Nella sua Storia critica del calcio italiano (Bompiani), Gianni Brera – forse il più creativo giornalista sportivo che sia vissuto in Italia – scriveva a proposito di questo sport: «È il gioco più bello e immediato del mondo ma si giocava nelle strade e perciò venne subito considerato volgare: certo è plebeo, schietto: simboleggia la difesa degli affetti più cari – madre sposa figli – dagli assalti nemici, ai quali si restituiscono pari pari le offese».
Questa interpretazione quasi “psicanalitica” e altri adagi e metafore giornalistiche di uso comune quali «il campionato più bello del mondo», «lo sport più amato dagli italiani», «tutta l’Italia si ferma davanti agli schermi quando gioca la nazionale»… hanno ancora una loro validità nel nostro paese o fanno ormai parte di una vetusta retorica?
Gli autori del presente articolo, da sempre appassionati di calcio, pur non illudendosi che vi sia stato un passato del tutto luminoso da contrapporre a un presente interamente tenebroso, ritengono che la dea Eupalla – mitologica creatura inventata dall’estro del suddetto Brera – abbia da tempo voltato le spalle ai nostri campionati. E cercheranno di dimostrarlo con fatti e cifre, limitando queste ultime a partire dal torneo di serie A 1994-95, in cui si introdusse la novità dell’assegnazione dei tre punti a vittoria (a questo cambiamento hanno fatto seguito, in modo progressivo nel tempo, numerose innovazioni nelle regole tecniche e societarie, in campo nazionale e internazionale, fatto straordinario per uno sport che era rimasto identico nei suoi dettami per circa cento anni).
I “gloriosi” numeri di Juventus e Milan
Come si sa, un primo segno della vitalità di un gioco è dato dall’equilibrio che si viene a creare tra i contendenti. Ciò vale anche e soprattutto per uno sport come il calcio, che basa di per sé il suo fascino sull’incertezza (il risultato delle partite è molto, molto aleatorio, determinato da episodi, a volte fortunosi, e spessissimo non premia chi ha gareggiato meglio o ha creato più occasioni da rete). Tanto che alcuni ricercatori di Los Alamos lo hanno definito «il gioco più imprevedibile del mondo».
Nell’attuale campionato di serie A 2005-06, dopo il girone d’andata, il punteggio della sola Juventus capoclassifica (52: 17 vittorie, un pareggio e una sconfitta, record assoluto!) è quasi pari a quello globale delle ultime quattro (54). Ancora: l’insieme dei punti (172) delle ultime dieci in classifica, vale a dire della metà delle partecipanti, non arriva alla somma dei punteggi (174) delle prime quattro.
Partendo, come dicevamo, dal campionato 1994-95, spicca il dato che nell’arco di questi ultimi anni gli scudetti se li sono spartiti soprattutto due società, Juventus (6 vittorie) e Milan (3 successi), che hanno lasciato le briciole ad una coppia di squadre, le romane Lazio e Roma, con una vittoria a testa. E pare che proprio gli sforzi economici compiuti dalle capitoline per essere competitive e, quindi, raggiungere tale risultato, siano costati loro uno spaventoso deficit di bilancio, dal quale esse non si sono mai più riprese. Le quattro squadre vincitrici sono, insieme all’Inter e al Parma, le uniche ad aver partecipato a tutti gli ultimi dodici campionati, compreso l’attuale (seguono Udinese con 11 partecipazioni e Fiorentina con 10, poi il vuoto).
Se confrontiamo questi dati sui vincitori del campionato con le statistiche di altri “decenni”, come quello che va dal 1968 al 1978, o dal 1981 al 1991, notiamo che, nel primo caso, troviamo tra le scudettate Fiorentina, Cagliari, Inter, Lazio, Torino, mentre, nel secondo, anche Roma, Verona, Napoli (2 volte), Inter, Sampdoria. Oltre, ovviamente, alla Juventus e, più distaccato, al Milan.
Sommando i punti ottenuti negli ultimi undici campionati, si va dai quasi 800 punti raccolti dalla Juventus (773), ai 677 del Milan, ai circa 650 di Lazio (656), Inter (654) e Roma (635), fino ai 610 del Parma, il che già costituisce un grosso gap di ben 163 punti rispetto alla squadra della Fiat, accumulato in sole undici stagioni; le altre sono ancor più nettamente distaccate.
