Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
In primo piano
L’affascinante universo letterario
di un autore storico: Gerardo Passannante
Un caleidoscopio di forme e contenuti che indaga il complesso
del mondo d’oggi, analizzato da un grande critico letterario
di Renato Minore
Continua l’attività di Bottega editoriale relativa ai Saggi critici sulla migliore Letteratura contemporanea.
In precedenza sono state pubblicate altre analisi critiche, dedicate alle figure di Mimmo Gangemi (
Mimmo Gangemi: poesia e narrazione tra natura, morte, vita e appartenenza, in: www.bottegaeditoriale.it/primopiano.asp?id=235 ) e di Massimiliano Bellavista,xxx facente parte del “Portafoglio Scrittori contemporanei di Bottega editoriale” (I labirinti poetici e narrativi di un autore coinvolgente: Massimiliano Bellavista in: www.bottegaeditoriale.it/primopiano.asp?id=236). Autore dei due saggi è il critico letterario torinese Guglielmo Colombero.
Analogamente per l’analisi critica su un altro autorevole autore facente parte del “Portafoglio Scrittori contemporanei di Bottega editoriale”: Fabio Bacile di Castiglione ( www.bottegascriptamanent.it/?modulo=Home&id=152&ricerca=). Autore dell’analisi dal titolo
Un vitalismo e un’analisi del senso: le opere di Fabio Bacile di Castiglione è il docente universitario calabrese Marco Gatto, docente universitario di Teoria della Letteratura.
In seguito è sopravvenuta alla nostra attenzione una personalità non facente parte del nostro “Portafoglio”, non vivente, ma sempre coeva: Albert Caraco. Autore di tale saggio, (
Lo scrittore più cupo del mondo: la figura del particolare Albert Caraco , in www.bottegaeditoriale.it/primopiano.asp?id=237) è il critico letterario bolognese Rino Tripodi.
In seguito un’analisi, sempre per mano di Guglielmo Colombero, su un altro rappresentante della Letteratura contemporanea, squisitamente eclettico e amante della sperimentazione, facente anche lui parte del “Portafoglio Scrittori contemporanei di Bottega editoriale”: Gian Corrado Stucchi.
Qui, a continuare la serie, mediante un’accurata analisi scritta dal critico letterario Renato Minore, un altro valido autore del “Portafoglio Scrittori contemporanei” il quale, tramite il racconto della storia, moderna e più antica, vuole mettere in risalto e criticare le problematiche del mondo attuale.


Gerardo Passannante ha dato vita a un’opera letteraria multiforme, espressa in vari stili e registri, che è culminata di recente nel grande progetto narrativo sul crepuscolo della civiltà romana e l’avvento del Cristianesimo tra il III e il IV secolo intitolato Il declino degli dèi (Città del Sole edizioni), di cui abbiamo voluto occuparci estesamente per definirne le peculiari e inedite caratteristiche. Tutta l’opera poetica e narrativa di Passannante prepara questo esito così imponente e felice, mettendo a frutto i suoi lunghi anni di insegnamento di Storia e Filosofia in Svizzera, dove è stato anche preside. Che la vena di questo autore non fosse affatto estemporanea né affidata banalmente alle intenzioni del momento, ma che fosse preordinata da una vocazione forte all’impresa letteraria intesa in un senso totalizzante, lo dimostra il perseguimento da parte di Gerardo Passannante di archetipi di scrittura molto alti e, come modelli, di opere e autori impegnativi e diversificati. Andiamo dalla temperie petrarchesco-ermetica delle raccolte poetiche (Canzoniere primo, Appunti di un colloquio interrotto, Ex Glebula Lux) fino al recentissimo Quasi un Canzoniere, pubblicato da Città del Sole edizioni nel 2017. Per la prosa, passiamo dal romanzo insieme dostoevskiano e shakespeariano Rasmletikov, cui lavora intensamente nel 1987, mentre termina il romanzo goethiano-wertheriano Atto gratuito (che sarà pubblicato da Montedit a Melegnano solo nel 2013), fino ai racconti raffinati, pensosi e spaesanti de L’ora della mezzanotte (Edizioni del Leone, 1996, ripubblicato da Minerva nel 2018 con l’aggiunta di altri cinque racconti), per arrivare all’opera teatrale Sha Nagba Imuru sull’epica di Gilgamesh.

Tensione morale e prospettiva sociologica
Rasmletikov rappresenta l’apice della tensione dell’impresa di Passannante, scrittore pervaso dal culto e dal mito della letteratura stessa. È un romanzo che, a nostro avviso, va letto nel senso di una preparazione e di un’impronta radicale di perseguimento di un archetipo forte. Esso è da prendere in considerazione come la caparra di una vocazione seria, di una ricerca autentica che si è coerentemente e costantemente affinata, per sfociare in una sempre maggiore acquisita consapevolezza delle proprie possibilità e dell’armonia compositiva e contenutistica cui perviene negli anni. In questo romanzo vengono intrecciati due archetipi fondamentali della modernità; vengono coniugate l’irresolutezza “vile”, tenera e sublime di Amleto, con la determinazione “audace”, sofferta, contraddittoria di Raskolnikov. La confessione dell’omicida Rasmletikov non è però incentrata sul dramma personale del protagonista, ma prende in carico l’irredimibilità di un’intera società intrisa di ambiguità e ipocrisia. L’omicida che si confessa è in grado di esprimere la sua invettiva contro questo mondo portando a esiti suicidi. Già in questo romanzo della prima fase di Passannante ci è dato trovare quella tensione morale e quella profondità di lettura sociale che sfoceranno nel grande affresco della degradazione di un’intera civiltà descritta ne Il declino degli dèi.

Dimensione metafisica e scavo psicologico
È molto interessante confrontare la complessità policentrica e la pluralità di registri di Rasmletikov con l’esito armonioso, intenso e spiazzante a livello di contenuti e pastoso a livello linguistico de L’ora della mezzanotte (1996). Colpisce infatti come in molti contesti la cifra di Passannante raggiunga un livello sereno e pacato, in cui il commitment dell’intenzione letteraria e della visione filosofica non sopravanzano il fare e fluire terso della scrittura, che procede tenendo fermo l’equilibro tra ricerca e spontaneità del linguaggio. Questa misura si lega a una spietata esposizione dell’assurdità dell’esistenza umana, del disagio dell’essere al mondo, all’interno dell’ineludibile limite della vita che porta alla morte. E questa complessità genera i racconti spiazzanti e compiuti de L’ora della mezzanotte, titolo ispirato dalla celebre frase di Kierkegaard in Aut-Aut: «Nella vita giunge l’ora della mezzanotte, in cui ognuno deve gettare la maschera».
