Anno XX, n. 218
marzo 2024
 
In primo piano
Sistema maggioritario o proporzionale?
Pregi e difetti, alla ricerca del migliore
Valutando le positività e le negatività di entrambi i meccanismi,
una conclusione spiazzante: bisogna affidarsi... al doppio turno!
di Luigi Grisolia
Tempo di elezioni, tempo di polemiche. In questa sede non discetteremo su cosa accadrà, sugli scenari futuri del “dopo”: discuteremo, invece, del “mezzo” che ha avuto un effetto importante sulla conformazione del sistema politico (e anche partitico) italiano subito dopo i risultati: il sistema elettorale.
Si pensi, semplicemente, alla risicata maggioranza ottenuta in Senato dall’Unione, a fronte di un’ampia maggioranza, avuta perché è scattato il relativo premio, alla Camera dei deputati.
Come è noto, il governo Berlusconi ha voluto il passaggio dal maggioritario al proporzionale, e questo ha avuto fin da subito (basti pensare alle alleanze che sono state sottoscritte in vista del 9-10 aprile), e ne avrà ancora, conseguenze rilevanti.
E allora, nella diatriba tra i sostenitori dell’uno o dell’altro sistema, cercheremo di focalizzare quali sono i punti a favore e contro, e arriveremo ad una conclusione spiazzante: il miglior meccanismo è costituito dal doppio turno. Attraverso il pensiero di Giovanni Sartori cercheremo di spiegarvi perché.

Vince uno o vincono in tanti?
Prima di tutto, bisogna definirli, e utilizzando proprio le parole dell’esimio politologo: «un sistema elettorale è maggioritario se il voto si esprime in collegi (di regola uninominali) nei quali il vincitore è chi taglia primo il traguardo [ossia chi prende il maggior numero di voti, ndr], il cosiddetto first-past-the-post system. Viceversa, ogni sistema elettorale nel quale il voto si esprime in collegi plurinominali (da due in poi) eletti sulla base del più alto numero dei voti, è un sistema proporzionale».
In quest’ultimo caso ci sono due modalità molto differenti per stabilire le proporzioni vincenti: determinare dei quozienti elettorali (che è il metodo più diffuso) o eleggere i più votati (i primi due in collegi binominali, ecc.). Nel maggioritario, invece, si potrà considerare vincitore chi ha una maggioranza assoluta (50.01%) o, molto più frequentemente, chi ha la “semplice” maggioranza relativa; tenendo sempre presente, che «le maggioranze si muovono su e giù in ragione della base del conteggio, che può essere sia l’universo degli aventi diritto, cioè gli elettori inscritti nei registri elettorali, sia il numero dei votanti effettivi (coloro i cui voti sono validi)».
Un’altra differenza importantissima è che, mentre il proporzionale propone generalmente liste di partiti, l’altro, invece, di persone: e quindi, nel primo caso è richiesto un voto al candidato singolo, nel secondo al partito. Ma non dimentichiamo però che ci sono diverse varianti: sistemi “puri” è rarissimo trovarli.
Discutendo del proporzionale, non si può non tener conto del fatto che la sua proporzionalità non è stabilita solo dal metodo di ripartizione dei seggi, ma anche e soprattutto, evidenzia Sartori, dalla grandezza delle circoscrizioni, perché più è ampia la circoscrizione maggiore è la proporzionalità.