La Juventus, vincitrice nel 2004-05, col campionato aumentato da 18 a 20 squadre, ha raccolto ben 86 punti, un record assoluto. Il Milan, l’anno precedente, ha vinto il torneo con 82 punti, altro record per un torneo a 18 squadre, con un vantaggio – sempre record – di 11 punti sulla Roma. Nell’anno in corso i bianconeri hanno stabilito la migliore sequenza di vittorie iniziali in assoluto di tutta la storia della serie A con 9 successi di fila!
Evitiamo al lettore gli altri dati sul maggior numero di gol segnati, di vittorie in casa, in trasferta, di sequenze positive, di minor numero di sconfitte, di reti subite, ecc., senza eccezione appannaggio delle maggiori società.
Le miserie delle “piccole”
Il Brescia nel 1994-95 raccolse in tutto appena 12 punti!
Un po’ meglio è andata all’Ancona nel 2003-04 (13 punti), al Napoli 1997-98 (14), alla Reggiana e al Venezia rispettivamente nel 1994-95 e nel 2001-02 (18). Ancora la Reggiana 1994-95 e l’Ancona 2003-04 persero tutte le partite in trasferta disputate… tranne pareggiarne una! E sempre la Reggiana riuscì, nel 1996-97, a essere l’unica squadra del periodo studiato a non aver mai vinto neanche una partita in casa. Il Napoli, nel 1997-98, subì ben 76 gol complessivi, con una differenza reti di -51.
Ma le disgrazie – leggasi retrocessioni– non finiscono mai: bisogna aggiungere che, tranne il Brescia, tutte le altre appena nominate, in tempi successivi, sono fallite e oggi militano in C1 o in C2.
Certo, vi è qualche eccezione. Il Chievo sta disputando, in buona posizione, il suo quinto torneo consecutivo in serie A, e, insieme a Juventus, Inter e Parma, non ha mai conosciuto la retrocessione in serie B da quando esiste il girone unico del massimo campionato. E il Livorno veleggia nell’alta classifica.
Lodevole, nell’ultimo decennio, il comportamento di squadre del Mezzogiorno quali Cagliari, Lecce, Reggina, le prime due con 7 partecipazioni nei tornei di serie A, la terza con 6 quasi di fila (una sfortunata e contestata retrocessione in B, con prontissima risalita).
Tuttavia, il difficile campionato che stanno attualmente disputando tutte e tre queste ultime formazioni dimostra vieppiù come, nel complesso, le piccole navighino nella precarietà.
La “sudditanza psicologica”
Data l’evidente disparità delle forze in campo, il lettore ingenuo e poco interessato alle cose calcistiche potrebbe pensare che l’arbitraggio, se non proprio tenda a favorire le malcapitate che incontrano una “grande”, almeno sia equanime.
Ebbene, se consideriamo i rigori assegnati, massimo momento di incidenza delle decisioni dei direttori di gara sulle partite, notiamo che il maggior numero di quelli concessi a una squadra in una stagione è di 15 e il beneficiario è stato il Milan nel 2002-03. Sempre il Milan, in due occasioni – lo stesso 2002-03 e nel 1999-2000 –, si è visto destinare a favore ben 12 rigori in più di quelli subiti contro! Per par condicio, la Juventus detiene il record di minori rigori assegnati contro: solo 1 nelle 38 partite del 2004-05.
Ben più dura la vita per le piccole: al Siena nello scorso campionato non è stato concesso neanche un calcio di rigore; al Lecce nel 2000-01 ne sono stati dati contro ben 16, e 15, nel 2001-02, al Venezia, che, insieme all’Empoli del 2003-04, divide il record di saldo negativo tra rigori contro/a favore: -11.
Se si guarda alle statistiche sul rapporto numero di falli fischiati/ammonizioni o espulsioni, si noterà che, perché scatti un cartellino, una grande squadra deve commettere in media molte più infrazioni – e ciò non significa che ne siano mancate altre, non rilevate dal fischietto arbitrale – di una piccola.
Il vecchio concetto di “sudditanza psicologica”, nato decenni addietro per indicare la tendenza di fondo del direttore di gara – che, seppure inconsciamente, favorirà costantemente, nei casi dubbi (ma solo in quelli?), la grande società ai danni di quella piccola – appare quanto mai attuale.