Nell’edizione del 2018 la galleria dei personaggi, cui sono riferiti i racconti, comprende, tra gli altri, Adamo, Caino, Giuda (vero eroe tragico della silloge), Gilgamesh (con la ripresa creativa del poema che è ispirazione anche dell’opera teatrale Sha Nagba Imuru), Don Giovanni, Seneca. In Quia pulvis sum Adamo racconta l’essere al mondo con uno stupore originario e immediato che rilegge la Genesi non come narrazione solenne in terza persona, ma come esperienza in prima persona di un continuo trasalimento. Non sempre i racconti articolano l’emozione dello stupore: a volte elaborano la paradossalità dello stare al mondo, le contraddizioni e il grottesco che portano a gettare la maschera. Una peculiare ossessione riguarda Anna Schwarz, una donna mai esistita sul cui destino un docente vagheggia per anni origini e sviluppi, in un Ottocento indefinito nel periodo di Goethe, di Fichte, del giurista filologo Gottlieb. La gloria di nessuno narra della scomparsa dello scrittore Niemand. L’inquieto Gilgamesh ripropone un’epica insieme eroica e antieroica, sospesa tra la vita e la morte, tra la bellezza e l’inanità dell’esistenza, raggiungendo punte di lirismo tragico, classico e shakespeariano: «O Samas, o tu dio della bellezza e della verità, ascolta la mia supplica. Qui in città l’uomo muore con la disperazione nel cuore. Ho guardato dalle mura e ho visto cadaveri galleggiare nel fiume: e questa sorte toccherà anche a me». Temi forti che costituiscono lo scenario profondo e spietato di questa raccolta sospesa fra trance speculativa e quête cognitiva, estaticamente visionaria e brutalmente lucida insieme.
Seneca scrive a Lucilio l’ultima sua lettera, in cui Passannante mima la sapienzialità sofferta e compita del linguaggio del pensatore e tragico latino. La lettera tematizza il rifiuto da parte di Seneca di una visione della libertà sulle soglie del limite, nella stagione della vita che prelude alla morte, nell’“ora della mezzanotte”. Il tema della morte è centrale nella riflessione di Seneca, il dum loquimur morimur viene elaborato continuamente, perché «tutta la vita non è che un lento, progressivo imparare a morire»; e Passannante approfondisce la rassegnazione dell’irresolutezza metafisica dell’essere umano davanti alle grandi domande della vita e suggerisce come alle soglie del limite la possibilità della ragione sia sospesa. Questo sguardo sapientemente agnostico, in cui il nichilismo non è mai totalmente negativo, ma sempre illuminato dalle possibilità di apertura del linguaggio letterario e della riflessione elegiaca, è una cifra di Passannante che fa da sfondo anche alla produzione successiva. In questa prospettiva si rileva come l’autore abbia letto e assimilato autori come Schopenhauer, Nietzsche e anche Heidegger, la cui influenza è stata poco segnalata, ma che ha stranamente in questo Seneca un riflesso molto pregnante nella sapienza antica, proprio alla luce del nesso significativo tra vita, morte e libertà elaborato dal Seneca/autore.
L’uomo non è totalmente libero e la libertà è, alla fine, una chimera, se noi nasciamo senza volerlo e la vita e la morte ci sono imposte dall’addivenire all’esistenza. La problematicità della libertà metafisica incrina in modo irrimediabile e originario gli slanci della libertà pratica, sociale e politica. Le possibilità di lotta e azione si presentano come chimere illusorie, alle soglie di questa irrimediabilità e imposizione. La libertà come facoltà di scelta diventa un dilemma falso, una trappola esistenziale. Ma questo Seneca rassegnato ed elegiaco non preclude a Passannante di mostrare una propria attitudine polemica nei confronti del limite, di mettere in scena la protesta, il riscatto della necessità e della responsabilità individuale, in una sorta di etica dell’esistenza a partire dallo scacco originario dell’essere per la morte. Uno scacco che impedisce all’uomo di realizzare una qualsivoglia redenzione.
La corona di personaggi storici e metastorici de L’ora della mezzanotte permette un’elaborazione a prisma in cui è possibile comunque disporre a tema gli slanci della libertà in un “a tu per tu” con il Nulla e con il Divino molto vicino alla tragedia greca e biblica, tra Prometeo e Geremia, tra l’eroe che paga la sua hybris e il profeta che lamenta l’abbandono da parte della Luce.
Da qui gli esiti paradossali di cui parlavamo, che sono esemplificati ne Il quinto sigillo dal signor Zeta, che abdica al mandato divino di riscattare l’umanità a patto di rinunciare alla propria vita, a dimostrazione che il limite, il dilemma, lo scacco non possono essere trascesi dalla volontà. Il Divino è avvertito come qualcosa di assimilabile al Sacro di Rudolf Otto, e cioè come qualcosa di numinoso, di tremendum, e il signor Zeta rappresenta questa potenza affliggente e schiacciante dell’Oltre. Il signor Zeta, «carnefice e vittima, indegno e contraddittorio», potrebbe apparire un inetto, un vile, ma invece è in qualche modo eroico nella sua rinuncia, un Prometeo decadente, dove la resa esprime la tragedia della simbiosi tra vita e morte e della contemporanea appartenenza a entrambe da parte dell’uomo. Il paradossale è esemplificato anche nel lamento di Caino, esiliato dopo l’omicidio del fratello, che però percepisce come la radice della sua colpa stia nell’ineluttabilità di questa appartenenza al limite, ed è pronto a sfidare un “dio ingordo” che è all’origine di tutta la colpa umana e quindi anche della sua.
