Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
In primo piano
Il “Golpe Borghese” fra fascisti,
mafiosi e istituzioni infedeli
Torniamo sui rischi dell’Italia 1970
tra complicità, omertà e depistaggi
di Vittorio Emanuele Esposito
Pubblichiamo qui di seguito l’intervento che il professor Vittorio Emanuele Esposito ha tenuto a Crotone lo scorso 18 luglio, come relazione base della presentazione del libro dello storico e nostro direttore, Fulvio Mazza, Il Golpe Borghese. Quarto grado di giudizio. La leadershipdi Gelli, il golpista Andreotti, i depistaggi della “Dottrina Maletti” (Pellegrini editore, pp. 304, € 16,00).

La Redazione

Il tema che fa da sfondo al libro, giunto alla sua seconda edizione, è il tentativo di “Golpe” messo in atto tra il 7 e l’8 dicembre 1970 dagli apparati deviati dello Stato in uno con le organizzazioni eversive di estrema destra (soprattutto Avanguardia nazionale e Ordine nuovo, oltre che al Fronte nazionale), con la Loggia massonica P2, e con il supporto della mafia siciliana e il sostegno della ’ndrangheta reggina, noto come “Golpe dell’Immacolata” o “Golpe della Madonna” o, più esattamente, “Golpe Borghese”, dal nome di chi lo ideò e lo diresse: Junio Valerio Borghese, lo stesso che all’1:49 di quella incredibile nottata impartì il “contrordine”, annullando di colpo tutte le operazioni, quando ormai la macchina si era messa in moto e aveva raggiunto uno dei suoi obiettivi, ossia la penetrazione nell’edificio del Ministero dell’Interno, dalla cui armeria vennero prelevate e caricate su camion 180 mitragliatrici.
Gli altri punti del progetto eversivo – il rapimento del capo dello Stato Giuseppe Saragat, l’arresto e il trasferimento in Sardegna dei principali esponenti politici e sindacali di sinistra, l’uccisione del capo della polizia Angelo Vicari, l’occupazione degli studi televisivi Rai di via Teleuda, da cui il Borghese avrebbe dovuto lanciare il suo proclama alla nazione – abortirono per questo improvviso e inopinato contrordine, quando ormai una colonna di guardie forestali, al comando del colonnello Luciano Berti, era giunta sulla strada Olimpica, a due passi dalla stessa Rai, bande di fascisti in armi si erano concentrate in vari luoghi della Capitale, i killer della mafia erano penetrati nel palazzo dove si trovava l’abitazione del Vicari (rimanendo però chiusi nell’ascensore!), in varie città d’Italia gruppi di estremisti e reparti delle forze armate e dell’ordine erano pronti ad agire ed era, infine, scattato il cosiddetto “piano antinsurrezionale”, cioè il piano di contrasto a una eventuale, temuta o fantasticata, insorgenza dei militanti comunisti, messo a punto dai Nuclei di difesa dello Stato. I Nuclei di difesa dello Stato erano un’organizzazione paramilitare, clandestina e illegale, parallela a Gladio, l’organizzazione nata sotto l’egida della Nato e presente in tutti i paesi europei, che doveva però mobilitarsi esclusivamente in presenza di un tentativo di invasione da parte dell’Unione sovietica (in Italia, in particolare, si paventava un’invasione da parte della Jugoslavia di Tito).
Ora, nel 1970, né d’altra parte prima o dopo questa data, si è avuto mai, in Italia, il minimo segno di una volontà insurrezionale da parte del Partito comunista, neanche in seguito all’attentato a Palmiro Togliatti; nonostante questo, tuttavia, si diede avvio al “piano antinsurrezionale” nell’ambito di questo tentativo di “Golpe”, che aveva, appunto, come suo obiettivo essenziale l’estromissione dei comunisti e dei rappresentanti del movimento dei lavoratori, dalla vita politica italiana, attraverso una decisa svolta reazionaria e autoritaria (ciò nell’anno stesso in cui, nel mese di maggio, la democrazia italiana aveva raggiunto un traguardo fondamentale di progresso e di modernità con la promulgazione dello Statuto dei lavoratori). Così fu incaricato da Amos Spiazzi di presidiare con i carri armati Sesto San Giovanni, allora “covo di comunisti”, per sedare un’insurrezione… che non c’era, che esisteva solo nella mente malata di quanti, monarchici o fascisti, non avevano digerito l’avvento della Repubblica democratica e di una borghesia dallo sguardo sempre rivolto indietro, impaurita da ogni spinta al progresso e alla modernizzazione del paese.
