Anno XX, n. 218
marzo 2024
 
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Venti anni fa, dalle pagine del Corriere della sera,
Sciascia attaccò i «professionisti dell’antimafia»
Tutto nacque da un saggio sul prefetto Mori edito da Rubbettino.
Seguirono asperrime polemiche nel panorama politico-culturale
di Luigi Grisolia  
Capita, talvolta, che articoli giornalistici, vivano ben di più dell’effimero periodo di una giornata per passare alla storia. E che magari simil miracolo avvenga per caso o per errore. E che, magari, tale caso (o errore?) sia stato determinato da uno dei migliori giornalisti italiani: Riccardo Chiaberge. E che, infine, determini anche una svolta nelle vita aziendale di un editore. Questa è la storia di uno di questi casi, avvenuto esattamente vent’anni fa.
Era, infatti, il 10 gennaio del 1987 quando, sul Corriere della sera, usciva un articolo destinato a scatenare un fiume di polemiche; il titolo era I professionisti dell’antimafia, l’autore: Leonardo Sciascia.
Il breve saggio veniva pubblicato, tra l’altro, in un periodo molto delicato: infatti tutti aspettavano la sentenza del maxiprocesso a Cosa nostra, con oltre quattrocento boss in attesa di giudizio.
E Sciascia, prendendo spunto da alcune considerazioni su un libro edito allora da qualche settimana, La mafia durante il fascismo (Prefazione di Denis Mack Smith, Rubbettino, pp. 272, € 12,39), scrisse un vero e proprio j’accuse contro il mondo dell’antimafia. Col senno di poi, Chiaberge, all’epoca redattore Cultura del Corriere, come dichiarato in un’intervista rilasciata a Bruno Giurato sul numero di Scriptamanent n. 17 del dicembre 2004, si pentì di aver scelto quel titolo. Se ne pentì soprattutto perché quel titolo divenne uno slogan per screditare i magistrati del pool antimafia, sia in ambienti giudiziari che politici; aveva, insomma, “prestato il fianco” agli attacchi contro la stessa magistratura antimafia.
Lo scrittore siciliano puntava (o sembrava puntare) il dito contro due personaggi di spicco nella lotta alla mafia, nel primo caso esplicitamente e nel secondo indirettamente: Paolo Borsellino e Leoluca Orlando. Ma molti fraintesero, perché l’attacco di Sciascia non era tanto alle “persone”, quanto al sistema e alle cariche. Del resto, la stessa Agnese, vedova del giudice assassinato, ha recentemente dichiarato a la Repubblica, intervistata in un articolo di Attilio Bolzoni, che «Leonardo Sciascia vent’anni fa aveva capito tutto prima degli altri».

La polemica contro l’“intoccabilità” degli antimafiosi
La domanda che si pose Sciascia era se anche in quegli anni qualcuno, come ai tempi del fascismo, usasse la lotta la mafia come strumento di competizione politica e per fare carriera. E da qui partì il j’accuse.
La tesi di fondo è che colui (magistrato, politico...) che attacca la mafia, soprattutto in maniera “mediaticamente” visibile – quindi conferenze, dichiarazioni, anche con toni altisonanti, partecipazione a molteplici iniziative contro la mafia quali cortei, fiaccolate ecc. –, a prescindere dalle reali azioni pratiche effettivamente svolte, è in una botte di ferro. Nel senso che nessuno si sognerà mai di attaccarlo, di contestarlo, per non essere etichettato come “mafioso”, per non subire le (probabilmente durissime) critiche dell’opinione pubblica. Quindi, rafforzerà, volente o nolente, il ruolo che al momento sta svolgendo, e molto difficilmente avrà reali oppositori. O, nei vari concorsi, avrà la “vittoria in tasca”, perché una sua sconfitta sarebbe impopolare, farebbe cadere un mare di contestazioni sugli organizzatori. O, in un partito, sarà il naturale candidato a sindaco (o altra carica prestigiosa), qui non solo perché scelta diversa sarebbe impopolare, ma anche perché oggettivamente sarebbe – eccetto casi particolarissimi – colui che avrebbe le maggiori chances di vittoria nella rosa dei candidati.
Il problema diventa ben più grave quando sono le personalità stesse, consce di avere questo potere, a fare di tutto per sfruttarlo come mezzo per fare carriera, prescindendo dai propri reali meriti e volontà politiche, e quindi scalzando gente molto più adatta a ricoprire certe cariche e penalizzando il bene dei cittadini.