Entrano in campo le televisioni…
Come ci spiegano Giorgio Falsanisi ed Enrico Flavio Giangreco nel libro Le società di calcio nel 2000. Dal marketing alla quotazione in borsa (Rubbettino) – di cui potete leggere la recensione, curata da Antonello Placanica, e altre sue considerazioni, su Rnotes (Il calcio contemporaneo: gioco o business?, n. 12, 2002) –, il calcio italiano è mutato radicalmente da quando le società si sono date una struttura manageriale, iniziando a praticare il marketing, cioè la promozione pubblicitaria, che ha innescato un micidiale circolo vizioso: più introiti, più capacità di spesa, maggiori successi sportivi, maggiori finanziamenti da parte degli sponsor e, quindi, ulteriori guadagni e aggiuntivi investimenti, in una spirale senza fine.
Il gap tra le grandi e le piccole si è via via accentuato soprattutto con l’arrivo dei diritti televisivi, inizialmente visto come un toccasana economico (in Italia rappresentano più del 50% complessivo del fatturato, negli altri paesi molto meno).
In realtà almeno tre sono state le conseguenze: la prima, che le società, ritenendosi ormai miliardarie per l’eternità, hanno cominciato a spendere più del ragionevole – e intanto gli ingaggi dei giocatori sono diventati assurdi; la seconda, che i maggiori club hanno fatto la parte del leone, prendendosi la parte più rilevante della torta; la terza, che molti tifosi hanno perso l’abitudine di andare allo stadio, per vedere le partite in salotto, con costante calo di spettatori e incassi.
I tre effetti che abbiamo elencato sono facilmente dimostrati dai fatti.
Uno. Tutte le società sono fortemente indebitate e hanno dovuto ricorrere alla dilazione dei debiti, approfittando di una legislazione di dubbia correttezza (al comune cittadino si concede di diluire i debiti causati dallo scialacquamento? a un commerciante è permesso di evitare il fallimento, che sia legato o meno a una cattiva gestione della propia attività?).
Su la Repubblica del 18 novembre 2004 era uscito, a firma di Walter Galbiati ed Ettore Livini, un articolo (Sempre più rossi i conti del pallone. A 508 milioni le perdite della serie A, in utile solo Reggina e Bologna) che poteva sembrare catastrofista. In effetti, a dodici mesi di distanza, possiamo affermare che gli autori, invece, erano ottimisti: il Bologna è retrocesso in serie B e l’estate scorsa una campagna giornalistica, orchestrata dal maggiore quotidiano sportivo nazionale e da un partito politico non proprio meridionalista, ha portato alla luce che la Reggina aveva quasi venti milioni di euro di debiti con l’erario, con conseguente frettolosa messa a norma del bilancio della società amaranto, grazie alla svendita dei migliori giocatori e alla richiesta di nuovi fidi bancari, effettivamente validi.
Nel testo di Galbiati e Livini si potevano leggere dati impressionanti: i risultati netti di società come l’Inter, il Parma e le due romane, tra il 2003 e il 2004 si aggiravano intorno a un “rosso” di 100 milioni di euro. Per gli stipendi, il Milan nel 2004 aveva speso intorno ai 165 milioni di euro (Inter, Juventus, Lazio, tra i 100-120): in pratica circa tra le 10 e le 30 volte in più delle “piccole” (Livorno meno di 6, Messina quasi 7, Cagliari, Lecce e Reggina meno di 15).
Due. Afferma Andrea Aloi che Juventus, Milan e Inter «ingurgitano 232 milioni di diritti televisivi e per tutte le altre 17 squadre ne rimangono 192, i giochi – in questo sistema di ricchezza reale e impoverimento reale – sono quasi sempre fatti» (L’orgoglio e i milioni, in Guerin Sportivo, n. 44, 2005). Sul finire del 2005, poi, il botto dei botti: Mediaset sigla un accordo con la Juventus per acquisire «tutti i diritti Tv dal 2007 al 2009: ai bianconeri 248 milioni!» (Edmondo Pinna, Svolta clamorosa. Mediaset fa ricca la Juve, in Corriere dello Sport-Stadio, 24 dicembre 2005), salvo poi, una ventina di giorni dopo, il 13 gennaio 2006, rivendere a Sky, per 157,3 milioni di euro, quelli riguardanti le partite interne via satellite. Si pensi che, per i diritti televisivi (tra satellite, digitale Mediaset e digitale La 7), Messina, Reggina, Livorno, Empoli, Siena, Ascoli, Treviso, incassano, in ordine decrescente, tra gli 8 e i 6 milioni di euro! In altre parole, come può esserci un campionato equilibrato? Da qui la levata di scudi dei presidenti di Fiorentina, Palermo e Sampdoria contro la contrattazione singola dei diritti televisivi e per il ritorno alla contrattazione collettiva.
