Anno XX, n. 222
luglio 2024
 
In primo piano
La morte interiore che segna
un corpo che continua a vivere
Per Rubbettino, Annarosa Macrì offre storie
intrecciate e sospese, che hanno confini incerti
di Ginevra Alibrio
Cosa succede alla nostra mente quando invecchiamo? Cosa accade quando i frammenti di una vita non riescono più a tornare al loro posto perché alcuni episodi si dimentica di averli vissuti? Arriva un giorno in cui ci si ritrova a ripercorrere i ricordi come a redigere un inventario, e ogni particolare sembra che venga restituito come un tesoro prezioso.
Quand’è che si inizia a morire? Secondo Annarosa Macrì la morte interiore può avvenire anche quando il corpo continua a vivere. La vita di ognuno di noi si ferma in un momento ben preciso, in una giornata inutile come tutte le altre dove però «la vita si è fermata, e non lo sai» e tutto ciò che viene dopo perde senso. Annarosa Macrì, in Sarti volanti (Rubbettino, pp. 382, € 19,00), ci consegna l’imprevedibilità del caso, la caducità delle cose e l’impossibilità di prepararsi a fare o dire qualcosa per l’ultima volta, in un percorso esistenziale in cui siamo tutti come le Danaidi, che passano la vita riempendo una brocca che perde acqua perché è rotta e rimane sempre mezza vuota.
È la storia di Amélie, che la malinconia ce l’ha intrisa già nel nome e non sa più come si piange, con in tasca il suo pacchetto di Dunhil e che somiglia al mese di settembre: «Il sole che si smorza all’improvviso, il pomeriggio, alla controra, un brivido ingiallito sulle foglie, un languore precoce di pioggia lenta, settembre, come me, che non diventa temporale, né ama il vento». Amélie, dalla vita «un poco strattonata», che sa sbrogliare le matasse delle storie altrui ma non la propria. Amélie ha un’impetuosa smania di scrivere, spettatrice silenziosa e previdente delle vite degli altri. Parlare del proprio dolore può essere un primo passo per guarire?
Cos’è successo quel giorno in quella maledetta stazione ad Amélie, «sempre contro-verso», derubata di ogni cosa a due giorni dal Natale? Non è semplice ricostruire quando Amélie ha cominciato a morire: la telefonata, gli scritti di Giovanni, gli occhiali da sole di Amadou, la convivenza con Sergio e quel bambino scivolato tra le onde del mare.
La protagonista parla sempre alla madre, “maman”, col suo profumo di lavanda e gelsomini e una perenne ironia, le sue pomelie e l’ossessione di mettere ordine, nella praticità come nei ricordi. Madre e figlia, così simili, nel loro rapporto di sigarette in giardino la sera, fatto di cose non dette eppur sempre sapute e traumi giovanili solo apparentemente superati. Maman “la parigina”, con il laboratorio di sartoria che profumava sempre di caffè e che ha scandito la storia della loro famiglia.

