segue la sua sensibilità. Se i monumenti a Michele Bianchi e Luigi Razza sono tutt’ora apprezzati da molti, se l’Arena dello Stretto è stata dedicata nel 2006 a Ciccio Franco, significa che quegli ideali antidemocratici godono ancora di buona salute. Abbattere un monumento non sposta di una virgola il nocciolo della questione e il tutto rischia di trasformarsi in una lotta contro i mulini al vento.
Se non si è ancora raggiunta la maturità culturale per superare questi simboli, che almeno si cerchi di integrarli con una narrazione che contestualizzi la loro origine e il senso della loro persistenza. Far finta di niente, così come lasciarli nel loro autoreferenziale trionfalismo, sarebbe solo un’ennesima sconfitta per l’Italia e la Calabria democratiche.

Michele Bianchi e la legge del contrappasso
Chiudiamo questa sconcertante rassegna toccando brevemente un argomento sul quale ci stiamo documentando per poter offrire al lettore un quadro sufficientemente chiaro.
Ci riferiamo al busto bronzeo a Michele Bianchi di Camigliatello Silano (all’epoca Camigliatello Bianchi) che, come ci sembra giusto, fu buttato giù dai comunisti locali ma che – e qui non ci appare più corretto – fu nascosto in luridi scantinati comunali per molti anni e che oggi, che di giusto non v’è nemmeno l’ombra, non si sa che fine abbia fatto: se sia stato trafugato, fuso o chissà cos’altro ancora.
Insomma, una perfetta legge del contrappasso: da un lato, Michele Bianchi rappresenta, con il suo enorme Mausoleo, una prepotenza non da poco che viene però “contrappassata” dalla scomparsa del suo busto bronzeo.

Alessandro Milito

(direfarescrivere, anno XIX, n. 214, novembre 2023)
 
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