Tre. Gli stadi, al contrario che in Germania o Inghilterra, dove si trasmettono meno partite criptate, sono spesso semideserti. Dai dati pubblicati negli Almanacchi del calcio delle edizioni Panini si nota, se si escludono le milanesi e le romane e qualche exploit stagionale di altre squadre, una continua flessione degli spettatori che si recano in loco a vedere la partita. Se, nel corso del campionato 1986-87, la media-gara dei presenti, tra paganti e abbonati, era di 33.086, nel campionato 2003-04 è stata di 25.666. Una tendenza al calo costante nel corso degli ultimi anni: si è passati dai 31.161 del 1997-98 ai 30.704 nel 1998-99, ai 29.731 nel 1999-2000, ai 29.124 nel 2000-01, ai 25.945 nel 2001-02, ai 25.455 nel 2002-03. La crisi di presenze riguarda soprattutto gli spettatori paganti il biglietto per una singola partita, che un tempo erano pari agli abbonati e che si sono più che dimezzati; gli abbonati, nello stesso periodo, sono aumentati del 20%, ma ciò, evidentemente, non ha consentito il recupero di quella massa persa, forse la parte più popolare dei tifosi, che non si può permettere il lusso di un costoso abbonamento annuale.
I quasi 8.000 spettatori per partita persi in meno di vent’anni vanno moltiplicati per il numero di partite giocate: in pratica, considerando l’aumento delle gare disputate, non si recano più allo stadio circa due milioni di persone all’anno!
Fino a pervenire a minimi storici. Nella stagione 2003-04, a Empoli hanno visto in media – ed è da valutare che nei dati complessivi vanno considerati anche gli incontri di cartello, che innalzano tale media – le partite interne dei toscani appena 7.352 spettatori; pochi di più quelli che hanno assistito nel 2002-03 agli incontri casalinghi di Como e Piacenza.
E la tendenza presente, a causa delle difficoltà logistiche legate all’applicazione del decreto "Pisanu" per la sicurezza negli stadi e alle nuove offerte dal digitale terrestre, è di un’ulteriore continua riduzione degli spettatori, al contrario di ciò che avviene negli altri paesi europei.
…fino al grottesco (e alla tristezza)
I programmi televisivi specializzati di tutte le reti nazionali parlano per l’80% del tempo di sole tre squadre (Juventus, Milan e Inter), che, avendo un maggior numero di tifosi sul territorio nazionale, garantiscono una certa audience. Ma chi considera la noia e l’impazienza che devono sopportare i tifosi delle altre 17 squadre, per non parlare dei fan delle altre 22 della serie B, in pratica completamente censurate nelle più seguite trasmissioni sportive?
E che dire della qualità di questi programmi televisivi, caratterizzati da aggressività verbale e volgarità, pervasi da una pletora di commentatori isterici, stucchevolmente ripetitivi nel sezionare per ore al microscopio (leggi “moviola”) le azioni “incriminate”, ricolmi di interviste perlopiù insensate e vacue con giovanotti e signori boriosi e incolti?
Arriviamo poi al grottesco con trasmissioni quali Campioni. Il sogno (Italia 1). Per chi, giustamente, non avesse mai seguito tale programma, chiariamo che si tratta di una sorta di reality show avente come protagonisti i giocatori di una squadra di calcio: il Cervia (o, meglio, Vodafone Cervia). Essi sono seguiti in maniera invasiva dalle telecamere nel corso dell’intera settimana, mentre la domenica viene trasmessa in diretta la partita in cui sono impegnati.
