Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
Questioni di editoria
La Collana viola
di Cesare Pavese
Un carteggio con de Martino
composto da materiale inedito
di Marina Benvenuto
La Collana viola avviata da Einaudi nel 1948, propose la pubblicazione di testi fondamentali di psicanalisi e antropologia, aprendo un confronto culturale inedito sul mercato italiano. Grazie al carteggio Pavese-de Martino che ne documenta la nascita e l’evolversi, questo progetto costituisce una sorta di laboratorio editoriale per una riflessione sullo strumento delle collane.
Nel 1942 Cesare Pavese era entrato in Einaudi come “impiegato di prima categoria”, con sede a Torino, l’assunzione formalizzava una collaborazione intrapresa nel 1934 quando iniziò a curare la sezione di Etnologia.
Nel ’43 Pavese a Roma incontra de Martino con Einaudi. Durante la riunione discuteranno di un «progetto» [1] per la pubblicazione di studi sulle origini della civiltà greca e le culture primitive. A seguito di questo contatto, de Martino redige per la casa editrice una lista di titoli, poi postillata da Pavese con note sui contenuti di rilievo per ogni opera.
La guerra interrompe i rapporti. Nel maggio del 1945, un laconico Pavese cerca de Martino: «saprà che la Casa editrice è stata nel dicembre 1943 invasa dai nazisti e noi scappati… Adesso è finita»[2]. Nella medesima lettera, Pavese manifesta quindi il suo interesse per «l’appassionante collana di etnologia a cui ho molto ripensato. Credo che si potrà fare una cosa molto intelligente». Sebbene nel 1943 Einaudi avesse scartato l’ipotesi di una nuova collana, nel 1945 Pavese si attiva per realizzarla. Nelle Segnalazioni al Consiglio editoriale romano, del 7 giugno, introduce de Martino come «dotto di etnologia», e allega «una lista di titoli che consiglio io, in parte sui ricordi di de Martino» per una collana «in sé bellissima e fascinosa», specificando «in questi anni ho studiato abbastanza l’argomento, ma non ho ancora la competenza necessaria».
Il carteggio Pavese-de Martino, che qui riprendiamo grazie all’aiuto della pubblicazione integrale all’interno de La Collana viola. Lettere 1945-1950, (Bollati Boringhieri, pp. 300, € 24,00) è certamente utile per poter affrontare «un discorso sul modello-collana», per citare il curatore Pietro Angelini nella sua Introduzione; una nuova Prefazione con appendici di approfondimento e lettere inedite arricchiscono la nuova edizione.

Le dinamiche della collaborazione
Lo scambio epistolare documenta un impegno costante di Pavese negli ultimi cinque anni della sua vita e le difficoltà nella relazione tra due personalità che perseguono obiettivi diversi con la loro ricerca.
La Collana viola risulterà sempre poco discussa all’interno del Consiglio editoriale: appare come una raccolta generata sulla spinta dell’interesse di Pavese, in una relazione con Einaudi che le lettere non esplicitano nei contenuti, e che Einaudi non rivelerà mai apertamente nelle sue dinamiche, neppure dopo la morte dello scrittore. Se a fine luglio del 1945 Einaudi sembrava ancora resistere all’introduzione della nuova collana, a novembre la casa editrice invia la lettera-contratto con i compensi di de Martino quale «consulente esterno della “Collana di Cultura etnologica”[3]».
Nel 1947, all’uscita del primo volume, Il mondo magico di de Martino, la collezione muterà nome per diventare «Collana di studi religiosi, etnologici e psicologici». Solo due anni dopo sarà formalizzata una condirezione.
In quel periodo di tempo lo scambio è fruttuoso, si nota un Pavese sempre impegnato e attento, a fronte di un de Martino collaborativo nella proposta di titoli, ma a tratti incurante nelle tempistiche: Pavese non mancherà di occuparsi personalmente delle bozze, rivedere le traduzioni, gli indici, e supplire con scrupolo a ogni inconveniente. Dall’ottobre del 1948 de Martino reitera con insistenza che sarebbe necessario «far precedere ogni opera da una introduzione che la ambientasse nel clima culturale italiano»[4], per guidare il lettore «sprovveduto» ed evitare «infatuamenti pericolosi»[5]. In quegli anni de Martino è coinvolto in un personale confronto con Croce, in quanto teme che il fenomeno magico che lo interessa, esuli dal dominio dello spirito secondo l’inquadramento crociano e che pertanto non possa essere considerato oggetto di indagine storiografica. Inoltre de Martino, impegnato in una militanza dapprima tra le file del partito socialista e poi comunista, scrive per disapprovare l’attuale orientamento della collana che, in assenza di una introduzione critica ai testi, tende a sottrarsi da una interpretazione materialista della storia, e indulge su tematiche irrazionaliste, motivate da «affetto letterario»[6], ma poco scientifiche. Pavese risponde che i libri pubblicati sono stati scelti in comune accordo; riguardo alla richiesta di prevedere prefazioni critiche scrive che: «le due esigenze – ambientare i testi nel milieu idealistico italiano e accordarli con le velleità marxistiche dei nostri consulenti ideologici – sono di per sé quasi contraddittorie. Sovente, disperato, io concludo che è meglio darli nudi e crudi e lasciare che i litigi avvengano sulle riviste»[7]. Nel novembre del ’49 de Martino ritorna sul tema delle introduzioni chiedendo di evitare «una presentazione pilatesca» insistendo per una prefazione che «vaccini dai pericoli e inquadri l’opera nel nostro ambiente culturale»[8]. Pavese gli scrive ribadendo che «la consuetudine Einaudi è sempre stata di prefazionare il meno possibile… i nostri lettori dopotutto sono intelligenti»[9].
Tra i due si profila un dissidio che tuttavia non verrà apertamente affrontato nelle lettere, neppure quando Pavese invierà a de Martino I dialoghi con Leucò appena pubblicati («mi permetto di mandarti il mio libro che forse ti interesserà, dati i gusti e il mondo che vi si riflettono»[10]); de Martino non risponderà mai su quest’opera di cui Pavese annotò l’8 maggio 1946: «c’è un rapporto stretto tra le letture che da più di un anno facevo (etnologia)… Maturato tutto il mondo etno-mitologico, ecco che… invento il nuovo stile dei dialoghi e li scrivo»[11].