Archetipo di questa tragicità totale che integra Grecia e Cristianesimo è Giuda ne Il diverso, dove è elaborata profondamente la radicalità del conflitto ineludibile tra l’uomo e il divino, portando al ribaltamento per cui è proprio Giuda, il capro espiatorio universale, il vero liberatore dell’umanità, e non il Cristo che lui stesso consegna ai suoi carnefici. Giuda è depositario di un’autocoscienza superiore: la sua diversità lo porta a denunciare l’illusione del Divino, dell’esistenza della Legge e della possibilità di una Redenzione, entrambe espressione di una concezione del Dio come limitazione della felicità umana, del minimo consentito di felicità terrena a un uomo irrimediabilmente consegnato al limite e alle soglie del Nulla. Questa diversità lo rende eroico nella sua contestazione e paradossalmente gioioso nella sua scelta. Al contrario del Rasmletikov di cui abbiamo parlato sopra, Giuda è l’anti-Amleto che procede alla risoluzione nel modo più cruento e più tremendo, ma che comunque avverte l’angoscia di una scelta che non porta alla Redenzione: «la verità che riluce, in quest’ora suprema, è quella di sentirmi vittima della falsa missione che mi ha fatto sì, diverso: ma che, al prezzo di trenta denari, mi ha reso il cuore arido e la morte nemica».
La letteratura serve a Passannante come unico strumento di rivolta possibile rispetto allo scacco, come reazione alla retorica dell’ideologia trionfalista di qualsiasi matrice, anche dell’utopia marxista. Questa reazione è esemplificata in Rue d’Ulm, 1980, dove si rivive il dramma del filosofo francese Louis Althusser che uccide Hélène, la moglie tanto amata, per restituirle libertà e onore, e che morirà dieci anni dopo, in manicomio. L’inevitabilità del grottesco viene sottolineata rileggendo il gesto del filosofo attraverso una riflessione sullo sconvolgimento della sua psiche, sui suoi legami con la moglie in una vita sentimentale «contrastata e tormentata, intensa di esaltazioni e di tonfi», tra speculazione e impegno sociale. Si indagano anche i caratteri della madre di Louis e della madre di Hélène, alla ricerca di una causalità che ha però uno sbocco nella pregnanza dell’assurdo e del paradosso, con brividi di spiazzamento che hanno un valore esistenziale più ampio. Quella morte non è scaturita da un raptus fisiologicamente spiegabile ma ha radici complesse. Non può essere «astrattamente contemplata», e la «solare schematizzazione» cede al groviglio torbido di sentimenti che porta Althusser nel Centro geriatrico Denis Forestier, in attesa della seconda morte, dopo aver liberato Hélène dai fantasmi che minacciavano le loro vite emergendo da un universo sotterraneo, dal mondo sommerso dell’inconscio e dell’irrazionale: «Ho voluto capire l’uomo, per questo non l’ho amato, e l’ho voluto capire perché lo detestavo. […] Te, invece, Hélène, te, contro tutti gli altri t’ho amata: e ti ho uccisa perché tu non fossi oggetto del mio disprezzo generalizzato».
La tempra metafisica de L’ora della mezzanotte è uno degli aspetti della scrittura di Passannante che non cede al mero concetto e non appesantisce di astrazioni l’opera letteraria, a volte compiendo uno sforzo evidente di affinamento dialogico e narrativo del portato speculativo, con una disciplina continua. Per questo la dimensione metafisica non lede mai la capacità di scavo psicologico, anzi immettendo questo approfondimento sul piano emozionale e sentimentale dei personaggi si riesce a guardare il mondo con i loro occhi attraverso un dinamismo della loro interiorità.

Spaesamento e ribaltamento, anche in amore
Questa compresenza permette all’autore di dedicarsi a narrazioni di diverso respiro e registro, passando così per esempio a un romanzo di impronta goethiana come Atto gratuito, in cui vengono come intrecciati insieme i motivi delle Affinità elettive e de I dolori del giovane Werther in una composizione originale e coerente, come se la parabola della relazione passionale avesse il proprio esito spontaneo nell’intimismo struggente dell’evocazione dell’amore e dell’amata. Come ha scritto bene Massimo Barile nella Prefazione, il romanzo descrive «percorsi di vita che si intersecano, sovrappongono e miscelano in un maelstrom affettivo, dirigendosi in ogni direzione all’interno di una labirintica condizione esistenziale che diventa paradigma dell’esistere». La trama è molto complessa e non si riduce a un semplice diario sentimentale, tragico alla Werther, ma compone il puzzle sussultorio delle relazioni e delle passioni con tutto il loro carico di precarietà, inquietudine, ansia di ricerca e di possesso, «scandagliando le numerose mutazioni, metamorfosi sentimentali e pulsionalità, in un continuo susseguirsi di rimandi narrativi che traggono, ogni volta, nuova linfa vitale dall’ennesima esplosione dei sensi...». La passione per Linda dello scrittore Ugo, condivisa al liceo anche dal suo migliore amico Maurizio, è sottoposta ai condizionamenti del caso e ai disallineamenti della vita. Linda si unisce con Giorgio, conosciuto durante un viaggio in Svizzera, mentre Elena, che ha una separazione alle spalle, entra nella vita di Ugo che, grazie a lei, riesce a terminare la grande avventura spirituale di un romanzo da sempre in gestazione e vagheggiato. Linda però continua a sentire l’attrazione per Ugo e lascia Giorgio. Ma nel momento in cui giunge in Italia, in Ugo si fa strada l’idea che l’amore sia possibile solo se si fonda sull’arte della privazione, che il suo segreto stia più nell’ansia e nell’anelito che nella frequenza e nel possesso. Questi rimandi hanno una sorta di decantazione nell’Atto secondo, dove prende vita il diario wertheriano di Ugo e viene elaborata la stanchezza, il divenire saturo di un amore di cui vengono ripercorsi i frammenti, i sussulti e le risacche, con tutti i ritmi agitati e sereni, violenti e opachi che ne strutturano l’inquieto discorso. E anche qui Passannante riesce a sorprendere, elaborando il sentimento dell’amore in una poetica dello spaesamento e del ribaltamento.

Petrachismo moderno
È nella poesia che questa inquietudine lascia spazio a una pacatezza colloquiale, dove le passioni fluiscono nel dialogo continuo con la donna amata, Plebea. La lirica amorosa è, per l’autore, petrarchesca non solo nello stile, ma nella cifra dei contenuti e delle modalità di comunicazione. Quasi un Canzoniere conferma questa intenzione e la supera, con la sua selezione di 140 delle 370 poesie di Appunti di un colloquio interrotto. La raccolta segna uno sviluppo nel senso di una poesia più scabra ed essenziale, che non rinuncia ai lampeggiamenti aforistici ma resta sul solco della discorsività serena e fremente, in cui gli andirivieni e le metamorfosi del sentimento sono tenuti insieme da uno sguardo poetico dal rintocco seducente e costante: «Mi domando se questa travolgente/ecatombe di versi non preceda/l’estremo, fratto rantolo/del respiro poetico;/e, di riflesso, l’ultimo sussulto/di un amore che muore». E ancora: «Solare oscurità della parola/che non sa rivelarti ciò che celo./Ma se tu che censuri ogni insorgenza/dici che la ferita/è di nuovo scoperta e forse m’ami […]».