Tra i due, qual è il migliore? Il maggioritario...
Ma, tra i due, quale scegliere? É questa la domanda centrale. Ancora una volta, seguiremo lo studioso fiorentino per cercare di capire come e perché scegliere, fissando positività e negatività di ciascun sistema.
Al maggioritario vengono riconosciuti solitamente quattro meriti: elegge una maggioranza di governo; riduce la frammentazione partitica; crea una relazione diretta tra elettori e rappresentanti; migliora la qualità dei politici.
Il primo «esiste soltanto quando esiste, e cioè quando elezioni maggioritarie producono un sistema bipartitico»; e questo è possibile solamente a due condizioni non così facili da realizzarsi: un sistema partitico strutturato (ossia ove i partiti riescano a influenzare in maniera decisiva le preferenze della maggior parte dei votati) e una forte dispersione del voto degli elettori “incoercibili”, sordi ai richiami.
Il secondo argomento sicuramente è più sostenibile: presupposto che il sistema maggioritario non riduce la frammentazione di per sé, ma sono necessari altri fattori. Se infatti non si genera un bipartitismo, comunque il numero dei partiti viene mantenuto basso.
Riguardo al terzo merito, beh, ci sarebbe da discutere sul valore della suddetta relazione tra elettori e rappresentanti. E questo perché la grandezza dei collegi varia ampiamente da paese e paese. E se la Nuova Zelanda può permettersi un eletto ogni 20.000 abitanti, quelli di grandi dimensioni (come gli Usa) hanno anche collegi con centinaia di migliaia di elettori. Prendendo un caso medio, ossia di 50.000 aventi diritto a collegio, c’è da chiedersi: visto che il mio voto conta per un cinquantamillesimo, tale proporzione crea un legame significativo?
Inoltre, se un candidato vince con una maggioranza relativa, quindi inferiore al 50%, in base a questo assunto, il resto dei voti – cioè, la maggior parte – «va al macero». E allora, in conclusione, il vincitore con tale maggioranza rappresenta, semplicemente, il suo collegio.
Per quanto concerne il quarto merito, la difficoltà sta nel comprendere cosa s’intenda per “qualità”. A tal proposito Sartori scrive: «Fin quando l’elettore si imbatte in cattivi soggetti – politici corrotti, avidi e in sostanza “sporchi” – allora politici puliti, onesti, ben intenzionati rappresentano sicuramente un miglioramento di qualità. Ma buttar fuori mascalzoni non porta automaticamente dentro “buoni” politici». In ogni caso, è evidente che nel maggioritario le caratteristiche personali dei candidati sono molto più rilevanti rispetto all’altro sistema che qui analizziamo.
Infine, ricordiamo anche la grande, e fondata, critica che si muove a tale sistema: penalizza la rappresentatività. Questo è senz’altro vero, e intuitivo: se vince solo uno, tutti gli altri (che verosimilmente si fanno portatori di diverse istanze della società) sono esclusi. Senza contare l’effetto distorsione che può addirittura portare alla vittoria un partito che conquista sì la maggioranza assoluta dei seggi, ma arriva secondo nel voto popolare. É successo, per esempio, in Gran Bretagna nel 1974: laburisti al 37,2%, conservatori al 39,9%; ma al governo andarono i primi.