Prima irregolarità. Per le esigenze televisive le partite della squadra romagnola vengono anticipate rispetto a quelle delle altre formazioni dello stesso campionato: ciò non crea un campionato falsato?
Seconda irregolarità. Intorno al Cervia e al suo allenatore, l’ex attaccante del Torino e della nazionale campione del mondo 1982, Francesco Graziani, si viene a creare un interesse del tutto smisurato rispetto a quanto accade a una formazione di piccola caratura: i calciatori diventano piccole star seguite da decine di ragazzine, le partite dei romagnoli sono seguite da un pubblico ben maggiore di quello che si vede generalmente in categorie quali l’Eccellenza o la serie D, le loro vicende compaiono sui rotocalchi di gossip. Questo non influisce, in senso positivo o negativo sui poveri arbitri di provincia, abituati a non avere neanche un riflettore su di sé, e sugli atleti, allenatori, dirigenti delle rimanenti società?
Fatto sta che il Cervia, società che precedentemente non aveva certo conosciuto grandi momenti di gloria, ha vinto il campionato di Eccellenza romagnola 2004-05 e oggi milita con discreto successo in serie D.
Triste epilogo. Pare che nessun giocatore di Campioni, finita l’esperienza col Cervia, riesca a trovare un altro ingaggio: troppo esposti alla curiosità dl pubblico, resi eccessivamente eroi solo televisivi, vengono rifiutati dagli stessi nuovi supporter, quando non dai novelli compagni di squadra. Si tratterebbe, in questo caso, di giovani la cui carriera, più o meno luminosa, è stata sacrificata sull’altare mediatico e delle esigenze Tv.
Di male in peggio: dal doping…
In una intervista rilasciata a Matteo Marani, il cui titolo palesa tutta la sua drammaticità (Ho paura di morire di doping, in Guerin Sportivo, n. 42, 2005), l’ex calciatore e opinionista Aldo Agroppi parla dell’uso diffuso nel nostro campionato, tra metà anni Sessanta e metà anni Settanta, del cortex, estratto della corteccia surrenale, i cui effetti, a distanza di tempo, pare siano devastanti. L’ex mediano di Torino e Perugia afferma di averlo preso, come – a suo dire – facevano tutti, ma di aver evitato il micoren, stimolatore del sistema nervoso centrale, con conseguenze immediate ben note, come aritmie e tachicardia parossistica.
È andato oltre l’altro ex attaccante Carlo Petrini, che ha pubblicato sulla storia del doping di quegli anni una triste e un po’ grezza autobiografia, dal titolo Nel fango del dio pallone (Kaos edizioni), in cui testimonia, oltre alle partite truccate, ai divertimenti smodati ed ai soldi versati “in nero”, anche l’uso di sostanze dopanti (probabilmente amfetamine) e i trucchi per eludere i superficiali controlli.
Occorre, infine, ricordare le misteriosi morti di circa quaranta ex calciatori, su cui indaga da anni Raffaele Guariniello, noto procuratore torinese, sospettando che dietro i decessi non ci siano cause naturali, ma un uso distorto di farmaci, terapie mediche inopportune e, naturalmente, il doping (sia pure camuffato).
Ad esempio, sembra che la morte di Bruno Beatrice, fulminato dalla leucemia, sia da attribuire ad un’insensata terapia radiologica, come attesta Petrini nel suo libro: «Beatrice era stato curato per una pubalgia con una serie di applicazioni, una terapia antitumorale chiamata “Roentgen”: la stessa che i medici del Milan avevano utilizzato per curare la mia coscia destra».
Di più: l’ex-calciatore del Genoa Claudio Signorini è morto qualche anno addietro, colpito (come tanti altri atleti) dal terribile “morbo di Lou Gehrig”, che è probabilmente provocato dall’uso prolungato di cocktail farmacologici, finalizzati a migliorare le prestazioni agonistiche o a far recuperare più in fretta gli infortuni.