L’analisi razionale del dinamismo non lineare ma caotico dell’amore integra l’evocazione e la dichiarazione del trasporto, facendo dell’amata il soggetto di un dialogo sulla vita e sui suoi misteri, rendendo l’amore stesso una via superiore di conoscenza e di indagine dei segreti del mondo. È qui che il petrarchismo viene totalmente superato e la poesia di Passannante si fa moderna, poiché gli appunti, le nugae del “colloquio interrotto” con l’amata, hanno a che fare più con la fuga dal «monito del nulla» e la consapevolezza della vanità del tutto. E sono vicine al modo in cui nel secondo volume de Il declino degli dèi l’analisi della parabola della crisi sentimentale tra Diocleziano e Prisca sarà uno strumento decisivo per la comprensione della fine e dell’inizio di un’epoca. In Quasi un Canzoniere il poeta esprime radicalmente questo processo di maturazione anche in quella chiave drammatica che si sovrappone fatalmente alla fine dell’amore stesso: «È grazie a te che ho percepito nette/le cime incongruenti della vita,/centrato le sublimi assurdità/che si celano al fondo delle cose». Egli si espone sempre in prima persona e fisicamente alle conseguenze di questa ascesa peculiare e alla sua elaborazione lirica: «Non una sola volta la mia voce/si è fatta impersonale in questi versi». Anche questa implicazione personale però rinvia alla poetica dello spaesamento e del ribaltamento che abbiamo segnalato sopra, e porta l’amante alla consapevolezza che il vero sviluppo della passione è un mistico e metafisico cupio dissolvi davanti all’incapacità dell’amore di soddisfare appieno le conseguenze e le risultanze conoscitive cui esso ha spalancato romanticamente e dolorosamente le porte.

Il declino degli dèi: una molteplicità di intrecci
Uno degli esiti maggiori della produzione di Gerardo Passannante è il già citato Il declino degli dèi, opera in divenire complessa e multiforme, che, dopo circa cinque anni di documentazione, dal 2006 è uscita regolarmente sul settimanale La Pagina di Zurigo. Ne sono stati scritti otto volumi dei quattordici previsti, di cui tre pubblicati per le edizioni di Città del Sole. Si tratta di un’opera incentrata sulla fine dell’Impero romano, il trionfo del Cristianesimo e il tentativo di recupero della razionalità pagana da parte di Giuliano l’Apostata. Ma si pensi che a tutt’oggi l’autore è arrivato solo all’anno 313, un’epoca in cui Giuliano non è neanche nato (bisognerà aspettare infatti il 331), e quindi ci aspettano ancora i volumi sul cuore pulsante che fa da scaturigine del flusso narrativo, fluviale e magmatico insieme, dell’opus magnum, molto debitore, anche per stessa ammissione dell’autore, all’escandescenza controllata della scrittura di Robert Musil.
La narrazione inizia nell’estate del 283 con il fulmine che il 25 agosto, poco prima di mezzogiorno, incenerisce la tenda dell’imperatore Caro a Ctesifonte, capitale del regno di Persia, spianando la strada al generale illirico Diocleziano; e finirà nel 363 (per un totale di quattro volumi incentrati su Diocleziano, cinque su Costantino e l’affermazione istituzionale del Cristianesimo, e cinque su Giuliano). Sono stati pubblicati tre volumi con i seguenti sottotitoli: I: Avvisaglie d’uragano – II: Amore e disamore – III: Elogio della menzogna, e si è in attesa dei prossimi i cui temi e sottotitoli sono già noti: IV: La tragedia annunciata – V: L’infante di Naissus – VI: Incontro col passato – VII: La resa dei conti – VIII: Il trionfo della morte.
Come abbiamo detto, l’opera si pone come la cronaca appassionata e caleidoscopica della fine di un’epoca, abbracciando tutto il vasto periodo che va dal III al IV secolo fino al momento in cui la religione cristiana (diffusasi in sordina nell’Impero, radicatasi nel cuore di Roma fino a toccare le menti dei familiari più stretti della famiglia di Diocleziano, sotto cui vive l’ultima grande persecuzione) diventa non solo la religione più importante dell’Impero, ma surclassa gli antichi culti pagani anche nella configurazione istituzionale, affermandosi sotto l’imperatore Costantino, col quale il Cristianesimo, dopo l’ultima persecuzione, si avvia a diventare la più importante religione dell’Impero romano. La narrazione di Passannante esplora proprio gli estremi sussulti di una civiltà pagana in agonia, descrivendo l’intera profonda crisi di un mondo che cede definitivamente a una nuova era, contro cui si opporranno invano soltanto Diocleziano e la breve parentesi riabilitativa di Giuliano l’Apostata.
Il primo volume Avvisaglie d’uragano inizia, come abbiamo ricordato, dalla morte accidentale dell’imperatore Caro in Persia, a causa della quale lo scettro finisce nelle mani del figlio Carino, che governa in modo dissoluto e depravato trascinando l’Impero al collasso economico e morale, e muore trafitto da un tribuno di cui aveva stuprato e ucciso la sposa. Nel frattempo Diocleziano viene proclamato imperatore dalle legioni e, con una strategia ampiamente descritta da Passannante, mette fine alla Grande Anarchia attraverso l’utilizzo cinico di uomini mediocri. Nel volume spicca una coralità di figure, su cui ci soffermeremo in seguito per spiegare le molte ramificazioni e la rete di simmetrie e interazioni tra attori storici che Passannante riesce a ricreare, maneggiando una materia molto complessa.