Un’operazione, dunque, su vasta scala e organizzata nei minimi dettagli; tutt’altro che un “Golpe da operetta”, come da alcuni si volle definire. Nel libro di Fulvio Mazza si può trovare anche una cronologia dettagliata e un indice analitico degli avvenimenti.
Ma diciamo subito che l’oggetto principale del libro non è il “Golpe” in se stesso, ma i silenzi che accompagnarono il suo svolgimento da parte di chi non poteva non sapere, e soprattutto l’iter processuale che seguì la sua pubblica rivelazione, un iter durato molti anni in cui, tra depistaggi, censure e omissioni, con l’abilità del più esperto prestigiatore, si giunse alla conclusione che il “Golpe” semplicemente non c’era stato: non c’era stata né insurrezione armata né cospirazione politica, ma solo una specie di gioco di ruolo di quattro sessantenni rimbambiti. Contro questa favola per cittadini considerati e trattati come ingenui minorenni, l’autore intende ripristinare, attraverso un “quarto grado di giudizio” la verità storica e lo fa sulla base di una documentazione in buona parte inedita, da cui emergono fatti e ipotesi plausibili. Emerge, ad esempio, il ruolo di primo piano di Licio Gelli; il fatto che Giulio Andreotti fosse consapevole della trama golpista, gli scambi tra i congiurati, l’ambasciata e il governo degli Stati Uniti, allora presieduto da Richard Nixon; l’azione del generale Gian Adelio Maletti del Sid e dello stesso Andreotti di coprire personalità dell’esercito, degli apparati e “borghesi” implicati nel tentativo di “Golpe”; i rapporti che in quell’occasione, ma non solo in quella, si attivarono tra settori dello Stato, la mafia e la ’ndrangheta e infine il probabile omicidio di Junio Valerio Borghese, fuggito in Spagna dopo il fallimento del suo “patriottico” progetto e ufficialmente deceduto nel 1974, per una pancreatite acuta.
Ma chi era Junio Valerio Borghese, il capo di questo fallito pericoloso putsch militare e paramilitare che invece, secondo alcuni minimalisti, sarebbe stato addirittura ostacolato e impedito dalla forte pioggia, che, non prevista, si era abbattuta su Roma?
Già comandante della X Mas, medaglia d’oro al valor militare per le sue azioni contro la Marina britannica, esponente di primo piano della Repubblica di Salò (pur non essendo personalmente un fascista) fu condannato a 12 anni di carcere per le atrocità commesse contro i partigiani, comunisti e non comunisti, che, al di là della sua militaresca e spagnolesca concezione dell’onore, si battevano per la liberazione del suolo della patria dall’occupazione tedesca, contro la funerea e mortifera ideologia nazi-fascista, per l’indipendenza dell’Italia e per il ritorno alla democrazia. Loro, sì, i partigiani, autentici “patrioti” e non quelli che Giorgia Meloni, la leader della Garbatella, in pubblico appella come “los patriotas” e che fuori di scena, ancora oggi, nel 2022, si chiamano “camerati” e si riconoscono col saluto romano.
Di questo “Golpe” o tentativo di “Golpe” o, secondo il gergo tecnico spagnolo, ricordato da Aldo Giannuli, di questa “intentona” (cioè di questa sorta di primo avvertimento, destinato, comunque, a provocare una reazione) mirante se non a sovvertire le istituzioni democratico/parlamentari con l’introduzione di una dittatura militare, almeno ad alterarle profondamente con una svolta in senso presidenzialista e autoritario, di questo “Golpe”, per lungo tempo sottaciuto, minimizzato o ridicolizzato, sappiamo ormai tutto o quasi tutto. Ci sono state, infatti, le indagini di magistrati liberi e autorevoli, le commissioni di inchiesta sulle stragi e sulla P2, le ricerche degli esperti e degli storici, le inchieste giornalistiche, tra le quali spiccano quella di Sergio Zavoli su La Notte della Repubblica (1989). Esemplare anche come modello di civile colloquio e serio confronto tra diversi e opposti punti di vista, non gridato, non esagitato e inconcludente, come poi la Tv ci avrebbe abituato a sopportare da un ventennio a questa parte, quella di Giovanni Minoli (della serie La storia siamo noi) quella, più recente, di Paolo Mieli (della serie Passato e presente) e altri.
