Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
In primo piano
La Destra e la Sinistra nel nuovo secolo:
tra cultura teocon e movimenti pacifisti
Partendo dagli “stravolgimenti” politico-economici del Novecento
l’analisi dei mutamenti in corso e della ridefinizione degli obiettivi
di Luigi Grisolia
Nessuna contrapposizione terminologica ha avuto maggior successo. Tra Destra e Sinistra esiste una differenziazione che trascende anche la pratica politica: ha risvolti sociali, psicologici, storici. Spesso è una delle chiavi per interpretare una determinata realtà. Certo, non siamo più negli anni Sessanta e Settanta, quando tale contrapposizione era assolutamente al centro di qualsiasi ragionamento o riflessione.
Ma resta comunque una categoria interpretativa fondamentale.
E allora, le domande che ci poniamo in questa sede sono: quali sono le prospettive della Destra e della Sinistra nel XXI secolo? Valgono ancora, da un punto di vista teorico-pratico, le diversità sancitesi nel Novecento? La risposta è no. La risposta è che sia la Destra che la Sinistra stanno attraversando una fase di metamorfosi nella quale sicuramente sono presenti elementi novecenteschi, ma che allo stesso tempo dà vita a prospettive nuove, che si intersecano con i forti cambiamenti avvenuti durante il secolo passato a livello economico e politico.
Tonino Perna, docente di Sociologia economica presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Messina, ha recentemente pubblicato Destra e Sinistra nell’Europa del XXI secolo (Terre di Mezzo Editore, pp. 178, € 10,00): un agile pamphlet che si propone proprio di affrontare le questioni in oggetto.

Alcuni avvenimenti essenziali
La prima cosa da considerare, rileva l’autore, nel valutare la fisionomia assunta della Destra e della Sinistra europea consiste nel tener ben presenti alcuni cambiamenti fondamentali che si sono verificati durante il secolo passato.
Una delle tante conseguenze del crollo del comunismo, forse un po’ sottostudiata ma la cui importanza è rilevante, è stata quella della scomparsa della paura della rivoluzione. Questa paura, per oltre due secoli, fin dai tempi della “Speenhamland” Law del 1795 (prima grande riforma sociale a favore dei ceti poveri) e della legge delle 10 ore di lavoro del 1848 (guarda caso, l’anno di uscita del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels) è stata il motore della politica riformista, portando poi all’approvazione, negli anni Settanta dell’Ottocento, delle prime leggi di tutela delle donne, della salute dei lavoratori e un abbozzo di sistema pensionistico. Finché, a cavallo del Novecento, si arriverà alla nascita del welfare.
Nota infatti Perna: «a scorrere la storia della legislazione sociale in Europa, si scopre un filo rosso che lega le riforme sociali in Paesi e in circostanze diversi: è la paura della rivoluzione». Con la caduta del Muro di Berlino, questa paura è svanita: la minaccia più credibile al sistema capitalistico, ossia la rivoluzione comunista, non esiste più. E così «il sistema capitalistico nei Paesi occidentali non solo non teme più una rivoluzione dal suo interno, ma sta riducendo il peso dei lavoratori attraverso la politica di delocalizzazione del suo sistema industriale».
Un altro avvenimento politico-economico da evidenziare è il problema dello sviluppo dei paesi in crescita, che si è posto a partire dagli anni Settanta del Novecento. Nota l’autore: «dopo aver sperimentato e visto fallire diverse vie nazionali socialismo, dopo aver speso fiumi di inchiostro e di parole per trovare la teoria dello sviluppo più appropriata per i cosiddetti Paesi in via di sviluppo – lo sviluppo endogeno, umano, l’ecodevelopment sostenibile, ecc. – la risposta è venuta al di fuori delle analisi accademiche e politiche. E la risposta si chiama “neoliberismo autoritario”».
Storicamente, ci fu innanzitutto l’esperimento di una “via africana al socialismo”: Ghana, Guinea, Mali, Kenya, Zambia. Esperimenti che subirono una vera e propria débacle negli ultimi decenni del Novecento, o per implosione (quelli sostenuti dall’Urss, come in Mozambico e Angola) oppure perché non sopravvissero allo scontro con le multinazionali occidentali. La Sinistra europea – tranne rare eccezioni – si disinteressò dell’Africa, se non quando “costretta” dagli eventi ad interessarsene (leggasi: potenza dei mass media). L’interesse politico fu invece verso l’America Latina, dove c’erano molti movimenti di lotta anticapitalistici. In primis, Nicaragua e Cuba. Ma anche qui fallimenti.
E, così, dopo tutti questi fallimenti, arriva il neoliberismo autoritario. Ha cominciato il Cile di Pinochet, e lo hanno poi imitato le “tigri asiatiche” – Corea del Sud, Singapore, Honk Kong, Thailandia e Taiwan – il cui sviluppo incredibile si è arrestato nel 1997 per due motivi: la crisi finanziaria innestata da un crollo delle borse che ha avuto ripercussioni negative fortissime sulle economie nazionali e l’emergere della Cina. E la Cina ha incarnato al meglio questo nuovo modello: «Il neoliberismo autoritario, infatti, predica il libero mercato ma produce oligopoli sempre più potenti e pervasivi. Sostiene di voler liberare i cittadini dalle tenaglie dello Stato burocratico, ma di fatto riduce le libertà conquistate dalla borghesia con la rivoluzione francese. Le libertà di espressione, di associazione, di informazione, quando non sono represse in maniera visibile, sono di fatto confinate ai margine di un mercato onnivoro che ha creato l’industria dell’informazione trasformando in merce i diritti di cittadinanza».
La cosa, in un certo senso più drammatica, nota ancora l’autore, è che dopo l’11 settembre, preda della fobia terroristica, tale modello tende ad estendersi anche nei paesi democratici, attraverso la restrizione delle libertà civili, degli spazi della privacy e «persino la grande tradizione democratica inglese dell’Habeas Corpus deve fare qualche passo indietro dopo le bombe nella metropolitana di Londra». Ciò trova il consenso sia a Destra che a Sinistra, mentre solo poche organizzazioni della società civile riescono in qualche modo a resistere.
Infine, un altro cambiamento molto importante è da rilevarsi sul piano della rappresentanza politica – i partiti – e sociale – i sindacati. I primi, come ha notato Paul Ginsborg, hanno svolto una funzione decisiva per la democrazia e la crescita della società civile fino agli anni Settanta; dopodiché, alla crescita del loro peso nell’occupazione dello stato e nella gestione delle sue risorse è corrisposto un fortissimo calo degli iscritti: i partiti sono diventati, rileva Perna condividendo l’opinione di Peter Mair, degli enti parastatali. Ai sindacati è accaduta la stessa cosa: dopo aver conquistato molti diritti a favore dei lavoratori – costati sacrifici e perdite di vite umane – si sono “sclerotizzati”, hanno visto una vertiginosa diminuzione degli iscritti ma allo stesso tempo mantengono un potere eccessivo nella gestione della res publica. Correlata a questo è la crescita – troppo spesso eccessiva – dei leader, che tengono in mano soprattutto i partiti senza dover dare conto agli iscritti di quello che fanno.
In definitiva, «siamo entrati nel XXI secolo con forme di organizzazione politica e sociale – partiti e sindacati – obsolete, che perdono continuamente credibilità, che scoraggiano la partecipazione, che vengono spesso travolte dagli scandali.[...] Il nostro dramma attuale è che non conosciamo altre forme della politica consolidate, istituzionalizzate, che funzionino».