Il secondo volume Amore e disamore mette in scena la radicalizzazione del contrasto tra Diocleziano e la moglie Prisca, che insieme alla figlia Valeria abbraccia segretamente la fede cristiana. Passannante aveva già esplorato nel primo volume la dialettica tra imperatore e imperatrice, facendo esprimere a Prisca con pathos e acutezza tutta la crisi del vecchio mondo pagano e la protesta per l’ottusità con cui il potere pretende di governare con fare reazionario e impositivo i complessi processi storici. È Prisca, nel primo volume, a rimproverarlo di questo, denunciando il suo attaccamento al passato e alle tradizioni con parole straordinariamente lucide che hanno accenti da tragedia shakespeariana: «La tua prudenza non nasce dal timore che ti suscita ogni innovazione e ti rende ostile a questo loro fervore? Il tuo rispetto per le divinità dell’impero, del resto, e lo so bene, è solo un’abitudine e non una convinzione». Erano proprio questi dialoghi a dipanare nel primo volume l’atmosfera torbida di macchinazione e inganno che alla fine del ventennio di Diocleziano sfoceranno nella decima e ultima persecuzione anticristiana. Le invettive di Prisca rivelano comunque come Diocleziano avesse compreso il ruolo corrosivo del Cristianesimo. La peculiarità di Amore e disamore è quella di spostare sorprendentemente il focus dal potere e dalla religione all’intimità familiare e affettiva dei rapporti di Diocleziano, esprimendo un registro e una corda spiazzante e nuova che, come ricorda Roberto Pazzi nella sua Prefazione, ha tutta la risonanza della poesia d’amore delle raccolte Canzoniere primo, Appunti di un colloquio interrotto, Ex Glebula Lux, in cui Passannante si è espresso con un’originale poetica dello spaesamento e del ribaltamento del discorso amoroso. Nel secondo volume assistiamo a un parallelismo veramente affascinante tra l’affermarsi del pathos della fede e il diffondersi della stessa, e il declinare dell’amore tra Prisca e il suo Diocle, di cui l’autore esplora le varie fasi dall’innamoramento all’oblio, che mettono a nudo la fragilità emotiva dei potenti.
Il terzo volume Elogio della menzogna torna a sviscerare la dimensione politica, mostrando l’imperversare del Cristianesimo avvertito come una minaccia insidiosa sullo sfondo della nascita della tetrarchia, con i conseguenti conflitti dinastici che scatena e i matrimoni che la suggellano: quello tra Teodora, figliastra di Massimiano, e Costanzo, suo prefetto; e quello tra Valeria, figlia dell’imperatore Diocleziano, e Galerio, suo prefetto.
Dall’elenco dei volumi che costituiscono il piano dell’opera si chiarisce la lucidità di una pianificazione narrativa che ha preso vita da poche paginette scritte dopo l’affiorare della prima intuizione all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle del 2001. In esso l’autore ha ravvisato il ripetersi di una congiuntura di deflagrazione storica, con la fine di un’epoca e il principio di un’altra, animata dallo scontro di religioni, cultura, civiltà, modi di essere e di vivere, in totale analogia con il fanatismo religioso con cui il Cristianesimo distrusse il politeismo pagano – che tollerava la convivenza di molteplici dèi – e il fanatismo islamico – che non tollera i diritti e le libertà occidentali. È la tesi per cui la tolleranza non si addice al monoteismo, perché un unico dio implica una necessaria disgiunzione; e che anche se c’è dialogo e confronto, è una “tolleranza” da fair play quella secondo lo slogan “Il mio dio non è il tuo dio”, con cui Passannante sintetizza questo scenario ricorrente che apparenta l’epoca contemporanea con l’epoca del declino dell’Impero romano. Ma su questo tema del nesso fanatismo-monoteismo torneremo dopo, focalizzando i cinque grandi intrecci di prospettive di cui si fa carico letterariamente e filosoficamente in modo molto originale Il declino degli dèi: romanzo d’appendice e romanzo storico; dato storiografico e invenzione narrativa; individualità e coralità storica; Occidente e Oriente; razionalità/libertà e fede monoteistica/fanatismo.
L’opera emerge infatti dall’intreccio, assai peculiare in questo caso, di prospettive a prima vista eterogenee e contrapposte, e che invece Passannante ha saputo far convergere e allineare all’interno di un impasto scenico e immaginifico monumentale. Più che un intreccio si tratta di una molteplicità di intrecci, a testimoniare della vulcanica vocazione letteraria e speculativa dell’autore, e dell’intenzione di condensare questo magma in una forma dotata di misura e ragione narrativa a diversi registri, e diverse modalità di riflessione e visione sulla realtà e sulla Storia. Un compito affatto semplice, forse di per sé titanico, che l’autore affronta con un’originalità sapiente, insieme narrativa e speculativa, che si fa trama di eventi, conflitti, passioni, rivolgimenti di idee e di paradigmi politici e religiosi.

Romanzo popolare e romanzo storico
Un primo intreccio è quello, per riprendere una distinzione di Umberto Eco, tra romanzo d’appendice/romanzo popolare e romanzo storico/romanzo popolare, i quali convergono senza che la serialità e l’attitudine all’intrattenimento del primo scalfiscano la maturazione stilistica su vari registri e la corposità della concatenazione di eventi del secondo. Anzi, al contrario, in questo caso il procedere seriale per culmini e picchi del primo non si presta a una narrazione a effetto, ma viene riscattato letterariamente da un gioco lucido di anticipazioni e progressioni che è debitore di una visione complessiva, sia dal punto di vista dell’impianto letterario che della base storiografica. In qualche modo ne Il declino degli dèi si rivela la produttività narrativa del romanzo seriale, indebolita e ridimensionata dalla visione austera della critica novecentesca elitaria, ma poi rivalutata ed esibita in pieno dalla semiotica e dallo studio dei processi di costruzione narrativa, che ha avuto nello studio di Umberto Eco sul romanzo popolare (Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare, 1978) il suo apice, e ha contribuito alla comprensione di qualcosa che, malgrado il sussiego di certa saggistica, è alle radici dell’invenzione del romanzo ottocentesco e novecentesco.
Come si sa, nello studio di Eco il romanzo d’appendice è inteso come strettamente legato al romanzo popolare, dal quale deriva echi e risonanze che generano una configurazione di caratteristiche decisive: la godibilità e il flusso avvincente della trama; l’eroicità del protagonista cui sono contrapposti antieroi e nemici secondo lo schema attanziale classico rilevato da Propp per la fiaba; la demarcazione quasi manichea tra bene e male, configurati secondo i gusti e le convenzioni morali dell’epoca. Nel romanzo problematico, invece, questa nettezza di contorni cede all’ambiguità dei confini: l’autore mette in crisi e squaderna le griglie concettuali e valoriali, con decisiva preferenza per lo scavo psicologico rispetto alla necessità della suspense e dell’effetto del plot narrativo. Per questo diceva Eco che «il romanzo popolare tende alla pace, il romanzo problematico mette il lettore in guerra con se stesso. Questa la discriminante; tutto il resto può essere (e spesso è) in comune)» (U. Eco, Il superuomo di massa, 2005, p. 13).