Il mito: i motivi del confronto
Già in Feria d’agosto, (il manoscritto è datato tra il ’43 e il ’44), Pavese esprime il suo interesse per il mito come evento fuori dal tempo, rivelatore di senso, «foco centrale» della vita interiore e fondamento della poesia. Questo tema sarà meditato e approfondito negli anni seguenti. La stesura de La luna e i falò riverbera di questo interesse a un momento originario, colto nell’infanzia dei protagonisti, e mai rielaborato. Nel dialogo con Nuto, l’azione della luna è il solo avvicendarsi positivo nel quotidiano lavoro sulla campagna, dopo che la guerra ha rivelato l’uomo capace di violenze indicibili. Il falò invece è un gesto umano che si perpetua, un simbolo di collaborazione tra l’uomo e la natura, tramanda una memoria amica, un antico patto di fiducia con la terra («tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace»[12]). Ma solo fino a quando la guerra tradisce anche questa memoria per tramutarla in nuova violenza contro l’uomo.
Gli articoli del dopoguerra, che Calvino classificò come «il complesso abbozzo teorico del mito»[13], testimoniano l’impegno di Pavese in quegli anni, tra la ricerca per la collana e la sua poetica; non è un paradosso che anche gli articoli che Calvino inquadra di impegno sociale e politico, siano scritti nei medesimi anni del carteggio.
In questi scritti Pavese vuole chiarire le ragioni della sua visione poetica che trova una continuità di intenti tra la letteratura americana di cui è stato anche traduttore e le origini della cultura classica e primitiva. L’urgenza che esprime nel ritornare sull’interpretazione del mito non è velleitaria, non è estetica, ma testimonia una responsabilità di solidarietà verso un altro uomo, il lettore: «Noi non andremo verso il popolo, perché già siamo popolo, andremo verso l’uomo. Perché è questo l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo»[14]. Negli articoli redatti dopo il ’45, Pavese si interroga ripetutamente sulla natura della poesia, forse teme derive interpretative alle sue ultime opere, che non vuole inserite in una corrente neo-realista: cerca allora una sistemazione del mito come ragione di esistenza della letteratura contemporanea. Il mito è introdotto come destino che il poeta tenta di decifrare, la poesia crea libertà, entra nella “storia” quando risale alla «semplice frase oracolare» che restituisce la forza dell’immagine mitica, e le sopravvive per diventare nuovo mito, ancora operante[15]. Con l’articolo Il mito – pubblicato su «Cultura e Realtà», n.1, maggio-giugno 1950 – si realizza il momento di maggior allontanamento, con de Martino che scriverà a Einaudi il 31 agosto, tre giorni dopo il suicidio di Pavese, utilizzando l’articolo per denunciare le derive irrazionali del poeta e chiedere un nuovo orientamento della collana.
Pavese era ricorso a Vico per asserire ne Il mito «un vero metafisico», una sopravvivenza di religiosità moderna che l’artista vuole decifrare, narrare e risolvere «in chiara immagine e discorso accessibile». La funzione del poeta si realizza nella capacità di offrire un’atmosfera mitica ancora vitale nelle vesti di un narrare contemporaneo. Scrittori come Melville, Whitman, Faulkner sono esponenti, nel loro «intemperante autobiografismo» [16], di un mondo mitico, vere «storie di un’anima» [17].
Non è una concezione stilistica che Pavese sottolinea, ma un impegno etico a «costruire l’arte democratica […] il passaggio di una cultura ad un’altra più complessa, […] se lo sforzo benemerito di un singolo uomo o di una singola città non deve servire a tutti i volenterosi, non si capisce a chi debba servire»[18].