Nel riproporre alla nostra attenzione un episodio gravissimo della nostra storia recente, Fulvio Mazza vi aggiunge, come detto, alcuni elementi di novità emersi nel tempo e nuove interpretazioni. Soprattutto, però, egli ha il merito di scuotere la nostra passività, la nostra colpevole indifferenza, il nostro ostinato non voler vedere e sapere, portando in primo piano il “potere invisibile”, che sottostà al funzionamento corretto e regolare delle istituzioni democratiche, lo condiziona, è in grado di stravolgere le più chiare manifestazioni della volontà popolare e in casi estremi ̶ come il “Golpe Borghese” dimostra ̶ persino di arrivare a proporsi il sovvertimento della legalità costituzionale, il sovvertimento della Repubblica democratica, nata da quella lotta di popolo che fu la Resistenza, il sovvertimento dei parametri fondamentali della nostra stessa civiltà.
È il “potere invisibile” di quello che viene detto lo “Stato profondo” (“Deep state”), che si annida (o si annidava) nei ministeri, nelle forze armate, nelle forze dell’ordine, nella magistratura, nei servizi segreti tra le ambigue schiere dei faccendieri, nelle zone grigie della società civile e che in Italia ha una chiara matrice fascista, perché nel Dopoguerra il processo di epurazione non fu quasi nemmeno avviato e gli apparati dello Stato continuarono a essere a lungo occupati da funzionari e personale formatisi nel vecchio regime o da ex repubblichini di Salò. Questo è, di fatto, il Dna di molti dei congiurati del “Golpe Borghese”, a cominciare da Licio Gelli, il “maestro venerabile” della Loggia P2, (volontario dell’esercito di Francisco Franco nella Guerra civile spagnola, ex repubblichino, doppiogiochista, amico di Juan Domingo Peron e poi di Jorge Rafael Videla e della giunta militare argentina, quella dei desaparecidos).
Le tragedie che si sono succedute in Italia, dalla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969), alla strage di Bologna (2 agosto 1980), passando per la strage alla questura di Milano del 1973, la strage di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974) e l’attentato all’Italicus (4 agosto 1974), oggi lo sappiamo ̶ e lo sapeva bene Pier Paolo Pasolini, che nel novembre 1974 diceva di conoscere o di intuire con logica certezza chi fossero i responsabili e i mandanti della “crociata anticomunista” ̶ hanno tutte la loro origine nella virulenza di questa sorta di Stato sotterraneo, di questo fiume nascosto, inquinato e inquinante, che si serviva di strutture paramilitari clandestine e illegali (“La rosa dei venti”, i Nuclei di Difesa dello Stato, il Cd “Gladio nero”…) e aveva il suo naturale alleato nelle organizzazioni di estrema destra (Ordine nuovo, Avanguardia nazionale, il Fronte nazionale fondato da Borghese) che, pur nella diversità dei miti foschi cui si riferivano, avevano un unico obiettivo: impedire a tutti i costi e con tutti i mezzi l’avvicinamento e l’avvento al potere del Partito comunista italiano, nella sfiducia che la Democrazia cristiana potesse ormai più rappresentare un valido argine. Il “Golpe”, come esito diretto della “strategia della tensione”, era un evento conseguente e nell’aria un evento “lungamente atteso”, secondo quanto scritto nel proclama redatto da Junio Valerio Borghese, che avrebbe dovuto leggerlo negli studi di via Teulada, dopo la loro occupazione da parte degli insorti.
Negli anni Settanta siamo ancora in pieno clima di Guerra fredda. Gli Stati Uniti tre anni prima avevano favorito in Grecia la dittatura dei colonnelli e tre anni dopo sosterranno il “Golpe” di Augusto Pinochet in Cile, in seguito al quale vengono per la prima volta sperimentate le teorie ultraliberiste di Milton Friedman e ha inizio quella “rivoluzione conservatrice”, affermatasi con la Thatcher e con Gerald Ford e destinata a liquidare ogni ipotesi di controllo sociale dello sviluppo economico.
L’Italia del triennio 1968-70, con la contestazione studentesca e l’autunno caldo diventa oggetto di particolare preoccupazione, anche perché il centro-sinistra è in crisi e già si comincia a parlare di “strategia dell’attenzione”, di “maggioranze aperte”, di “equilibri più avanzati”, formule che generano allarme nella borghesia, nei ceti conservatori, nelle corporazioni militari, anche se il Pci, per la verità, pur mantenendo, peraltro ancora per poco, i legami formali con Mosca e restando fermo sull’idea di un ribaltamento del meccanismo di sviluppo capitalistico, non mostrava proprio alcun segno di voler procedere se non attraverso le vie democratiche, nel rispetto assoluto della Costituzione di cui anzi, con la sua base di massa e la sua organizzazione capillare costituiva, insieme al movimento sindacale, uno dei più validi presidii. Sono più semmai i socialisti che strizzano l’occhio alla sinistra extraparlamentare e ai suoi fermenti e velleità rivoluzionari (su tale punto l’autore pubblica un assai interessante relazione del Sid).