È interessante notare invece che l’operazione de Il declino degli dèi, partendo dalla riflessione letteraria su un cruciale mutamento d’epoca della storia dell’umanità, intreccia le due prospettive del romanzo popolare e del romanzo problematico, integrando la seduzione degli aspetti avvincenti della trama con una tensione morale e un’intensità epica del succedersi degli eventi all’interno di una cornice storica molto debitrice alla lezione di Tolstoj. Ricorre inoltre a uno scavo psicologico continuo dei personaggi, vicino alle esperienze dei grandi romanzieri dell’Otto-Novecento privilegiati esplicitamente – tra cui spicca Dostoevskij, appunto per lo scavo psicologico e per la tendenza a quel romanzo polifonico à la I fratelli Karamazov – in cui è messo in scena un vero confronto serrato della ragione e dei valori incarnati dai personaggi che sono archetipi universali dell’umanità. Così Passannante scava dentro la loro psiche «per coglierne i più segreti impulsi interiori, ne mette a nudo le sofferenze e le contraddizioni, ne incornicia le vicende in un’epoca di mutamenti traumatici, di sanguinosi intrighi, di implacabile resa dei conti fra una cultura ormai esausta e svuotata – quella degli dèi pagani declinanti, appunto – e un’altra emergente e rivoluzionaria, quella cristiana» (Guglielmo Colombero, Il primo atto di una grande tragedia storica, Prefazione al primo volume de Il declino degli dèi). Uno scavo che è però presente già in Manzoni, nel quale è dato trovare pure il superamento del manicheismo a portata di massa del romanzo popolare (si pensi alla figura di Gertrude e dell’Innominato), ancor più interessante se pensiamo alla forte matrice cattolica dei I promessi sposi. Passannante aggiunge a tutto questo un impianto filosofico molto vicino, come intento, all’Uomo senza qualità di Robert Musil, andando certamente al di là del puro sperimentalismo combinatorio, anche se è presente in lui l’altro tema semiologico molto pregnante dell’Opera aperta, come mostra la capacità di far rifluire varietà di registri e contenuti nella fucina di quella che il critico letterario Franco Moretti ha chiamato Opera mondo (Einaudi, 2003): un opus magnum in cui venga rappresentato e ripensato il reale e il suo divenire storico soprattutto alla luce di una congiuntura cruciale, di un vero e proprio cambiamento d’epoca generale; un’opera che voglia essere quasi come un testo sacro, rivelativo di una rappresentazione universale.

Tra storiografia e invenzione narrativa
Da quest’angolazione possiamo percepire l’importanza di un secondo intreccio fondamentale da cui origina Il declino degli dèi: quello tra la prospettiva del dato storico con la relativa inoppugnabilità della storiografia, e quello della rielaborazione letteraria. Passannante si inserisce all’interno di questo conflitto-convergenza tra le due prospettive con grande originalità e attualità, quasi rimandando indirettamente a quella dicotomia tra fatto e interpretazione, tanto attuale soprattutto nel dibattito filosofico contemporaneo, che vede contrapposta la tradizione dell’ermeneutica e del decostruzionismo (soprattutto quella che fa capo a Nietzsche e Derrida, per i quali non ci sono fatti ma solo interpretazioni) e la tradizione del nuovo realismo inaugurata in Italia da Maurizio Ferraris, che reagisce al tentativo di annichilire l’attrito e la resistenza del fatto e del dato percettivo, senza più accettarlo come un vincolo inemendabile e intranscendibile da cui la ragione non può prescindere nel percorso della propria elucubrazione ed elaborazione.
Passannante conosce bene la tematica e il controverso pronunciamento di Nietzsche, secondo cui non esistono fatti storici, ma solo una loro libera interpretazione. Tuttavia, è molto interessante il modo in cui l’autore riesce a inserirsi all’interno di questa dicotomia diversamente da come le polarità della contesa filosofica esauriscono il problema nella trattatistica odierna. E come si mostri vicino al modo più sfumato in cui l’affronta il decostruzionista Derrida, che pur partendo dall’idea che “non c’è nulla fuori dal testo” ricorda nelle sue opere più tarde che il testo non è un ambiente che esula dalla realtà ma ha uno scambio poroso con essa. Anche in questo caso Passannnante mostra di collocarsi in una temperie di grande attualità con uno sguardo affatto scontato. Attraverso qualcosa che non è un saggio speculativo, ma un’opera di narrativa, lo scrittore e filosofo Passannante mischia e intorbida acque che solo in apparenza sono cristalline. Se da una parte la sua documentazione e la sua preparazione storiografica sul periodo trattato sono straordinarie (come abbiamo ricordato l’autore comincia a stendere il romanzo dopo cinque anni di immersione nella saggistica storica relativa al III e IV secolo dopo Cristo), dall’altra è lo stesso autore che riconosce come lo storico debba attenersi ai dati, e senza concedersi illazioni, mentre per lo scrittore è un dovere scendere nell’intimo dei personaggi, ridando vita con uno specifico e versatile processo empatico agli Erlebnisse, ai loro vissuti, che non possono che essere fatti risuonare sulla base forte del dato storico. Ma lo fa con un movimento di amplificazione che mette in crisi dall’interno la solidità apparente dell’assetto storiografico, così da permettersi una rielaborazione sui generis di quel dato, per cui, scardinando dall’interno l’oggettività storica, assume questa medesima oggettività per poi sfatarla e demifisticarla, come riconosce lui stesso: «Mellifera sirena in cui non credo».
La grandezza di uno scrittore di romanzi storici sta nell’aderire al reale facendone emergere indirettamente la propria visione della Storia e la propria interpretazione dei fatti. L’adesione alla realtà permette però di creare quel movimento creativo doppio, dalla fonte documentale all’invenzione narrativa, che, da Manzoni fino a Ivanov, Tolstoj, Nievo, è il grande problema legato al romanzo storico. Un problema che, qualsiasi soluzione possa essere trovata, ci mette davanti a quel processo pregnante per cui il racconto si insinua dentro la fonte e da questa si alimenta per muoversi inventivamente, per diventare racconto restando aderente al dato. In tal modo emerge questa simbiosi produttiva in cui la fonte diventa racconto e il racconto si specchia nella fonte stessa, trovando linfa e alimento per proseguire e perseguire la narrazione, in un andamento a doppia prospettiva: quello dell’affabulazione che trasforma la Storia in romanzo, e quella del romanzo che vive grazie al radicamento sulla pregnanza e la solidità dell’evento storico, con al centro digressioni di tipo filosofico e religioso che permettono di percepire l’importanza del periodo su cui si stende la narrazione.