...o il proporzionale?
Il merito indiscusso del sistema proporzionale è quello di garantire una rappresentanza equa. Su questo non ci piove, e per molti è un titolo “vincente”.
Allo stesso tempo, però, esso è sottoposto a due critiche principali: causa frammentazione partitica; non risolve l’esigenza della governabilità.
Secondo Sartori la prima accusa non è così fondata come sembrerebbe a primo acchito. In realtà, infatti, «molti sistemi proporzionali impuri mantengono il numero dei partiti rilevanti al livello di 3-4, al massimo 5; e questo non è, di per sé, un grado particolarmente dannoso di frammentazione». Ciò ci porta a dire: meno puro è il sistema, meno sono i partiti. E anche vero, però, che un tale numero di partiti comporta governi di coalizione. Ma in questo caso, la frammentazione diventa un problema con il pluralismo estremo (più di cinque partiti rilevanti), peggio ancora se unito ad una forte polarizzazione, ossia ad una marcata distanza ideologica, o di altro tipo, tra i vari soggetti.
La seconda critica è da analizzarsi in base a tre aspetti: la durata e la stabilità dei governi; l’imputazione e l’individuazione delle responsabilità; se i governi di coalizione possano realmente governare.
Perché i governi non devono cadere? La risposta è sempre la stessa: un governo stabile è un governo efficiente. Ma avverte Sartori: «la stabilità in questione è soltanto una durata; e i governi possono essere allo stesso tempo longevi e impotenti: la loro durata non è in alcun modo prova e nemmeno causa di efficienza o efficacia».
Il problema, piuttosto, è se i governi siano capaci di governare: e questo dipende ovviamente dai partiti della coalizione, e dal loro grado di polarizzazione. Se c’è fortissima distanza, se c’è disaccordo su molte politiche, allora i governi agiranno con difficoltà, rischieranno l’impallo o addirittura, in determinati sistemi politici, la caduta (come il governo Prodi nel 1998). Quindi, in definitiva, stabilità non è uguale ad efficienza: è una possibilità, non un’uguaglianza.
Per quanto riguarda il secondo punto: si tratta di un rilevante problema di accountability, ossia di individuazione dei responsabili da parte dell’elettore. Capire, cioè, a chi attribuire i meriti o le condanne in relazione alle politiche e quindi premiarlo o punirlo alla consultazioni. Nei governi di coalizione non c’è dubbio che molte politiche siano frutto di compromessi, e tanto maggiore saranno quanto maggiore è la polarizzazione all’interno della coalizione stessa. E questo comporta due questioni: intanto, che i partiti inevitabilmente dovranno sacrificare parte del loro programma (e quindi, non rispettare pienamente quanto promesso ai propri votanti); e poi, è verosimile che, specie su tematiche importanti, ci sia da parte degli stessi partiti un “rimbalzo” di responsabilità nel segno del “se non fosse stato per X, si sarebbe potuto fare di più”. Povero elettore!
Infine, l’ultimo punto, che riprende temi dei precedenti. Se i governi di coalizione possano realmente governare... dipende. Ancora in nostro aiuto arriva il politologo fiorentino: dipende «da quanti sono i componenti della coalizione» e «se le coalizioni siano (a prescindere dal numero di partiti che le compongono) solidali o conflittuali, se le loro “parti” giochino in armonia o invece giochino l’una contro l’altra. E a questo effetto la variabile cruciale è la polarizzazione complessiva del sistema politico». E quindi se le coalizioni sono eterogenee oppure omogenee.
In conclusione: «La rappresentanza proporzionale non porta necessariamente, allora, a governi di coalizione litigiosi e bloccati. Così come non si deve generalizzare in tema di frammentazione, analogamente la critica di governabilità non si applica al proporzionalismo senza ulteriori qualificazioni. Questa critica è sicuramente fondata, comunque, quando il proporzionale produce coalizioni eterogenee tra alleati, o, in effetti, tra non-alleati che si paralizzano tra loro con veti incrociati. E quando è così la rappresentanza proporzionale merita tutte le critiche che riceve».

Ma allora?
Come avrete senz’altro notato, abbiamo dato, basandoci sul pensiero di Sartori, che condividiamo, una valutazione sugli aspetti negativi e positivi dei due sistemi elettorali. Ma non abbiamo detto qual è il migliore. Perché?
La risposta è: nessuno dei due. Ci troviamo infatti d’accordo proprio con Sartori nel sottolineare che, forse, il miglior sistema in realtà è il doppio turno. Certo, teniamo presente però che bisogna sempre considerare le condizioni contingenti, caratteristiche di ciascun sistema politico, ma in linea generale, si può affermare quanto detto.
Un sistema a doppio turno, intanto, è un vero è proprio sistema a sé stante. «Da una parte permette – evidenzia il politologo – agli elettori di votare due volte, con un intervallo di una o due settimane tra il primo e il secondo voto, e ciò implica che gli elettori possono consapevolmente riorientare le loro scelte sulla base dei risultati del primo turno». Dall’altra parte esso è «un sistema altamente flessibile che permette sia soluzioni maggioritarie che proporzionali»: si avranno le prime se opererà in collegi uninominali, le seconde se in circoscrizioni plurinominali.
Questo sistema ha due pregi non indifferenti, a parere di Sartori decisivi, ossia: permette maggiore e migliore informazione, consentendo quindi, in seconda battuta, una «scelta razionale», e penalizza i partiti antisistema. Questi ultimi si dividono in partiti: estremisti (ossia rivoluzionari, che mirano a conquistare il potere); estremi (quelli che si trovano collocati ai poli del sistema politico); isolati (che sono tali in quanto emarginati e condannati all’ostracismo da un certo clima di opinione prevalente). Penalizzare questi partiti è positivo in quanto si facilita la governabilità in condizioni avverse.
Inoltre, questo sistema si caratterizza perché permette in maniera chiara l’esercizio del voto strategico, di cui parleremo fra pochissimo.