All’epoca del “Golpe Borghese”, era al governo Emilio Colombo, con Francesco De Martino vicepresidente (il teorico, appunto, degli “equilibri più avanzati”), Mario Tanassi ministro della Difesa, Franco Restivo all’Interno. Secondo un appunto di Amintore Fanfani, il 2 dicembre Andreotti fece un viaggio privato negli Stati Uniti. Ciò per se stesso non vuol dire molto, ma è difficile credere che i vertici politici del tempo non fossero sia pur genericamente informati di un progetto di tale entità, su cui l’ambasciatore statunitense a Roma corrispondeva con il suo governo. Ed è ancor più incredibile come, avendo avuto notizia dell’intrusione di un commando al Ministero dell’Interno con la sottrazione e poi la restituzione, ad horas, delle 180 mitragliette, non sia stato lanciato nell’immediatezza un allarme democratico e si siano aspettati mesi prima di dare il via alla retata di arresti.
Il libro risolve poi anche il progressivo dimagrimento, attraverso una serie di censure e di omissis, operate dal generale del Sid Maletti e dal ministro della Difesa Andreotti (che espunsero ciò che riguardava Licio Gelli, Guido Paglia, Giovanni Torrisi e la partecipazione della mafia).
Ciò avvenne con il pretesto di voler proteggere la reputazione di diversi personaggi coinvolti nel tentativo di “Golpe”. Una vicenda di chiaro sapore pirandelliano è poi l’iter processuale che terminò, nel 1984-86, con l’assoluzione di tutti i responsabili, compresi i rei confessi, non soltanto dall’imputazione di insurrezione armata, ma anche da quella di cospirazione politica, con la formula che “il fatto non sussiste”.
Qui la “verità giudiziaria” non è solo altra, per mancanza di indizi e di prove, dalla verità storica, ma è la sua diretta clamorosa negazione e contraddizione, perché si potrà ancora opinare sulle vere intenzioni, sulle complicità, sulle connivenze, sui silenzi e le omissioni, ma i fatti sono incontestabilmente avvenuti; negarli e negare la responsabilità penale di chi li ha prodotti è un palese falso storico e getta un’ombra sui magistrati che hanno amministrato i processi, sollevando il dubbio sulla libertà e l’autonomia di certa magistratura dal potere politico, configurando il quadro di una democrazia malata, di una democrazia disarmata contro i propri veri nemici. E, allora, anche se quel terribile decennio, se la stagione delle stragi è alle nostre spalle, non si può, non si deve abbassare la guardia.
La storia non è certo magistra vitae, ma ci fa capire qualcosa del nostro passato e del nostro presente e ci fa riflettere. Sono passati cinquant’anni dal “Golpe Borghese” e il nostro paese purtroppo vive oggi una crisi economico/finanziaria, politica e istituzionale forse, per molti aspetti, più grave di quella di cinquant’anni fa. Non ci sono più i partiti di massa, con la loro funzione di equilibrio; le disuguaglianze si sono radicalizzate; milioni di italiani vivono in condizioni di povertà; il malessere sociale è sempre più diffuso. In questa situazione di crisi e di disorientamento, il consenso elettorale viene accordato ai vari leader non sulla base di progetti volti a garantire una distribuzione sempre più proporzionata dei beni prodotti dal lavoro e dai sacrifici dell’intera collettività, a garantire una libertà sempre più giusta, ma sulla base di elementi emotivi, irrazionali. È una situazione di rischio e di allarme. Non vorremmo, prima o poi, trovarci di fronte a un “ritorno del rimosso” e che qualcuno possa tornare a pensare, come il personaggio di Ugo Tognazzi, nel film di Mario Monicelli Vogliamo i colonnelli, che «questo paese ha bisogno della briglia del morso e della frusta» e che il problema dell’Italia sia la mancanza di «ordine, obbedienza e disciplina» e non già il vuoto culturale crescente e le soverchianti ingiustizie sociali. Bisogna avere piena coscienza e non sottovalutare e rimuovere l’accaduto. Questo libro ci invita a conoscere e a non rimuovere, a guardare in faccia la realtà, anche la più amara, sporca e dolorosa, ed è insieme un opportuno campanello di allarme, di cui ringraziamo, perciò, il nostro autore.

Vittorio Emanuele Esposito

(direfarescrivere, anno XVIII, n. 201, ottobre 2022)
 
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