Sarebbe interessante poter fare un lavoro sulle fonti di Passannante e de Il declino degli dèi, e su come sono servite da suggestione narrativa oltre che da base documentale. Riprendendo la Prefazione di Guglielmo Colombero e l’Introduzione di Fausto Cozzetto al primo volume Avvisaglie d’uragano, possiamo dare qualche suggerimento per un futuro lavoro di approfondimento e, sempre seguendo questi lettori autorevoli dell’opera, possiamo avviarci a indagare brevemente il terzo e il quarto intreccio.
Colombero cita Eberhard Horst e Edward Gibbon: quest’ultimo molto somigliante all’autore, visto che la sua celebre Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano è un’opera storiografica in più volumi, generati dallo studioso con una cura tale da fargli dire nella sua autobiografia che erano stati per lui come dei figli. Si sa che le tesi di Gibbon sulla perdita di virilità e di spirito marziale dei cives romani a causa dell’avvento del pacifismo cristiano sono ormai datate. Ma quello che ci interessa è capire come la tendenza a una visione globale, che anima la storiografia nella sua interpretazione, sia presente anche nell’opera letteraria. E non solo. A questa voluttà visionaria si unisce anche la capacità tutta passannantiana di fare emergere i sommovimenti del divenire storico e dell’esistenza umana, con una tensione morale e psicologica che incrina le sicurezze astratte dello storico attraverso la messa in scena dell’andirivieni delle contraddizioni umane, mettendo in gioco la finezza psicologica presente nell’opera dostoevskiana Rasmletikov e l’elegia autoriflessiva del goethiano-wertheriano Atto gratuito. Grazie a questa rivisitazione creativa della Storia, Il declino degli dèi diventa realmente quel «caleidoscopio di sensazioni forti, carico di tensione morale e di conflitti emotivi che rispecchia le convulsioni di una svolta epocale» di cui parla Colombero nella sua Prefazione; e a questa descrizione possiamo aggiungere quella di una cronaca sapienziale universale, ampia, densa, ramificata, che svolge in una sterminata successione la sintesi di un’intera epoca di rivolgimento.

Il personaggio individuale tra i vari centri narrativi
Un terzo intreccio è quello tra individualità e coralità, che emerge a partire dal confronto obbligato tra Il declino degli dèi e Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Abbiamo ragionato molto sulle consonanze tra il grande romanzo della scrittrice francese e l’operazione narrativa di Passannante. Sarebbe pleonastico far comprendere al lettore quante siano queste risonanze e similitudini, soprattutto quelle legate all’ambientazione di un Impero romano che raggiunge un’enorme estensione in ogni direzione, soprattutto a Oriente; e non a caso Adriano si impegna in un viaggio su tutte le zone dell’Impero che viene riecheggiato nel romanzo. Ci sono però delle differenze dovute all’epoca narrata, che è il II secolo, caratterizzato dalla dinastia degli imperatori adottivi, anche se Adriano non rientra formalmente in questa categoria. Il carattere di lettera scritta dal maturo imperatore all’ancora giovane Marco Aurelio, che gli succederà, fa del libro della Yourcenar un romanzo dal focus individuale, autobiografico, intimo, sulla vita privata e pubblica dell’imperatore ormai sessantenne, che ci fa immergere in una stupenda, elegiaca, passionale riflessione sul suo amore per l’arte e la filosofia, sulle sue passioni, sui trionfi delle sue campagne militari e il declinare della sua parabola esistenziale. Il declino degli dèi, invece, ha un focus proiettato sulla parabola declinante dell’Impero preso nella sua interezza, descrive lo sconvolgimento di un cambiamento di visione religiosa che si sovrappone a quella crisi geo-politica e istituzionale, rendendola ancora più cruciale per la storia del mondo. Nei libri che sono stati editi fino a oggi, lo scavo psicologico riguarda la costellazione familiare di Diocleziano e la straordinaria galleria di protagonisti e comparse che si alternano in uno scenario variegato e pulsante, e che preparano l’avvento e la maturazione degli altri personaggi dei futuri volumi. Così abbiamo Diocleziano e l’imperatrice Prisca; la loro figlia Valeria, di cui è innamorato invano il tribuno Aurelio; gli altri tre tetrarchi Massimiano, Galerio, Costanzo Cloro; Elena, la madre del futuro imperatore Costantino, su cui si impernieranno cinque dei prossimi quattordici volumi; il retore Lattanzio, il filosofo pagano Porfirio e l’eunuco Doroteo; altri personaggi del passato, come gli imperatori Gallieno e Valeriano, il giovane imperatore dissoluto Carino, il martire Cipriano, la regina di Palmira Zenobia, il vescovo Paolo di Samosata, l’eretico Ario, l’usurpatore della Britannia Carausio, il senatore Fulgenzio, il generale Aristobulo. E ricordiamo ancora una volta che Giuliano l’Apostata non è ancora nato, e che a esso saranno dedicati gli ultimi volumi di questo romanzo seriale, di questa fatica di riesumazione storico-narrativa.
È chiaro che questa coralità ha più di un centro narrativo, e che è innanzitutto l’azione di Diocleziano a creare le simmetrie e le reti di un’interazione continua e della possibilità di avvertire gli echi interiori dei vari attori storici. Attraverso questa rete di simmetrie e conflitti, Passannante ci fornisce le modalità dell’ascesa al potere di Diocleziano e al contempo una riflessione sui limiti e la cecità del potere, sui motivi profondi della crisi dell’Impero romano. Lo fa soffermandosi ampiamente sugli antefatti delle vicende, raccontando gli stratagemmi con cui Diocleziano «conquista lo scettro imperiale nel bel mezzo del caos cruento della Grande Anarchia, durata mezzo secolo, e come seppe conservare quel potere scegliendo di condividerlo con uomini che, a parte Costanzo Cloro, non possedevano le sue doti di statista. Uomini che, proprio perché rozzi e mediocri, Diocleziano era in grado di controllare e manovrare» (G. Colombero, cit., p. 7).
