Nel romanzo La melodia del fico d’India (Sampognaro & Pupi, pp 192, € 15,00), Esther Diana costruisce un affresco storico di grande intensità emotiva, dove il Mediterraneo diventa crocevia di popoli, memorie e destini.
Ambientata nel Cinquecento, al tramonto del dominio veneziano su Monembasia, l’opera intreccia la vicenda collettiva di una comunità in fuga con la storia intima di Amada, donna sospesa tra fedeltà e desiderio, maternità e colpa. Il simbolo del fico d’India, pianta tenace e indomita, attraversa il romanzo come metafora di radicamento e rinascita. Nella prosa di Diana convivono rigore storico e tensione lirica, precisione documentaria e ritmo poetico, in una lingua capace di rendere viva la coralità mediterranea.
L’articolo interpreta La melodia del fico d’India come un romanzo della resistenza (non solo politica o culturale, ma soprattutto interiore), ponendolo nel solco della narrativa che restituisce alle donne la voce della memoria e al mare il ruolo di grande archivio dell’identità.
Storia e metamorfosi del Mediterraneo
Diana ambienta la sua narrazione in un’epoca di frontiera, quella della crisi dei domini veneziani in Oriente e dell’avanzata ottomana. Il contesto storico di La melodia del fico d’India non è mai un semplice sfondo: è una materia viva, una corrente che trascina e modella i destini individuali. Il romanzo si apre con immagini di mare e di vento, di navi e isole che emergono lentamente dall’oscurità; una visione che già definisce la poetica dell’autrice: la storia come approdo e deriva, come movimento incessante di popoli e identità.
La comunità veneziana di Monembasia, costretta ad abbandonare la propria terra, diventa emblema di un’Europa in esilio. Diana guarda al Mediterraneo non come a un semplice spazio geografico, ma come a un «mare della memoria», un luogo di civiltà intrecciate dove la perdita e la rinascita sono parte di un medesimo respiro. La diaspora dei personaggi è una metafora più ampia della fragilità dell’Occidente, della sua tendenza a smarrirsi e a rinascere nel contatto con l’altro.
In questa visione, la scrittura di Diana si avvicina alla lezione di Vincenzo Consolo, per il quale il mare era «una pagina che cancella e riscrive», e di Dacia Maraini, che ha spesso descritto la migrazione e la memoria come elementi fondanti dell’identità femminile e mediterranea. Come in La lunga vita di Marianna Ucrìa, anche qui la Storia viene letta attraverso il corpo e la voce di una donna che non subisce passivamente, ma trasforma il dolore in coscienza.
Amada: la donna come coscienza della Storia
Il romanzo trova il suo centro emotivo e simbolico nella figura di Amada, protagonista segnata da un duplice desiderio: essere madre e restare fedele a sé stessa. La sua sterilità biologica si intreccia a una sterilità simbolica (quella di una civiltà che rischia di estinguersi) e la sua relazione con il giovane greco Christos introduce una tensione morale che diventa allegoria della ricerca di identità.
Amada è moglie di Mose, uomo maturo e onesto, ma il suo cuore si apre al diverso, all’altro, rappresentato dal greco Christos. In lui trova non solo la passione, ma anche la possibilità di una rinascita. Tuttavia, la sua scelta non è quella di una ribellione sensuale: è un atto di conoscenza, un confronto tra la legge della comunità e la legge del desiderio. L’amore adultero diventa così un’esperienza di libertà interiore, ma anche di colpa e di consapevolezza.
Diana costruisce Amada come una figura liminale, sospesa tra due mondi, quello della tradizione e quello del rischio.
La scrittrice restituisce alla donna il potere di raccontare la Storia non dall’alto dei palazzi, ma dal basso delle case, dei campi, delle partenze. È una prospettiva che si inserisce nella linea della narrativa femminile contemporanea che intreccia corpo, memoria e appartenenza. Come le eroine di Simonetta Agnello Hornby, Amada attraversa il dolore del tempo per trasformarlo in coscienza: «Una donna che ama due uomini per amare la vita», sembrerebbe dire Diana, restituendole la complessità che la Storia spesso nega al femminile.
La melodia del fico d’India: simbolo e linguaggio
Il simbolismo del titolo costituisce la chiave interpretativa dell’intero romanzo. Il fico d’India, pianta resistente che cresce tra le rocce e il mare, diviene allegoria della tenacia dei popoli mediterranei e della forza delle donne che, pur ferite, continuano a fiorire. Nel prologo, la pianta «si erge fiera in quell’ambiente desolato», e la sua sopravvivenza contro la furia del vento e delle onde anticipa la resistenza morale dei protagonisti.
Questa simbologia naturale attraversa tutta la narrazione, conferendo al romanzo una densità poetica che avvicina la prosa di Diana alla scrittura epica e insieme intima di autori come Camilleri e Alajmo, nei quali il paesaggio mediterraneo diventa un personaggio, un archivio di memorie.