…ai risultati “a sorpresa”…
L’ultimo campionato è stato costellato da un’ennesima serie di irregolarità, che ha determinato l’esclusione del Genoa e del Torino dal massimo campionato (per il Torino si è trattato “solo” di problemi finanziari, mentre l’antica squadra ligure è incappata in una flagrante vicenda di corruzione sportiva, con la combine di Genoa-Venezia-3-2 dell’ultimo turno di campionato), e i conseguenti ripescaggi a catena di vari club in tutte le categorie. In questo caso, il trattamento riservato dalla Federazione italiana gioco calcio alle società in difetto si è distinto per rigore e tempestività, anche se qualcuno sostiene che altre “magagne” siano state sottaciute (ma ora stanno venendo a galla, con l’ultimo scandalo delle “scommesse clandestine” che coinvolgerebbe molte società, anche famose).
Sotto gli occhi di tutti, inoltre, gli incontri “aggiustati” nelle ultime giornate di campionato per consentire ad entrambe le contendenti di pervenire ai propri obiettivi, magari con un pareggio, o, peggio, il “regalo” della vittoria concessa all’altra dalla squadra senza più motivazioni (da cui risultati “impossibili” sul piano tecnico).
Andiamo alla ricerca di qualche esempio riguardante la disperata lotta per non retrocedere in serie B (una retrocessione significa anche una perdita di molti milioni di euro e il rischio di non risalire più per molto tempo – si vedano gli esempi di squadre blasonate e di notevole seguito quali Bari, Genoa, Padova, Salernitana, Torino, Verona, Vicenza. Andiamo a ritroso nelle ultime giornate dei tornei più recenti.
Stagione 2003-04, penultima giornata, il Perugia deve assolutamente vincere per spareggiare con la Fiorentina, mentre la Reggina deve battere il “neoscudettato” Milan per evitare guai; risultati finali: Reggina-Milan-2-1, Roma-Perugia-1-3 (sul neutro di Palermo). Ultima giornata del 2002-03, Atalanta e Reggina devono entrambe vincere per pervenire almeno allo spareggio per la permanenza in A, mentre al Modena basta un pareggio per salvarsi; risultati finali: Bologna-Reggina-0-2 (nella giornata precedente la Reggina aveva ancora battuto una squadra fresca di scudetto appena conquistato, la Juventus, col solito 2-1), Brescia-Modena-2-2, Roma-Atalanta-1-2. Spostiamoci al 2001-02: il Brescia deve assolutamente vincere per salvarsi. Brescia-Bologna-3-0.
Marasma il 17 giugno 2001, ultima giornata del torneo 2000-01. Per sperare di salvarsi devono vincere Lecce, Napoli, Reggina, Verona (già reduce da un sorprendente Parma-Verona-1-2) e Vicenza. Risultati finali: Fiorentina-Napoli-1-2, Lecce-Lazio-2-1, Reggina-Milan-2-1, Udinese-Vicenza-2-3, Verona-Perugia-2-1. Vanno allo spareggio Reggina e Verona (punti 37), retrocedono, col Bari, già ultimo con appena 20 punti, Napoli e Vicenza (36).
Da notare che il risultato più ricorrente è il 2-1. Perché? Perché simula un equilibrio (in realtà fittizio), una sana competizione (che non c’è stata) e non umilia la società perdente.
Malignità? Illazioni? Insinuazioni? Senz’altro… Infatti, a fine stagione, le società di scommesse evitano di quotare molte partite, prevedendone l’esito scontato.
Non sarebbe il caso di cambiare la formula del torneo? Le idee in proposito non mancano. Si potrebbe, ad esempio, ripristinare il torneo a 18 squadre e introdurre semplicemente, alla fine, i “play off” (da disputarsi tra le prime due della classifica, con la vittoria che viene assegnata, in caso di parità nel doppio incontro, alla squadra meglio classificata) e i “play out” (che dovrebbero comprendere le formazioni piazzatesi fra il 14° e il 17° posto, sul modello dell'attuale serie C). Oppure, si potrebbe ristrutturare completamente il campionato, conservando le 20 partecipanti: dopo il girone d’andata (19 partite), si dividerebbero le squadre in due gruppi distinti, ma omogenei (le 10 meglio classificate vanno nel primo gruppo, mentre le rimanenti 10 nel secondo). Mantenendo i punti fin lì acquisiti, le compagini del primo gruppo si contenderebbero, in altre 18 partite di andata e ritorno, lo scudetto e la partecipazione alla Champions League e alla Coppa Uefa, mentre quelle del secondo gruppo si affronterebbero, sempre con la stessa formula, per la permanenza nella massima serie.
