Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
In primo piano
Il gladio neofascista di Crotone:
una nefandezza da cancellare
Il monumento revisionista della prima giunta di destra
insulta la città e la repubblica fondata sulla Resistenza
di Alessandro Milito
Il municipio di Crotone si trova nella centralissima Piazza della Resistenza, a pochi passi da Piazza Pitagora, il cuore della città calabrese. Il più delle volte si tende a non far caso alla toponomastica cittadina, incamerando automaticamente nella propria esperienza quotidiana i suoi nomi, senza riflettere sul loro significato. Eppure, anche quando la si ignora, la toponomastica parla chiaro. Dedicare alla Resistenza la piazza che ospita il municipio, e cioè la casa del governo locale crotonese e dei rappresentanti della cittadinanza, significa tracciare un legame forte tra le lotte partigiane e gli enti locali costituenti la repubblica.
Crotone non visse gli anni della Resistenza al nazifascismo come altre realtà del centro-nord: a seguito dell’armistizio dell’8 settembre la guerra si spostò altrove e la Calabria poté faticosamente avviare il proprio percorso di ricostruzione – e di lotte politiche e sociali – con qualche anno di anticipo rispetto alle altre regioni italiane. Eppure, la Resistenza fu un elemento fondamentale nella nuova geografia politica e sentimentale della Crotone repubblicana. Tutte le amministrazioni comunali, succedutesi dal 1946 fino al maggio 1997, appartenevano ai grandi partiti di massa del cosiddetto “arco costituzionale”: le forze politiche che avevano combattuto il regime fascista e, insieme, avevano scritto la costituzione.
La città diventò un punto di riferimento della sinistra italiana, in particolare quella comunista. Il Pci, con la sua cinghia di trasmissione sindacale e lo zoccolo duro della classe operaia cittadina, impiegata nelle grandi fabbriche dell’industria chimica, governò per decenni la città. Crotone diventò una città anomala nel contesto calabrese, radicalmente diversa dal capoluogo di provincia di allora, la democristiana Catanzaro, e la città più grande della regione, Reggio Calabria, punto di riferimento della destra eversiva dei “boia chi molla” di Ciccio Franco. Per questo e altri motivi, la città divenne nota come la “Stalingrado del Sud”.
Dall’arco costituzionale era ovviamente escluso il Movimento sociale italiano, presente in città seppur minoritario per consenso elettorale e influenza politica; di fatto i missini erano tenuti al margine del governo cittadino.

La riconquista nera a suon di gladio
Tutto cambia con la prima elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale della primavera del 1997. A vincerle è un professore ex missino, di – mai rinnegata – fede post-fascista: Pasquale Senatore. Per la prima volta nella sua storia repubblicana Crotone è governata da un politico estraneo all’arco costituzionale e che, allo stesso tempo, gode dei nuovi e ampi poteri che la riforma del 1993 assegna al primo cittadino, eletto direttamente dai cittadini. Forte di un ampio consenso popolare, Senatore avvia un profondo e controverso programma di rinnovamento della città. Sono dieci anni di profondi cambiamenti urbanistici e di una nuova narrazione fondata sull’uomo del fare, in sintonia con il berlusconismo allora imperante. Parallelamente viene proposto anche un cambiamento culturale più sottile, che vuole legare Crotone alle radici magnogreche, ridimensionando gli altri periodi storici della città, compreso quello della Prima repubblica. In questo solco si inserisce un chiaro intento revisionista proprio nei confronti della Resistenza.
Si arriva quindi al 28 settembre 2002, con la realizzazione di un monumentale gladio di 12 metri sulla collina sopra Parco Pitagora. La stele sottostante è dedicata «ai ragazzi della Repubblica sociale italiana e della Resistenza morti per la patria», in un’ardita e improbabile equiparazione tra lotta di liberazione e regime fascista.
Andando ad analizzare più attentamente e superando il furbo cerchiobottismo di facciata, si capiscono bene la matrice e la volontà sottostanti al gladio. Quest’ultimo, infatti, arma utilizzata dai legionari romani e di certo non un simbolo di pace, altro non era che il logo della temuta e criminale Xª Flottiglia Mas di Junio Valerio Borghese. Un gruppo di feroci collaborazionisti dei nazisti, guidati da un uomo che fino al fine non smise mai di lottare per un’Italia autoritaria, come il suo tentato golpe nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 testimonia in maniera cristallina (per ulteriori e recenti informazioni in merito si veda questo articolo).
Il gladio di Senatore rappresenta un taglio netto con il passato democratico e di sinistra della città, l’intento malcelato di voler dimostrare che, finalmente, dopo tanti decenni, l’estrema destra ha di nuovo il dominio della grande Kroton, dal glorioso e mitico passato.