La Collana viola come manifesto poetico
L’ultimo Pavese ha descritto il mito come «impulso», «carica magnetica» che «sola poté indurre gli uomini a compiere opere»[19], uno «stato di grazia» [20] che rianima di senso la realtà e la vita: forse il criterio editoriale di Pavese si rinviene proprio in questa affermazione.
Dopo gli orrori della guerra, la raccolta delle opere proposte interpreta un bisogno esistenziale che anche il lettore non specializzato può condividere. La Collana viola è un’avventura aperta su una grande incognita, fin dall’inizio ne sono indefiniti gli ambiti (etnologia, psicologia, religione, mitologia), muta la sua intestazione, sono incerti i motivi del suo esistere, le ragioni scientifiche, filosofiche e storiche. Solo Pavese ne percepisce gli obiettivi: vuole tradurre e portare sul mercato non una riflessione storica sul mito, non un resoconto di usi e costumi dell’uomo primitivo, ma il mito stesso. Pavese non seleziona opere per una lettura intellettuale del mito, ma quegli autori che lo vogliono far conoscere nella sua espressione originaria.
L’esperienza della guerra non lo ha sospinto verso una sensibilità decadente, (come de Martino negli anni successivi al suicidio tende a imputargli), ma a cercare un nuovo linguaggio che restituisse le immagini mitiche perché «irradiano tanta vita, tanto calore, tanta promessa di luce», esse riescono ad accendere «fuochi o fari della nostra coscienza»[21]. L’amarezza della guerra ha lasciato ai superstiti un interrogativo angoscioso su cosa sia l’uomo, e la Collana viola è il tentativo di Pavese di dare una risposta a questa domanda. E probabilmente anche l’investimento di Einaudi, in un periodo di seria crisi economica per la casa editrice, rivela che l’editore si fece sensibile a questa scelta audace.
Dopo il suicidio di Pavese, de Martino rimane consulente per Einaudi ancora cinque anni, ma la popolarità della collana tese a diminuire, fino a quando non venne acquisita da Boringhieri nel 1957. In un’“intervista” rilasciata alla figlia, Boringhieri disse che dopo la morte di Pavese si era creato «un vuoto editoriale, […] si è persa la rotta e sono cominciati i guai». La collana «si è indebolita subito, appena è mancato un solido timoniere, e l’interesse del pubblico verso di essa è diminuito»[22].
Il carteggio nel rivelare la natura del confronto manifesta un’insistenza dei due curatori che si perpetua. Pavese insiste sul “valore” del mito per l’uomo moderno, di Martino cerca una teorizzazione in forma scientifica dell’esperienza dell’uomo primitivo, per entrambi la collana è un riflesso di una visione sull’uomo, di una interpretazione della sua natura. Il mercato che accoglierà la collana è catalizzato da questo modello di ricerca, anche il lettore non adepto, forse persino in modo inconsapevole, ne sarà coinvolto.
Il libro – come offerta di una organizzazione imprenditoriale – non può evitare di fare i conti con il mercato: Einaudi agisce da imprenditore, ma senza dimenticare la particolare natura del libro quale oggetto che risponde a un bisogno di natura esistenziale. Il libro come falò che accende la vita, la rende fertile e non come strumento per occultare la morte.

Marina Benvenuto

[1] «Progetto per una “Biblioteca di Scienza della Cultura”» è il titolo da un dattiloscritto di de Martino del 1943, in La Collana viola. Lettere 1945-1950, Bollati Boringhieri, p. 74.
[2] Lettera di Pavese del 30 maggio 1945, ivi, p. 82.
[3] Lettera da Giulio Einaudi Editore del 15 novembre 1945, ivi, p. 97.
[4] Lettera di de Martino del 9 ottobre 1948, ivi, p. 142.
[5] Ibidem.
[6] Lettera di de Martino del 18 novembre 1949, ivi, p. 204.
[7] Lettera di Pavese del 13 ottobre 1948, ivi, p. 145.
[8] Lettera di de Martino dell’11 novembre 1949, ivi, p. 203.
[9] Lettera di Pavese del 18 novembre 1949, ivi, p. 206.
[10] Lettera di Pavese del 27 ottobre 1947, ivi, p. 129.
[11] Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950 con il taccuino segreto, Bur Rizzoli, p. 414.
[12] Cesare Pavese, Pavese. I capolavori, Newton Compton editori, p. 700.
[13] Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, p. 338.
[14] Ritorno all’uomo, articolo su «L’Unità» di Torino, 20 maggio 1945.
[15] La poetica del destino, in Cesare Pavese, La letteratura americana…, cit., p. 311.
[16] L’arte di maturare, in ivi, p. 331.
[17] Ibidem.
[18] L’arte di maturare, in ivi, p. 333.
[19] Il mito, in ivi, p. 315.
[20] Stato di grazia, in ivi, p. 277.
[21] Il mito, in ivi, p. 318.
[22] La collana viola, cit., p. 233.

(direfarescrivere, anno XVIII, n. 196, maggio 2022)
 
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