Tra sincerità e strategia
Esistono diverse tipologie di voto. Studi politologici hanno dimostrato come l’elettore non decide a chi dare la propria preferenza solo ed esclusivamente in base al programma presentato. Anzi, per un’alta percentuale contano di più altri elementi, come l’identificazione con un partito o la personalità dei candidati. Tra le varie tipologie, vogliamo dedicare queste ultime righe al voto strategico. Esso, si oppone a quello sincero. Come ha ben evidenziato Gianfranco Pasquino, «Ogni volta che, senza porsi nessun problema particolare e a prescindere da qualsiasi altra considerazione, l’elettore si orienta a votare comunque per il candidato e/o per il partito preferito, allora il suo voto sarà da considerarsi sincero. Quando l’elettore decide, invece, di votare non per il candidato e/o per il partito preferito, ma per un altro candidato e/o partito, [...] allora si parla di voto strategico».
Le motivazioni per agire in quest’ultimo senso sono le più diverse, e in particolare: esprimere dissenso, votare per il candidato che si considera vincente, votare per quello meno sgradito – per evitare di avvantaggiare quello più sgradito – visto che si ritiene che il preferito non abbia alcuna possibilità di farcela (il «fattore psicologico»: così lo ha definito Maurice Duverger).
In un sistema proporzionale – la riforma varata dal governo Berlusconi, com’è noto, è di questo tipo – le probabilità di un voto strategico sono alte. Già nella Prima repubblica possiamo trovarne chiari esempi, ed è verosimile che anche alle consultazioni di questo mese molti elettori ne faranno ricorso, per i motivi sopra elencati. Chi infatti, pur non sopportando Prodi, lo ha votato per evitare che vincesse Berlusconi? Tante persone. Chi, pur non apprezzando Berlusconi, lo ha votato nell'intento di penalizzare Prodi? Molti.
Nella storia italiana, nota Pasquino, possiamo rintracciare tre tornate elettorali in cui chiaramente il voto strategico ha avuto un peso decisivo per l’esito finale: 1948, 1953 e 1976.
Nel primo caso, la Dc vince con il 48,5% dei voti, addirittura il 13% in più rispetto a due anni prima (elezioni per l’Assemblea costituente). Davanti al “pericolo rosso” rappresentato dal Fronte popolare (comunisti e socialisti insieme) è praticamente certo che «una consistente percentuale di elettori abbiano effettuato una conversione strategica dai partiti minori sulle liste della Democrazia cristiana, considerata maggiormente in grado di sconfiggere il Fronte popolare e di opporre un ostacolo insormontabile al social-comunismo».
Nel 1953, invece, il voto si è rivolto contro la stessa Dc, che aveva varato la famosa “legge truffa” la quale, al partito che superava il 50% dei voti attribuiva un premio di maggioranza esagerato: molti elettori, contrari proprio a questa legge, diedero quasi 600.000 voti a liste piccole, come Unità popolare e Alleanza democratica nazionale. E, infatti, la Dc scese al 40,1%.
Infine, nel 1976, si è avuto una sorta di “revival”: davanti all’annunciato sorpasso del Pci, diversi elettori di partiti minori votarono Dc e, così, i comunisti ebbero una crescita rilevante (dal 27,2 al 34,4%, un aumento di circa 3 milioni di voti), ma il partito cattolico tenne e il superamento temuto non ci fu.

Luigi Grisolia

Approfondimenti:

- Maurizio Cotta, Donatella Della Porta, Leonardo Morlino, Scienza politica, il Mulino, Bologna, 2001, pp. 274-307;
- Gianfranco Pasquino, Sistemi politici comparati, Bononia University Press, Bologna, 2003, pp. 47-77;
- Giovanni Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino, Bologna, 2004, pp. 15-94;
- Idem, Elementi di teoria politica, il Mulino, Bologna, 1995, pp. 329-364.

(direfarescrivere, anno II, n. 4, maggio 2006)
 
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