La coralità riguarda anche la cosiddetta storia degli umili, che ha in Manzoni uno dei suoi massimi interpreti. In Passannante questa si esprime in fugaci piani sequenza sugli abitanti dell’Impero o della città di Roma, tra cui vogliamo ricordare una pagina stupenda dove, nella passeggiata con il senatore Fulgenzio, il generale Aristobulo osserva la «moltitudine variopinta e chiassosa» che gremisce una via rumorosa che porta al Colosseo.

Occidente e Oriente
Un quarto intreccio su cui vogliamo soffermarci è quello tra la prospettiva dell’Occidente e quella dell’Oriente, che permette a questo romanzo seriale di dare conto di uno scenario molto ampio della civiltà antica; e, come afferma Fausto Cozzetto, di dare una grande attenzione all’ampiezza del mondo euro-mediterraneo dove «si svolge la vicenda degli imperatori illirici; del mondo armeno e del mondo persiano in Asia Minore; del mondo di Zenobia, novella Cleopatra, con il suo tentativo di ritagliarsi uno stato immenso tra Egitto, Arabia e Siria». E lo fa con accenni alla politica dell’Europa centro-occidentale, alla condotta di Massimiano, con la sua «rozzezza politica» difesa da Diocleziano nel dialogo col generale Aristobulo (pp.138-139), e alle vicende della Britannia. I luoghi del secondo volume sono perciò anche l’Iraq, l’Iran, la Turchia e la Siria, teatri di guerra e violenza, con un’apertura a quell’Oriente, di cui Passannante conosce la filosofia, col riferimento a un asse che è la vera direttrice geopolitica e socio-economica della civiltà antica, e che è stato recentemente messo a tema, come dimenticato e oggi ritornato a essere centrale, dallo storico di Oxford Peter Frankopan, nei due volumi recenti Le vie della seta. Una nuova storia del mondo e Le nuove vie della seta. Presente e futuro del mondo (entrambi editi da Mondadori). Anche relativamente a questo intreccio, l’opera mostra di avere riconciliato prospettive opposte e mondi che spesso vengono ideologicamente separati.
Sulla scia di Frankopan, con cui Passannante è stranamente imparentato in modo molto attuale, Il declino degli dèi, come è stato ben detto, quale caleidoscopio del IV secolo mostra di essere tremendamente vicino al mondo di oggi, col quale rivela sorprendenti analogie. Ricordando, per di più, anche i rischi a cui portano l’arroganza del potere e l’ingiustizia sociale, forieri di fanatismo contrario alla potenzialità e alla libertà della ragione umana.

Razionalità e fede
In questo orizzonte si colloca il quinto e ultimo intreccio, che è quello tra razionalità e fede, con l’elaborazione implicita del tema della violenza del monoteismo e del Cristianesimo. Passannante rivela, da questo punto di vista, la sua profonda conoscenza delle filosofie antiche, come mostrano i dialoghi sull’Uno e il Molteplice, e la contrapposizione tra la filosofia di Plotino e le contraddizioni logiche del Cristianesimo fatte da Gallieno all’inizio del primo volume. L’autore mette in scena tutta la vivacità del mondo pagano, che non si può ridurre affatto all’Olimpo delle divinità greco-romane ma che è caratterizzato da una sapienza filosofica molto più complessa.
Nelle intenzioni dell’autore ravvisiamo anche la volontà di dare conto dello sprigionarsi interno allo stesso Cristianesimo di problematiche logiche, filosofiche, teologiche, che evidenziano questa contraddittorietà, riformulandola in modi dialettici definiti che non sono risolti dalla banale opposizione tra ortodossia ed eresia. Da qui il resoconto delle dispute dottrinali della cristologia: soprattutto del diffondersi della dottrina di Ario, che costituisce uno dei fenomeni religiosi più interessanti del IV secolo. Per cui la divulgazione del Cristianesimo viene vista da una prospettiva nuova, cioè quella di un’eresia che accompagna paradossalmente l’affermarsi e il trionfo della fede cristiana, minandola e corrompendola al suo interno, diffondendo alla fine qualcosa che non è il vero Cristianesimo. La tematizzazione dello scenario filosofico e teologico mostra come la Storia non abbia un disegno finalistico e provvidenziale, e indaga sull’imperversare del fiume cieco del divenire storico come qualcosa che è indifferente e non intenzionale, in cui sono assenti la pietà e l’intelligibilità. Il trionfo del Cristianesimo viene così spiegato più dalla prospettiva di un affermarsi cieco, di un imporsi coercitivo insito nella cosiddetta violenza del monoteismo, a cui sarebbe affine quel fanatismo che poi sarà espresso pienamente dall’Islam.
In questo contesto è doveroso citare l’opera del grande egittologo tedesco Jan Assmann, La distinzione mosaica ovvero Il prezzo del monoteismo, pubblicato in Italia da Adelphi, in cui viene ripreso il libro precedente del 1998, sul Mosè egizio contrapposto al Mosè biblico ovvero della riscoperta della rivoluzione teologica monoteista di Akhenaton (Amenofi IV) ad Amarna, nel XIV secolo avanti Cristo. Assmann rilegge in modo molto controverso ma originale il passaggio misterioso avvenuto nell’età del Bronzo a quella che viene chiamata «distinzione mosaica», cioè l’abbandono delle cosiddette religioni «primarie», fondate sul culto tribale e sul sacrificio rituale, e il diffondersi delle religioni «secondarie», fondate sul Testo sacro. Il sovrapporsi delle seconde sulle prime non è visto come uno sviluppo, ma come una regressione, come l’affermarsi di una «controreligione», che ha di mira non tanto di contrapporre con trasparenza e novità teologica l’unico Dio ai molti dèi, quanto opporre in modo violento il vero Dio ai falsi dèi che affollavano i pantheon politeisti, tra cui quelli egizio, babilonese e greco-romano. Lo sviluppo del monoteismo si configurerebbe quindi come l’affermarsi di una visione negatrice delle libertà e della pluralità del mondo antico.
Queste considerazioni sull’opera di Passannante, e soprattutto sul suo opus magnum in divenire, permettono di sottolineare la capacità di questo autore di sorprendere. Intrecciando in modo inedito e originale prospettive così diversificate egli rende la sua opera particolarmente stimolante, e struttura una sintesi già definita paradossale, dinamica, sospesa, multicentrica, sulla base di una spiazzante poetica dello spaesamento e del ribaltamento, di cui aspettiamo con fiducia critica gli esiti prossimi e futuri.

Renato Minore

(direfarescrivere, anno XV, n. 161, giugno 2019)
 
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