La differenza classica tra Destra e Sinistra
Un tempo, la distinzione tra Destra (conservatrice) e Sinistra (progressista) era abbastanza chiara.
La Destra incarnava la difesa dello status quo, dell’ordine sociale e gerarchico esistente, la credenza in determinati valori (primi di tutto, la triade religione-patria-famiglia). Pertanto, essere di Destra significava – evidenzia l’autore – «battersi per la conservazione delle forme sociali, economiche e politiche ereditate, a partire dalla sacralità della proprietà privata».
Viceversa, la Sinistra rappresentava la voglia di cambiare l’ordine sociale esistente, e quindi di metterne in discussione «i privilegi economici e sociali, le forme alienanti della religione, le superstizioni e le forme arcaiche delle culture locali» e perciò promuovere il progresso e la modernizzazione della società, della cultura, delle istituzioni. È l’equazione cambiamento=progresso=modernizzazione.
Questa equazione, che inglobava anche fiducia illimitata verso il progresso tecnologico, è entrata in crisi negli anni Settanta, prima con l’approccio marxista (la tecnologia è una merce della società capitalistica e come tale va considerata) e poi con la Sinistra alternativa – ambientalisti e pacifisti in primis – in particolare, la questione delle centrali nucleari è stato il primo esempio – ma ne seguiranno altri, tra cui, attualmente, quello sulle biotecnologie – di spaccatura, all’interno della stessa Sinistra, tra conservatori e progressisti, che ha sancito la fine dell’equazione sopra citata.
Dal canto suo, la Destra, in seguito alle esperienze di Reagan e della Tatcher, al supporto di molti intellettuali e soprattutto al crollo del comunismo, ha potuto presentarsi come forza moderna e liberatrice; una Nuova Destra che «abbracciando con entusiasmo le nuove tecnologie – dal nucleare all’agricoltura biotecnologica fino alle grandi opere di ingegneria –, esaltando le virtù del mercato globalizzato, del libero scambio esteso a tutti gli angoli della terra, ha capovolto il rapporto storico Progressisti/Conservatori, che la faceva identificare nell’immaginario collettivo come una forza di resistenza al cambiamento. Ma le mancava un’anima, un’identità forte che non fosse solo quella del mercato globale». Come vedremo, quest’anima arriverà dagli Usa.

