Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
In primo piano
Enzo Biagi, ancora per un’ultima lezione
nel bel ritratto di una delle sue “allieve”
In un libro edito da Rubbettino, la giornalista Rai Annarosa Macrí
ci racconta il ritorno in Tv del maestro dopo cinque anni di esilio
di Angela Potente
Esistono i cattivi maestri e forse sono molto più numerosi dei “buoni” maestri, ma a volte si può avere la fortuna di incontrare uno di questi ultimi e la nostra vita può riuscire ad assumere un altro significato, o almeno un differente orientamento. Annarosa Macrí, autrice de L’ultima lezione di Enzo Biagi (Rubbettino, pp. 196, € 10,00, con Prefazione di Loris Mazzetti, regista e capostruttura Raitre) racconta proprio l’incontro con un buon maestro, Enzo Biagi appunto, e con il suo libro ci regala un appassionante e appassionato elogio della professione giornalistica e un ritratto amorevole di un grande giornalista.
Il testo è costruito su diversi piani che si intersecano tra loro in una perfetta combinazione tra racconto-testimonianza e autobiografia grazie alla quale le pagine acquisiscono un quid in più che ci “lega” alle parole mentre leggiamo. I ricordi legati alla figura del padre della giornalista, colui che le ha trasmesso il gene di questo mestiere, per esempio, sono infusi di una emozione tale da creare una istantanea empatia con il lettore. Il tratto saliente è dunque costituito dall’incastro perfetto tra la storia personale della scrittrice-giornalista e quella di Biagi. I suoi ricordi, legati al vecchio “maestro” ma anche alla propria giovinezza, fanno del testo un mosaico in cui ogni pezzo risplende di per sé dando al contempo luce agli altri pezzi.

Il giornalismo di Biagi
La lectio giornalistica insegnata da Biagi, attraverso le parole della nostra autrice, diventa quasi metafora di vita come un’immagine che si rifletta in uno specchio d’acqua. Con la sua testimonianza l’autrice ci insegna come non sia facile essere giornalista, perché – scrive – «per farlo decentemente» è necessario «accettare di essere orfane, vedove e figlie di puttana».
È dunque questo che ci aiuta a capire l’autrice: la differenza sussistente tra l’essere giornalista e fare il giornalista. Il giornalismo quindi inteso non come un mestiere tra tanti, ma come missione, condotta e vissuta con passione, onestà e rispetto per la verità. L’autrice a questo proposito riporta una bella distinzione di Walter Benjamin tra il narratore contadino e il narratore marinaio e sottolinea come il suo modo di raccontare rientri certamente nella seconda categoria. Nelle sue parole si avverte la voluta dissonanza che esiste tra il mestierante del giornalismo e il giornalista puro, che è colui che va alla ricerca della verità con assoluta onestà intellettuale, ed è soprattutto colui che non ha padrone, che non presta la propria penna al potente di turno, ma solo ed esclusivamente alla verità. Ed il libro è un omaggio a questa figura di giornalista, forgiata da due soli termini: rispetto e integrità morale.

Gli anni sofferti del “mobbing”
La consapevolezza di ciò affiora anche e soprattutto nel racconto dell’autrice di quegli anni in cui si è trovata a dover resistere – come conseguenza del famoso “editto bulgaro” di Silvio Berlusconi allora presidente del Consiglio, carica che per effetto di un nietzschiano eterno ritorno storico, ricopre nuovamente oggi – all’interno della Rai, ad una sorta di “mobbing” silenzioso dovuto esclusivamente all’orientamento delle sue idee, anni in cui, racconta, era costretta a vivere le sue giornate quasi fosse una giovane stagista e non una affermata giornalista di lunga esperienza. Ma è proprio dalla passione per questo lavoro che l’autrice ha attinto la capacità di andare avanti superando i momenti di sconforto.
Racconta infatti come per cinque lunghi anni sia stata relegata «per mesi e mesi a coprire la lunga, come si definisce in gergo il turno della notte, il coordinamento del secondo e terzo Tg, quello in cui sei di fatto tagliato fuori dalla confezione del giornale e dal rapporto con i colleghi, quello della solitudine e degli sbadigli, quello in cui le notizie diventano oggetto di un sentimento complesso, fatto di amore e di odio insieme». Tutto questo perché, come scrive ancora l’autrice «il diktat bulgaro conteneva una postilla non scritta [...]: imbavagliare chi non si allineava, emarginare i dissidenti, e prima di tutto sparpagliare i ranghi di quelli che lavoravano con Biagi». Il libro dunque rappresenta anche una finestra sul “dietro le quinte” di un mondo, del giornalismo televisivo in particolar modo, che non sempre è come appare, e che soprattutto, e in barba ad ogni codice di libertà di parola, subisce le peggiori pressioni dal mondo politico, adattandosi al potere di turno.