Le variazioni di una vita: il senso del romanzo nella struttura del testo
Macrì trasforma i capitoli in “variazioni”, che sono un concetto tipicamente musicale: sintagmi chiusi e intercambiabili che compongono una melodia, «un po’ come sono i momenti salienti della vita, che, in fondo, ha un unico leitmotiv e tanti minuscoli accadimenti che le ruotano intorno». Tutto è una possibile variazione. La vita procede con un intreccio, e se inverti l’ordine delle cose il risultato cambia eccome. Quante possibili variazioni esistono di una storia? La vita di Amélie ruota intorno alle Variazioni Goldberg di Glenn Gould, e il perché lo si capisce solo a fine romanzo.
L’opera di Annarosa Macrì è un tessuto di storie, intrecciate come i fili di cui una stoffa è composta, dai confini incerti perché, in un groviglio così come in questo libro, non sai mai con certezza dove finisce un’estremità e dove comincia l’altra. La storia del falegname Angelo, che amava il canto e i suoi figli e ha perso la voce; la storia di Donika, divisa tra due mariti; la storia della signorina Adele, col suo limone nel vaso che ogni tanto le parla con i fiori di zagara; la storia di Armina, che ricorda troppo e quella di Agnese che non ama farsi fotografare; quella di Giovanni, con il libro di Kafka nel cassetto, il sottofondo di Carole King e l’ossessione per Percival Everett; Mikis, che scrive con la luce e Amìn, con le mani eleganti sulla macchina da cucito. «Per quali vie storte», questo il leitmotiv di Macrì, i destini di queste persone hanno preso una piega piuttosto che un’altra e si sono incontrati? In sartoria, il cucito dev’essere preceduto dall’imbastitura, ma nella vita imbastire non serve a niente perché una prova generale non c’è mai la possibilità di farla. Vaghiamo con Amélie nel reparto delle terapie intensive, dove l’amore è l’unica speranza di scossa, tra uomini e donne «bloccati all’ultima dogana col certificato di morte in mano, gli occhi vuoti e il cuore spento, e il corpo trascinato come inutile zavorra», come le stalagmiti della grotta di Avshalom, divenute una cosa sola per la permanenza forzata l’una accanto all’altra.
La forza di Sarti volanti sta proprio in questi racconti sospesi, interrotti, di cui bisogna riprendere il filo: c’è sempre qualcosa di unito o spezzato, e questo filo lo lasci e lo prendi continuamente, sospinto dalla smania di capire il momento esatto in cui ogni cosa «ha cominciato a morire», in un’eterna reazione a catena.

Le asimmetrie e la metafora del mutamento continuo
Sarti volanti è una storia di assenze, di amori mancati che diventano presenze fantasmatiche, ombre passate che nutrono come linfa il presente. Asimmetrie. Dal mischiarsi la pelle a diventare estranei il passo è breve e spesso inconsapevole, e il motivo per cui «non coincidono mai le strade degli amanti» lo sa bene Renato, ritrovando il proprio nome sul vecchio diario di una donna di cui semplicemente si era dimenticato. Abbiamo mai riflettuto sul fatto che esistono persone di cui ci ricordiamo a malapena e che invece di noi hanno un ricordo indelebile e viceversa?
Ci sono amori che muoiono o si ammalano, altri che rimangono idee, fili ormai opachi e trasparenti come vetri, che però non riesci a separare e che proprio grazie a questo vetro si mantengono intatti, protetti dall’impatto con la quotidianità, perché anche «l’amore si ammala, un giorno, una sera, una notte, e comincia a morire, magari mentre stai ridendo».

Un concentrato di cultura
Il testo è disseminato di citazioni e metafore letterarie, dai versi di Caproni e Tagore agli scritti di Auster, Grossman, Joyce, Mann, Pavese, Pontiggia, e Roth, per citarne alcuni; curiosità su usi e costumi di popoli diversi e lontani, nell’assiduo fil rouge del cucito, tra le metafore delle smagliature sugli orli come sulla vita, i tessuti macchiati come l’anima delle persone e le donne come sarte che rammendano ciò che la vita rovina.
Haiku, zibaldoni e stralci poetici inframmezzati al tessuto del testo come «barchette di carta», o ancora metafore vivide dai quadri di Masaccio, De Chirico, Van Gogh e Campigli. Paradigmi femminili di estrazione letteraria, dalla devozione della Milena di Kafka alla tormentata Amelia Rosselli, canzoni che echeggiano dal giradischi, in una penna, quella di Macrì, che scava a fondo nell’anima delle cose. Le parole arrivano dritte come schiaffi, in un racconto in cui il colpo di scena è dietro l’angolo e la riflessione diventa obbligatoria.
Annarosa Macrì ci insegna quanto è precaria la felicità, e «per quali vie storte» ci si perde e ci si ritrova. Ché forse siamo un po’ tutti dei “sarti volanti” senza bottega, con ago e filo sempre pronti a ricucire la vita che si scuce davanti ai nostri occhi.

Ginevra Alibrio

(direfarescrivere, anno XIX, n. 209, giugno 2023)
 
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