Forze emergenti, da entrambe le sponde
Valori un tempo considerati propri della Destra tecnocratica (e anche di quella neofascista) ormai sono diventati luoghi comuni nel linguaggio e nell’immaginario corrente: primato del libero mercato capitalistico e della competitività; difesa della civiltà occidentale e della nostra cultura. E poi anche alcune questioni sul problema demografico, con particolare riferimento all’invecchiamento, visto con una minaccia per la prosecuzione della civiltà.
Nonostante tali successi, la Destra ancora è divisa, come conseguenza della scelta filoatlantica compiuta alla fine della Seconda guerra mondiale. Da una parte, c’è un filone orgoglioso della propria cultura, della tradizione, che difende la specificità europea sia rispetto alla globalizzazione che al dominio statunitense: spesso essa assume connotazioni razziste (come Haider in Austria o Le Pen in Francia). Dall’altra, una Destra tecnocratica e modernista, che punta alla privatizzazione dell’economia e alla liberalizzazione del mercato del lavoro. Fautrice di un’Europa forte, capace di far sentire la sua voce, ma che contemporaneamente ritiene fondamentale l’alleanza con gli Usa.
Tra queste due Destre, però, sta diffondendosi anche in Europa una nuova cultura, capace di fare da collant: sono i teocon (per approfondire, clicca qui). Cultura nata negli anni Ottanta negli Usa, è sorta in concomitanza con un risveglio religioso della società statunitense. Michael Novak, uno dei padri di questa corrente, sostiene che le ineguaglianze sociali e le ingiustizie siano un dato immutabile della storia. E sostiene anche che «il capitalismo democratico, alimentato da forti valori etici, è il migliore sistema per permetter ad ognuno di esprimere le proprie capacità ed alla società di valorizzare le energie creative». Del resto, se è la società sperequata è immutabile, la politica deve rivolgersi altrove: aborto, clonazione, eutanasia, matrimoni gay.
In Europa, a differenza degli Usa, non c’è un risveglio religioso. Ma tale cultura è portatrice di un risveglio politico molto forte: «la “civiltà cristiana” è in pericolo e deve difendersi per non scomparire. Deve, innanzitutto, difendersi dalla religione islamica ritenuta, strutturalmente e definitivamente, come una religione intollerante ed aggressiva». Su tale risveglio, incidono, a detta di Perna, tre fattori: la paura del terrorismo, ben manovrato dai poteri forti occidentali e anche dalle élites arabe timorose di perdere il potere; la crescita dei paesi asiatici (Cina su tutti) e il permanere di flussi migratori importanti in presenza di un mercato del lavoro stagnante e caratterizzato dal precariato giovanile.
Tre fattori che vengono tradotti dalla nuova Destra in obiettivi politici che – rifacendosi alla classica triade religione/patria/famiglia – coincidono con la salvezza della civiltà cristiana e quindi con ciò che ne consegue: la lotta per difendere la vita significa, allo stesso tempo, opposizione all’aborto e guerre preventive contro il terrorismo, cacciata dei delinquenti extracomunitari e leggi repressive. Questa nuova Destra, di anima teocon, cerca di conquistare spazi nel cosiddetto Centro moderato (il «Terzo incluso» teorizzato da Bobbio).
Anche dalla parte opposta c’è una forza emergente. Mentre la Sinistra socialdemocratica, fin dai tempi della via alternativa proposta da Giorgio Ruffolo a Metà degli anni Ottanta, è alla ricerca di una sua ridefinizione, rimanendo comunque e paradossalmente l’unico baluardo a difesa della democrazia innanzi al neoliberismo autoritario, comincia a farsi luce quella che potremmo definire “la Sinistra dei movimenti”. Rimasta «stregata» dalla rivolta zapatista in Chiapas del 1994 e dal programma di Marcos, ha scoperto la pace quale valore centrale e condanna ogni forma di guerra (da quella umanitaria alle operazioni di polizia), e che quindi è in opposizione alla visione marxista della violenza come motore della storia.
Questa Sinistra, nota Perna, e qui concludiamo, ha fatto un salto qualitativo rispetto alla cultura della Sinistra storica, che si traduce nel passaggio: «a) dall’idea della nazionalizzazione dei mezzi di produzione ad una strategia di difesa e gestione dei beni comuni; b) dalla gestione statale, centralizzata e burocratica del territorio nazionale al governo di una rete di Municipi [...]; c) dalla crescita economica come valore in sé alla rivalutazione dei valori d’uso, del risparmio energetico, alla tutela dei beni ambientali e culturali; d) dall’idea che la liberazione dell’umanità passi attraverso il progresso tecnologico e la crescita infinita di merci, al “senso del limite”, al principio di precauzione ed al rispetto degli equilibri naturali».

Luigi Grisolia

(direfarescrivere, anno II, n. 10, dicembre 2006)
 
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