Falsi problemi e proposte di buon senso
Sono passati quasi vent’anni dall’inaugurazione, in verità non molto partecipata, di quel “monumento ai caduti”. Regolarmente a Crotone si ripropone il tema del gladio, suscitando per lo più reazioni di disincantato scetticismo. Del resto, come biasimare i crotonesi se dopo dieci anni di amministrazione di centrosinistra successiva a quella di Senatore il gladio non è stato minimamente toccato?
Negli anni si sono rincorsi e alternati tanti interventi, proposte, polemiche, tutte apparentemente non in grado di scalfire l’obelisco neofascista. La reazione tipica e più comune in città, ogniqualvolta si ritorna sul tema, è quella del classico e benaltrista «ci sono problemi molto più gravi di cui occuparsi a Crotone». Sicuramente vero, ma questo non può essere utilizzato come alibi per evadere da una responsabilità storica e politica.
Prima di tutto, la tesi del dispendio di risorse necessario per abbatterlo è facilmente superabile: non mancano i cittadini e le associazioni che sarebbero ben felici, scalpello in mano, di abbattere personalmente e gratuitamente quell’insulto alla tradizione democratica della città. In secondo luogo, non è detto che l’unica soluzione sia proprio l’abbattimento: perché non dare sfogo alla distruzione creativa e artistica che potrebbe portare a una rilettura, in tutt’altra chiave, del monumento? In passato sono già stati fatti tentativi in tal senso ma non sono mai stati portati a compimento per mancanza di un’effettiva volontà politica e di un vero studio di fattibilità sul cambiamento dell’opera.

Una vergogna non più sostenibile
La realtà è che, analizzando la genesi e il contesto del gladio, si avverte tutta la carica eversiva e insopportabilmente revisionista e antidemocratica che sta alla sua base. Quella spada che svetta sulla cima della città è una dichiarata affermazione di potenza, violenza e mancanza di rispetto verso le istituzioni democratiche. Rappresenta un insulto non più sostenibile nei confronti di Crotone e della sua storia.
Nelle ultime settimane, di fronte all’aspro scontro politico, economico e culturale con una autocrazia illiberale e violenta, come la Russia di Vladimir Putin, sono risaltati in tutta la loro evidenza i valori che le società democratiche devono tutelare. Lo stato di diritto, le libertà fondamentali della donna e dell’uomo non sono negoziabili e, soprattutto, sono state pagate a caro prezzo: ancora oggi, anche in Europa, c’è chi muore per ottenerle e difenderle.
La città di Crotone può ancora accettare che il suo paesaggio sia inquinato da un simbolo così divisivo e in netto contrasto con tutte le libertà fondamentali della costituzione? Con quale credibilità si possono tenere sedute del Consiglio comunale in solidarietà a chi lotta per la libertà e la democrazia se la città non è capace di liberarsi di un simile fardello? E il 25 aprile, come si può ancora manifestare a Crotone in ricordo dei valori della Resistenza insultandola con un gladio ancora in piedi?
I simboli sono componenti importanti dell’immaginario collettivo di una comunità, elementi a volte irrazionali ed emotivi: proprio per questo non vanno sottovalutati e, qualora siano nocivi, devono essere affrontati e superati con maturità. La rimozione del problema dal dibattito pubblico non significa l’eliminazione definitiva del problema stesso, anzi.
Il regime fascista è durato vent’anni, quest’anno il gladio di Senatore a settembre ne compirà altrettanti venti: non è il caso di chiudere anche questa parentesi?

Alessandro Milito

(direfarescrivere, anno XVIII, n. 195, aprile 2022)
 
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