Il ritorno in Tv dopo l’“editto bulgaro”
Ma la direzione del vento prima o poi cambia e il libro, con nostra ampia soddisfazione, è il racconto del ritorno di Biagi in Tv dopo l’epurazione “bulgara” berlusconiana.
È il racconto della rinascita del team di Biagi, e nella sua Prefazione, Loris Mazzetti ribadisce come ancora oggi tutto il gruppo che collaborò a gran parte delle più belle trasmissioni “biagesche”, si senta «ancora la redazione di Enzo Biagi» perché ognuno di loro possiede «dentro, in qualche modo, un senso di appartenenza difficile da dimenticare».
L’autrice tratteggia in maniera così vivace l’entusiasmo respirato durante la progettazione di Rt – trasmissione che rappresentava «ancora una lezione di Enzo Biagi e nessuno sapeva che sarebbe stata la sua ultima lezione» – che al lettore pare quasi di poter essere presente alle riunioni o alla preparazione dei servizi. Viene ritratto un Biagi certamente provato da questa esperienza di “estraniamento” ed allontanamento, dopo quarant’anni, dalla Rai, ma pur sempre combattivo, che si appresta con emozione a questo ritorno al “suo” pubblico. E la prima lezione ce la offre già con le battute iniziali quando si accende la luce rossa della registrazione della trasmissione: «C’è stato qualche inconveniente tecnico e l’intervallo è durato cinque anni. [...] c’è stata intorno a me la nebbia della politica e qualcuno ci soffiava dentro. [...] Ci sono momenti in cui si ha il dovere di non piacere a qualcuno e noi non siamo piaciuti». Questo straordinario incipit è l’ulteriore manifestazione del suo stile elegante e mai urlato, pacato ma insieme caustico. Ma rappresenta anche un compendio etico e morale che dovremmo sforzarci di seguire sempre come un imperativo morale kantiano, anche se è difficile e i compromessi sono in agguato dietro ogni angolo.

L’arte dell’intervista
Chi scrive ha iniziato a macinare la lettura su un’opera in particolare: Le interviste di Enzo Biagi, testo che raccoglieva interviste a quasi tutti i politici dell’epoca – erano gli anni Ottanta – e per poter andare a fondo nell’analisi del libro della nostra autrice dobbiamo partire da questo assunto: Biagi è stato il maestro indiscusso della perigliosa arte dell’intervista. E uno dei fattori che rendono il testo in questione ancora più interessante è l’imparare, attraverso la testimonianza e l’esperienza dell’autrice, qualcosa del modo di interpretare e “vivere” un’intervista secondo Biagi. Il maestro delle interviste e il maestro della nostra autrice diventa anche il “nostro” maestro. Il racconto della genesi delle sue proverbiali interviste ci fa comprendere il sostrato che è alla base del mestiere del giornalismo.
Un capitolo in particolare è fondamentale per comprendere la lezione di Biagi, dove l’autrice enuclea una sorta di “dieci comandamenti” dell’intervista, dieci regole basilari tra cui destreggiarsi per far sì che si abbia un buon servizio giornalistico. Una delle regole che più hanno colpito chi scrive, è la quinta: «Non ti autocensurare. L’autocensura è peggio della censura». L’intervista deve possedere un obiettivo. Ogni domanda ha una sua valenza portante e se una domanda sembra essere scomoda questo è il segno che è una domanda da fare.
Molto rilevante è un aneddoto narrato che ci fa intendere in modo esemplare come il vecchio giornalista intendeva il suo mestiere. Biagi, infatti, bloccò l’andata in onda di un’intervista effettuata dalla nostra autrice ad un tossicodipendente, quindi un servizio giornalistico molto forte, perché nel porre le domande si era rivolta al giovane con il “tu” e non con il “lei” che invece probabilmente avrebbe usato se l’intervistato fosse stato «il figlio di Agnelli... Rispetto ci vuole. Lo stesso rispetto per tutti. [...] Anche per l’ultimo tossico cosentino agli arresti domiciliari». Questo è il vero insegnamento sul senso del rispetto che bisogna avere e sentire per chiunque al di là delle cariche rivestite o del posto in primo piano occupato.
Un’ultima sottolineatura merita l’intervista che l’autrice fa proprio al maestro, piccolo compendio su come si possa, e forse anche si debba, scrivere un pezzo e da cui attingere più d’una “dritta”.
Tutti sappiamo quanto valore abbia avuto Biagi, quanto abbia dato alla storia giornalistica in Italia, e questo grazie anche a quanto i suoi “allievi” continuano a perpetuare dei suoi insegnamenti.
Ci auguriamo che altri “Biagi” possano apparire e continuare sulla sua strada senza aver paura di risultare antipatici, difendendo sempre e comunque il diritto di poter esprimere liberamente il proprio pensiero.

Angela Potente

(direfarescrivere, anno IV, n. 36, dicembre 2008)
 
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