… alla violenza e al razzismo negli stadi
E che dire della farsa inscenata dai tifosi di Lazio e Roma nel derby serale del 21 marzo 2004, che fu misteriosamente interrotto per le oscure minacce degli “ultras”? E, ancora, come dimenticare che il 16 ottobre 2005, nonostante le misure repressive introdotte negli stadi e i severi controlli sui tifosi “ordinari” (decreto Pisanu), ad Ascoli qualcuno, verso la fine della partita con la Sampdoria, è riuscito ugualmente a lanciare un razzo, che ha gravemente ferito una pacifica spettatrice, sotto gli occhi inorriditi e angosciati del giovanissimo figlio e della fidanzatina di quest’ultimo?
Un altro sgradevole episodio recente è avvenuto a Messina il 27 novembre 2005: nel corso dell’incontro con l’Inter, sul risultato di 2-0 a favore dei nerazzurri, il giocatore ivoriano dei peloritani Mark Zoro, a seguito dei continui insulti razzistici rivoltigli dai “tifosi” interisti recatisi allo stadio “San Filippo”, ha chiesto la sospensione della partita.
Sulla questione “razzismo” nel calcio Carlo Pizzigoni (Il razzismo? E chi lo conosce, in Guerin Sportivo n. 49, 2005) ha sentito Mauro Valeri, docente di Sociologia delle Relazioni etniche a “La Sapienza” di Roma, e autore di La razza in campo. Per una storia della Rivoluzione Nera nel calcio (Edup). Le analisi del sociologo sulla situazione italiana non sono confortanti.
Certamente resta da elogiare il calciatore africano, uno dei pochi a non cadere nella conformistica accettazione di tutto ciò che di esiziale accade nel calcio. Per non parlare, poi, dell’omertà quasi assoluta che vige: si ascoltino alla fine degli incontri i commenti banalissimi della stragrande maggioranza di allenatori e giocatori e si consideri il loro rifiuto sistematico di esprimere opinioni personali su qualsiasi argomento extrasportivo (con qualche rara eccezione, ad esempio Cristiano Lucarelli e Zdenek Zeman). Lo stadio, dunque, è zona franca rispetto al resto della società, dove ciascuno si sente meno colpevole nel commettere violenza o atti incivili.
Del resto, il gioco praticato sui campi di calcio dalla maggior parte degli atleti è sovente durissimo (gli infortuni sono in continuo aumento, anche per l’eccessivo numero di incontri disputati nell’arco di una stagione, che, ormai, quasi non prevede neppure il canonico mese di ferie); inoltre gli atteggiamenti dei calciatori sono di frequente aggressivi, vittimistici, sleali, poco rispettosi dell’avversario e del direttore di gara. Della “violenza” nei programmi televisivi di “commento” calcistico abbiamo già detto… Allora, perché aspettarsi dei tifosi migliori di ciò che ruota attorno al baraccone calcistico?
La lista delle nefandezze potrebbe continuare (abbiamo tralasciato gli scandali dei passaporti e delle finte fideiussioni, l’eccessiva pressione e peso della stampa e delle Tv, le ingerenze dei marchi pubblicitari, lo strapotere dei procuratori, i conflitti d’interesse di vari dirigenti federali, gli ambigui rapporti società-ultras, i puntuali e numerosi fallimenti di società appartenenti a ogni categoria e a ogni parte del Belpaese, il continuo ricorso alla magistratura ordinaria da parte delle società retrocesse o non promosse dopo la conclusione dei campionati, che ha reso “torride” le ultime estati e incerte le composizioni dei tornei nelle varie categorie...). Tuttavia riteniamo di aver sufficientemente descritto, con dovizia di particolari, il profondo malessere in cui versa il calcio nostrano.
Morale della favola: viene voglia di lasciar perdere tutto e di non seguire più neppure la nostra “piccola” squadra del cuore, a cui siamo legati fin da bambini e che si barcamena tra mille difficoltà. Ma, purtroppo, come ricordava sempre Brera in chiusura dello scritto citato all’inizio, «noi l’amiamo al punto da riconoscerci in preda a una sorta di vizio», da cui, permanendo così le cose, dovremo, prima o poi, liberarci.
Giuseppe Licandro e Rino Tripodi
(direfarescrivere, anno II, n. 2, gennaio 2006)
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