Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
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La drammatica vita in carcere vista dall’interno:
Adriano Sofri ci racconta… Le prigioni degli altri
Nel periodo in cui ritornano in voga amnistia e indulto, affrontiamo
una tematica scomoda: tra ironia e storie di ordinaria sofferenza
di Mirko Altimari  
Il libro che presentiamo oggi ai nostri lettori tratta di un argomento non facile e che, a dir la verità, vorremmo fosse di maggiore attualità, vale a dire le condizioni di vita nelle carceri: veri e propri buchi neri che sorgono spesso nelle nostre città, ma di cui ben poco si sa.
L’agile volumetto…dell’altro secolo, come sempre nella nostra rubrica, e di cui consigliamo la lettura è Le prigioni degli altri (Sellerio, pp. 196, € 6,71) di Adriano Sofri. L’autore non è un autore come tutti gli altri, come già avete potuto capire. Ma qui non vogliamo aggiungere nulla alla sua annosa vicenda giudiziaria: sono stati scritti decine e decine di libri (tra gli ultimi, in merito alla querelle sul potere di grazia segnaliamo Grazia a Sofri. Un intrigo costituzionale di Paolo Armaroli, edito da Rubbettino), migliaia di articoli e pensiamo che non potremmo aggiungere nulla di nuovo, così come non crediamo interessi ai lettori il punto di vita di chi scrive. Del resto questo diario dei mesi di carcere trascorsi da Sofri nel 1988, quando venne arrestato per la prima volta nell’ambito delle indagini sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi, è un libro di Sofri appunto, e non su Sofri.
La vicenda giudiziaria, all’epoca appena ai primordi, non entra che come sottofondo nel libro. Lo stesso autore dopo aver introdotto il lettore al suo arresto scrive: «Non dirò altro dell’interrogatorio né della vicenda giudiziaria… Rimando alle prime righe di Silvio Pellico “Mi si fece un lungo interrogatorio… Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amante maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo di altro”».

L’arresto in una bella mattina d’estate…
Il titolo del libro è nemmeno tanto velatamente ispirato a quello, celeberrimo, del politico risorgimentale italiano come infatti afferma lo stesso Sofri, nella terza pagina di copertina, in cui spiega a suo avviso perché andrebbe letto il suo testo nonostante comunque, con modestia, lo definisca «non un gran libro»: «Non dirò che dobbiate farlo perché può capitare a chiunque, anche a voi, di finire in galera. Al contrario, è probabile che non vi capiti affatto, che ve la caviate. Tuttavia, anche se non andrete dentro, c’entrate. C’entriamo tutti».
Il diario si apre con l’arresto avvenuto in «una bella mattina d’estate», più esattamente il 28 luglio 1988, «con un ragguardevole dispiego di uomini e mezzi». Scrive Sofri: «questo nugolo di carabinieri e poliziotti fu cortese… scorse con negligenza qualche mia lettera privata, chiese come al solito se avessi letto tutti quei libri» annota con un pizzico di sagace ironia l’intellettuale. La stessa che permea tutte le pagine del prezioso libretto. Un altro esilarante esempio? Presso il carcere di Bergamo dove Sofri fu tradotto, proveniente da Milano, l’ex leader di “Lotta continua” visse un momento di grande prestigio tra i detenuti comuni, a causa di un «malinteso»: a firmare un appello in suo favore infatti non fu, come pensavano i carcerati, Jacqueline Bisset (attrice francese molto famosa e avvenente) bensì Jacqueline Risset: «una studiosa, ha tradotto la Divina Commedia in francese» provò a spiegare Sofri… Ovvia la perplessità (e delusione pensiamo) dei colleghi detenuti!