Il potere di Mori e le implicazioni “attuali” del problema
Nel suo articolo, Sciascia evidenziò come dal saggio di Duggan emergesse che già durante la dittatura fascista l’antimafia era utilizzata come strumento di potere. Nel caso del regime, il riferimento riguardava Cesare, anzi, Primo per usare il suo vero (misconosciuto) nome, Mori.
Proprio il Prefetto di Ferro, colui che Giolitti aveva cercato di utilizzare come una delle ultime armi contro l’avanzata dei fascisti (si ricordino i poteri straordinari conferitigli, per l’intera area padana, quando era a Bologna). Ma Mori era un uomo con una forte fede verso lo stato e il rispetto della legalità: qualunque fosse lo stato (liberale o fascista), qualunque fosse la legalità (liberale o fascista). Così, nel 1924 fu chiamato a Trapani e poi successivamente a Palermo per dare vita ad un’azione di repressione contro la mafia. E ben presto creò, grazie anche all’efficacia di molte sue azioni, applaudite spesso in maniera vivace dalla popolazione siciliana – che fino ad allora, si sentiva, rileva Duggan, abbandonata dallo stato – una vera e propria rete di “potere” e di “controllo” del territorio.
Tale rete aveva figure importanti nei campieri, ossia «le guardie del feudo – scrisse in relazione a loro Sciascia – prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto» (il patto era quello tra dirigenza fascista e agrari/esercenti delle zoolfare siciliani per ottenere il loro consenso o comunque la non opposizione: eliminare la frange criminali più violente, Ndr); campieri che il prefetto «andava solennemente decorando al valore civile nei paesi “mafiosi”».
E infatti l’intellettuale ne dedusse: «l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. [...] l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico».
Ciò che accese la miccia della bomba fu il proseguo del ragionamento. «Prendiamo per esempio un sindaco che per sentimento o per calcolo comincia ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto questo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo: e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correrà il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno».
In una parola: Leoluca Orlando, allora sindaco di Palermo, colui che si scagliava ogni giorno contro Salvo Lima e Vito Ciancimino. O, almeno, tutti interpretarono che tale frase fosse a lui riferita.
Ma Sciascia non terminò qui nei suoi esempi. Il secondo, molto più esplicito, riguardava la nomina di Paolo Borsellino a procuratore-capo di Marsala, contenuta nel Notiziario straordinario n. 17 del 10/09/1986 del Consiglio superiore della magistratura. In questo caso, lo scrittore siciliano constatò come il “giovane” Borsellino avesse, in graduatoria, superato colleghi sulle cui competenze professionali nel settore dell’associazione a delinquere, in particolare di stampo mafioso, non vi erano dubbi – nel senso che non erano assolutamente “meno preparati” – e che avevano anche una maggiore anzianità di servizio, cioè quell’esperienza che è fondamentale in qualsiasi campo lavorativo.
Infatti, commentando quella direttiva, scrisse: «Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come “la diversa anzianità”, che vuol dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel “superamento “ (pudicamente messo tra virgolette), che vuol dire della bocciatura degli altri più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto».
E concluse: «I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per fare carriera nella magistratura, di prender parte a processi di stampo mafioso».

Le reazioni del mondo intellettuale
La bomba mediatica e politica esplose subito. Il potere dell’Antimafia in terra di mafia: questo denunciò, dunque in relazione i “casi” Borsellino e Orlando, Sciascia. Le sue dichiarazioni, autorevoli, furono subito usate, grazie anche al titolo scelto, come spiegavamo in precedenza, per attaccare i magistrati e, più in generale, tutto il movimento contro i boss che era appena sorto a Palermo, e anche per criminalizzare la società siciliana nel suo complesso.
Seguirono giorni di polemiche violentissime, di innumerevoli interventi. Ne ricordiamo alcuni. Quello di Nando Dalla Chiesa, tanto per iniziare, che su L’Espresso gli domandò: «Non ti viene mai in mente di scrivere una bella terza pagina sui magistrati che fanno carriera proprio perché non attaccano la mafia, perché insabbiano?». E, su la Repubblica, Giampaolo Pansa: «Non riconosco il mio Sciascia, il nostro Sciascia. Dov’è lo scrittore civile, l’analista tagliente?». Giorgio Bocca, pur difendendo Borsellino, rilevò: «Il vero torto di Sciascia è di esporre tesi, di muovere critiche, di fare ipotesi che stanno fuori dagli opposti schieramenti, che non collimano esattamente né con i dogmi dell’Antimafia né con le ipocrisie e le seduzioni della mafia. Seguendo un suo acuto intuito ha spesso indicato ciò che noi non sapevamo o non volevamo sapere».
Nel già citato articolo di Bolzoni, la figlia Anna Maria nota: «Il suo era solo un richiamo alle regole, ce l’aveva con quella direttiva del Csm e con una certa retorica dell’antimafia [...] Fu isolato solo perché aveva lanciato una riflessione sull’arbitrio, sul rischio che si creassero centri di potere, sull’intoccabilità dell’antimafia». Il punto rilevato da Sciascia – appunto, l’“intoccabilità” degli antimafiosi – resta senz’altro attuale. Anche in un periodo in cui la mafia è meno sulle pagine dei giornali e la cui presenza è meno evidente (ma non per questo, meno pericolosa) per un evidente cambiamento di strategia all’indomani del 1993.

Il “lancio nazionale” di una piccola casa editrice di provincia
Ma, come accennavamo in apertura, quella delle polemica sul “professionismo antimafioso” non fu l’unico effetto che ebbe l’uscita di questo saggio di Duggan.
La recensione del libro, difatti, lanciò sull’agone nazionale un (allora) piccolo editore: grazie al dibattito creatosi la Rubbettino venne conosciuta in Italia, e molti giornali e librerie che prima addirittura si rifiutavano di stringere rapporti cambiarono strategia, aprendo così con tale azienda relazioni che nel tempo si articolarono e consolidarono, consentendole di travalicare i confini regionali, e di realizzare quello che è, oggettivamente, un “miracolo”: il successo di una casa editrice sita a Soveria Mannelli, allora sconosciuto paesino nel cuore della Presila catanzarese.

Luigi Grisolia

(direfarescrivere, anno III, n. 12, febbraio 2007)
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