La “melodia” del titolo non è una semplice metafora musicale: è il ritmo interno della vita, il battito segreto che unisce l’individuo alla terra. Diana compone la sua prosa come una partitura, alternando la voce corale della comunità a quella interiore dei singoli.
Lo stile e la lingua
Sul piano stilistico, La melodia del fico d’Indiasi distingue per la sua fusione tra precisione storica e lirismo elegiaco. Il linguaggio è denso, visivo, quasi pittorico: ogni descrizione di paesaggio o di gesto umano sembra scolpita nella luce del Mediterraneo. La scrittura procede per immagini e ritmo, più che per puro sviluppo narrativo; l’autrice privilegia la temporalità circolare, in cui il passato e il presente si specchiano.
Le sequenze di apertura e di chiusura (dominate dal mare, dal vento e dalla luce) creano una cornice ciclica che trasforma la Storia in mito. Il lessico è colto ma non artificioso, e alterna termini storici a parole di sapore arcaico, evocando una lingua che appartiene tanto al documento quanto alla poesia.
La voce narrante mantiene una distanza misurata, ma la focalizzazione interna consente al lettore di entrare nel cuore dei personaggi, in particolare di Amada, la cui coscienza diventa progressivamente il centro percettivo del racconto.
L’effetto è quello di un romanzo sensoriale e sinestetico dove la parola evoca odori, suoni, colori. «L’aria di Salina», «le ginestre gialle», «le buganville viola», «il profumo dell’ibisco», sono tutti elementi che costruiscono un’esperienza sinestetica della memoria. Diana dimostra così una padronanza dello stile che coniuga il respiro narrativo del romanzo storico con la delicatezza della scrittura poetica.
Tra mito e identità: il Mediterraneo come personaggio
In La melodia del fico d’India il Mediterraneo non è un semplice scenario, ma un vero personaggio collettivo. È un mare che divide e unisce, che cancella e conserva, dove il confine fra storia e mito si dissolve. .
Le isole – Stromboli, Salina, Monembasia – sono luoghi fisici e insieme simbolici: spazi del ritorno e della perdita, della ricerca di sé e dell’eterno ricominciare. Il romanzo, infatti, si apre e si chiude su un viaggio per mare, restituendo l’idea di un movimento ciclico, di una odissea femminile che attraversa i secoli.
Esther Diana sembra dialogare implicitamente con la tradizione classica del viaggio, ma la sua è una navigazione al femminile, che trasforma la nostos in introspezione. Il ritorno non è mai verso un luogo esterno, ma verso un’identità interiore.
In questo senso, l’autrice si inserisce nella linea di scrittori che hanno ripensato il Mediterraneo come spazio mentale – da Consolo a Maraini, da Magris a Predrag Matvejević – ma con una voce originale, capace di intrecciare il discorso storico e quello affettivo, la geografia e la psicologia.
La coralità della perdita e la voce della speranza
Un tratto distintivo del romanzo è la coralità. Attorno ad Amada si muove un universo di personaggi che, pur secondari, contribuiscono a costruire la dimensione collettiva del dramma. Uomini e donne che rappresentano le diverse risposte alla catastrofe: la rassegnazione, la fede, la fuga, la speranza.
Il dialogo, spesso breve e ritmato, restituisce il linguaggio quotidiano del popolo, mentre le descrizioni e i monologhi interiori si elevano a una prosa alta e riflessiva. Questa alternanza produce una polifonia che richiama la struttura delle tragedie antiche, dove la voce del coro accompagna quella dell’eroina.
Il mare, ancora una volta, funge da testimone e da metafora: «Nessuno osò guardare l’orizzonte per il timore di vedere comparire le fuste turche», scrive l’autrice, e in questa frase si avverte tutta la paura universale dell’ignoto. Ma dietro la tragedia storica, Diana semina una musica di speranza: l’idea che dalle rovine possa nascere una nuova forma di esistenza, come dal fico d’India reciso può germogliare una nuova pianta.
La melodia come memoria e rinascita
La melodia del fico d’India è un romanzo di frontiera, nel senso più profondo del termine: un confine attraversato tra tempi, lingue, identità e sensibilità. Diana riesce a coniugare l’epica storica con la delicatezza psicologica, la precisione del documento con la potenza del simbolo.
La sua scrittura, limpida e sensoriale, dà voce a ciò che la Storia spesso tace: la memoria delle donne, la fatica dei popoli, la dignità di chi sopravvive.
In un panorama letterario contemporaneo che spesso privilegia la frammentazione o l’ironia, Diana recupera la forma del romanzo-mondo, erede della grande tradizione storica ma rinnovato da una sensibilità moderna. La melodia che attraversa il libro è, in ultima analisi, quella del Mediterraneo stesso: un canto di resilienza e di appartenenza, di identità che si rigenerano nel dolore e nella speranza.
Come il fico d’India che resiste al vento e al mare, la parola di Diana continua a fiorire sulla soglia fra memoria e mito, ricordando al lettore che la vera radice dell’essere umano è la capacità di ricordare, e dunque di amare.
di Ivana Ferraro
(direfarescrivere, anno XXI, n. 236, novembre 2025)
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