Anno XX, n. 220
maggio 2024
 
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Il carcere di Cesare Pavese vissuto a Brancaleone,
in una terra di confine, feconda come la solitudine
L’esilio di un importante scrittore del Novecento in un'inchiesta
che nel lontano 1986 inaugurava l’attività di Editoriale progetto 2000
di Annalisa Pontieri  
L’uomo è ciò che mangia, ma è anche la polvere che mangiano le sue scarpe, vale a dire le strade che percorre. Ecco perché Cesare Pavese, uno di quei poeti e scrittori destinati a segnare il Novecento italiano e oltre, non può non essersi lasciato toccare, durante il confino inflittogli dal regime fascista nel 1935-36, dalla Calabria, dai suoi odori e sapori, dai ricordi di passati luminosi.
L’inchiesta condotta negli anni Ottanta dal giornalista Enzo Romeo, pubblicata nel 1986 da Editoriale progetto 2000 col titolo La solitudine feconda. Cesare Pavese al confino di Brancaleone 1935-1936 (pp. 136, € 6,19) – che tra l’altro ha inaugurato l’attività oggi ventennale della casa editrice cosentina –, è tesa a riconoscere i reciproci influssi tra le due parti in gioco. Cioè quanto di Pavese e del suo passaggio è rimasto in Calabria e soprattutto nella gente che egli ha incontrato e quanto della Calabria e soprattutto della sua gente Pavese si è portato dietro nel cuore, nella mente e soprattutto nella sua penna.

Sentimenti da confinato
All’inizio il “soggiorno” non fu del tutto idilliaco: «E finalmente sono a pochi chilometri dal paese di Corrado Alvaro, ma lo preferivo nei libri», scrive in una lettera al suo amico e maestro, Augusto Monti. O ancora: «La spiaggia è sul Mar Jonio che somiglia a tutti gli altri e vale quasi il Po».
Tanta indifferenza, che sfiorava quasi il risentimento, non era senza motivo: l’amore dello scrittore per Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca” attivissima nell’impegno antifascista, gli costò la condanna al confino e – come un serpente che si morde la coda – il confino calabrese gli costò questo suo unico amore, aprendogli involontariamente il baratro verso la drammatica fine.
Ecco perché il piccolo paese sullo Jonio gli appariva quasi una prigione d’amore, e la solitudine e l’emarginazione cui era costretto, un pegno di fedeltà verso la donna amata, che però di lì a poco si sarebbe sposata e sarebbe diventava per lui irrimediabilmente perduta.
Ben presto però superato il primo impatto, lo scrittore si accorge di «un tatto e di una cortesia» della gente di Brancaleone che non può avere che una sola spiegazione «qui una volta la civiltà era greca».
Anni dopo rimpianse anche di non riuscire a tornarvi in una visita di piacere: «Sembra quasi che come nel ’36 ero confinato là, adesso sia confinato qui». Stesso sentimento si ravvisa in una lettera scritta a una giovane studentessa, figlia del maresciallo dei carabinieri del paese: «Era meglio stare a Brancaleone, guardare il mare e sperare nell’avvenire, anziché entrare in questo avvenire e non poterne più uscire».

Il carcere: personaggi tratti dalla realtà
L’esperienza del confino ispirò allo scrittore il romanzo breve Il carcere, in cui il protagonista Stefano è una proiezione dell’autore stesso. Anche moltissimi personaggi prendono spunto dalla realtà e sono riconoscibili nelle persone che l’uomo, confinato politico, ha incontrato.
Giannino ad esempio è Oreste Politi, un ragazzo del posto, estraneo al mondo letterario e culturale, con cui non parlava di cose amene; difatti probabilmente le amicizie migliori per Pavese furono quelle umili e schiette, dove la semplicità del compagno compensava il suo carattere troppo problematico e complesso.
Narra anche il guaio che Politi ebbe con la giustizia nell’arresto di Giannino per violenza carnale: la famiglia di un paese vicino lo aveva denunciato per aver lasciato incinta una ragazza, una delle tante con cui Politi si era intrattenuto. Questo evento, sia da Stefano che da Pavese nella realtà, fu accolto con sollievo, perché con Giannino/Politi se ne andava l’ostacolo «alla più vera solitudine». Infatti con gli altri confinati non ebbe quasi nessun rapporto, era troppo impegnato a dimostrare la sua buona condotta per tornare presto a casa.
D’altronde a lui non interessava prendere posizione politica, «la sua è una ricerca letteraria ed esistenziale che parte sempre da esigenze individualistiche». Ecco perché lo scrittore sentì spesso il rimorso di non essere sufficientemente dentro la storia, uno dei motivi dominanti della sua poetica.

L’elemento femminino da confino
Il contatto con la gente di Brancaleone avvenne anche per il tramite dell’elemento femminino.
Ebbe una relazione con una signora del paese, separata dal marito, che compare ne Il carcere con il nome di Elena, ma questo brevissimo amorazzo non lo scalfì per nulla, al contrario Concia, una servetta dai piedi scalzi e selvatica, l’attirò senza sosta: restò così talmente affascinato da questa immagine da riporla dentro il romanzo senza cambiarne neanche il nome. Anzi come scrisse Mario La Cava in un articolo pubblicato dal Corriere della sera il 29 ottobre 1982, «fu questo particolare […] che fece scoprire ai brancaleonesi l’identità dei vari personaggi del racconto. Concia era bella come una capra. Qualcosa tra la capra e la statua».
Una vita infamante la sua, era una donna d’amore, una povera donna che s’era data a tanti e che guardò a Pavese come ad un uomo qualunque, non accorgendosi nemmeno di essere diventata “letteratura”.

Un monito da profeta
Nella sua Conclusione, Romeo definisce «inaccettabile» la tesi di Luigi M. Lombardi Satriani riguardo l’estraneità di Pavese alla Calabria e viceversa. Quest’ultimo racconta che a Brancaleone «quasi nessuno lo ricordava, qualcuno ne conservava uno sbiadito ricordo».
Romeo dimostrò soprattutto attraverso la corrispondenza, mantenuta da Pavese con alcune conoscenze procurategli dall’esperienza del confino, che la Calabria non era passata invano nella vita dello scrittore. L’intento dell’inchiesta però può essere considerato anche un monito per smuovere le coscienze affinché «i rapporti tra la cultura e il Meridione non vengano generati più da motivi occasionali (o addirittura nefasti come nel caso di Pavese)» e perché l’integrazione con il panorama nazionale e internazionale non avvenga attraverso «la “fuga” dei suoi protagonisti meridionali […] verso le piazze del Nord. L’esodo intellettuale è una falsa risposta al problema, si rischia di essere assorbiti da una mentalità estranea o di apparire come dei venditori ambulanti di tradizioni e mondi lontani».
Una voce sola e profetica che oggi è diventata coro, ma non canta ancora…

Annalisa Pontieri

(direfarescrivere, anno III, n. 13, marzo 2007)
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