Il carcere e la droga: dualismo inestricabile
Ma, ironia a parte, il libro tratta di un luogo tutt’altro che felice: il carcere con il suo carico immane di sofferenza. Innumerevoli i ritratti di reclusi che Sofri, con rapide “pennellate”, riesce a descrivere con le loro storie drammatiche. Dal vicino di cella, subito soprannominato «tiriamo a campare» per il tipico stilema utilizzato nel suo intercalare, al ragazzo che «aveva un avvocato d’ufficio, il quale si è dimenticato di presentare le carte a tempo, facendogli passare in giudicato una condanna di un anno. Caso non infrequente. Un anno in più da passare dentro, gratis». Sofri non ha mai l’atteggiamento dell’intellettuale magari spocchioso, che si pone quasi a mo’ di “osservatore scientifico” di una realtà da analizzare quasi fosse esterna a lui. Egli è un carcerato come tutti gli altri: alcune guardie lo trattano con riguardo, ma la maggior parte non gli tributa certo un trattamento particolarmente privilegiato, anzi. Prima di allora, era stato soltanto per qualche giorno in carcere, nel 1970, dopo una turbolenta manifestazione (poi sarebbe stato prosciolto dalle accuse, al termine del processo). Pochi giorni quindi, ma “utili” per poter fare un paragone a distanza di quasi vent’anni (e consideriamo che, quasi altrettanti, sono passati da oggi alla data in cui parla il giornalista), eppure un quadro quello che emerge dalla penna del “detenuto Sofri” che conserva una sua straordinaria attualità: «La droga, e la televisione, sono le vere novità rispetto al carcere che avevo conosciuto. Come nel mondo di fuori, ma in modo estremo. Ora che anche i detenuti politici restano senza ricambio, l’intera gamma criminale tende a diramarsi dal gran tronco della tossicodipendenza e degli affari di droga. Furti per droga, rapine per droga, omicidi per droga: i delitti fini a se stessi, le belle arti del crimine di un tempo […] vanno estinguendosi». Nel carcere dove, in un circolo terribilmente vizioso e che non si ha intenzione (o forse la voglia) di interrompere finiscono solo, tranne qualche rara eccezione, i poveri cristi.

Quando la civiltà di un paese si misura dalle prigioni
Se oggi leggiamo i dati sociologici di quella che è la popolazione carceraria, al quadro delineato da Sofri dobbiamo aggiungere l’altissimo numero di extracomunitari. Ma non perché, come in maniera sguaiata urla una certa parte politica, essi siano più propensi al crimine, anzi. Tra i dati degli immigrati regolari la percentuale di denunce è più bassa di quella degli italiani. Ma semplicemente a stare nell’irregolarità forzata, spesso determinata da leggi ottuse (e qui non vi è alcun buonismo o malcelato perdonismo-lassismo da parte nostra ma è un dato di fatto) è più semplice entrare in certi gangli difficili poi da superare. Un ulteriore circolo vizioso di difficile rottura. Ebbene quando si capirà che prima di reprimere si deve necessariamente prevenire, il nostro ordinamento potrà definirsi civile. Non certo oggigiorno. E per avere una conferma basti dare un’occhiata alle condizioni delle nostre “patrie galere”.
Ben consapevole ne è lo stesso intellettuale (triestino di nascita): «Una volta, in tempi di redenzione nazionale o sociale, si diceva che la storia di un paese è scritta sui muri delle sue galere. Qualunque opinione si abbia del nostro tempo, resta vero che la civiltà e l’umanità si misurano sulle sue galere». E il nostro paese non ne esce certamente bene.

Tra giustizia, garantismo e ideologia…
Ma il libro di Sofri, che al termine presenta un saggio intitolato De profundis 1993 in cui analizza in particolar modo la situazione della giustizia in Italia in pieno periodo Tangentopoli, può servire anche da pungolo e da lettura per approfondire questo tema, soprattutto in questo periodo in cui, spesso a dir la verità, speculando sulle attese dei detenuti che vengono ciclicamente deluse, si parla di un provvedimento di clemenza. I parlamentari italiani, di qualunque colore, si sono spellati le mani quando l’allora pontefice, Giovanni Paolo II nella visita che fece a Montecitorio pochi anni or sono, invocò un gesto di clemenza, ma da allora tutto tace, ed oltre le timide intenzioni (magari cinicamente manifestate in campagna elettorale), non si è mai andati.
Ma per un preciso quadro della giustizia nel nostro paese, valido ieri come oggi vogliamo proporvi questa acuta riflessione di Sofri: «In Italia, dove le regole sono così ignorate da imporre al linguaggio l’iperbole o il pleonasmo – la giustizia giusta – il rispetto del diritto ha preso il nome, ora pregiato ora spregiativo, di garantismo». La legalità, che dovrebbe essere il “minimo comune denominatore” di uno stato democratico e di diritto, con l’aggiunta di quell’ ismo, si è trasformata «in una tendenza politica o in una vocazione psicologica».
Noi speriamo fortemente che il carcere riesca a diventare quello che la Costituzione prevede, vale a dire luogo di riabilitazione e non solo di mera espiazione e sofferenza. Badate bene, non ne va solo della vita dei detenuti (e già questo sarebbe un motivo più che valido e sufficiente), ma si tratta di una sfida che riguarda tutta la società nel suo complesso: far in modo che, anche dentro quelle mura, si possa realmente vivere, e non solo (come ripeteva ossessivamente il vicino di cella di Sofri)…tirare a campare.

Mirko Altimari

M. A. è esperto di Diritto. Si occupa, anche, di Letteratura, Politica e Storia. Collabora con varie testate culturali, tra cui www.scriptamanent.net e Rnotes.

(direfarescrivere, anno II, n. 6, luglio 2006)
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