Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
In primo piano
Quando la lotta antimafia costringe
giornalisti a stare sotto scorta
Per Castelvecchi D’Atri documenta
Michele Albanese contro le cosche
di Mario Saccomanno
Il linguaggio della ’ndrangheta prevede riti, simboli, silenzi e una fitta gamma di codici gestuali. Tra questi ultimi, come esempio, si può porre l’attenzione su un fenomeno che è stato a lungo sottovalutato: l’inchino. Si tratta di un atto di sudditanza compiuto durante una processione, cioè in un contesto prettamente religioso.
È un’azione palese poiché il fercolo del santo si arresta, anche solo per qualche secondo, nei pressi dell’abitazione di una famiglia mafiosa. La sosta, che esula da quelle previste dal rito, rappresenta un vero e proprio atto di asservimento. Non solo, si tratta di una legittimazione pressoché totale. Infatti, occorre considerare che a presiedere la cerimonia è, ovviamente, un sacerdote e che ad accompagnare il simbolo sacro, oltre ai fedeli, non mancano mai autorità civili e militari.
È indubbio che un agire siffatto trascina con sé diverse questioni che necessitano di essere approfondite. Su tutte, va sottolineata la soggezione nei riguardi dell’ambiente mafioso. Inoltre, meritano approfondimenti sia la strumentalizzazione dei simboli religiosi, che porta finanche a distorcere i valori cattolico-evangelici, sia la forte valenza simbolica che palesa e accresce il potere della ’ndrangheta.
A ben vedere, i casi d’ingerenza non sono sporadici. Tra i più eclatanti è inevitabile segnalare quanto accaduto il 2 luglio 2014 a Treselico, una frazione di Oppido Mamertina, un comune calabrese il cui territorio, in provincia di Reggio Calabria, si spiega nella Piana di Gioia Tauro.
Quel giorno, l’effige della Madonna delle Grazie venne fatta sostare dinanzi alla casa del boss Giuseppe Mazzagatti, condannato all’ergastolo per associazione mafiosa e omicidio e agli arresti domiciliari per problemi di salute. Fu a quel punto che il maresciallo Andrea Marino si allontanò dalla processione ordinando ai suoi carabinieri di fare altrettanto.
Il giorno seguente, su il Quotidiano della Calabria venne pubblicato un articolo firmato da Michele Albanese. Nei contenuti si poté leggere una forte denuncia rispetto a quanto accaduto a Treselico. Non solo: il cronista si spinse fino a evidenziare la sudditanza collettiva e il riconoscimento sociale dei mafiosi. Si trattò di un punto di non ritorno. Infatti, l’eco della denuncia fu tanto forte da superare i confini nazionali.
La giornalista Rai Gabriella D’Atri, nei vari capitoli che danno vita al testo La ribellione di Michele Albanese (Castelvecchi, pp. 100, € 13,50) si sofferma inevitabilmente anche su ogni sfumatura di quel contributo giornalistico che offre un affresco aberrante di una terra segnata pure da una Chiesa che, «invece di prendere le distanze dalla ’ndrangheta, si mostra accondiscendente».
Il libro invita a curare il quotidiano, ad aguzzare lo sguardo sulle brutture del presente, a saperle riconoscere, denunciare e contrastare. Pertanto, risulta indispensabile soffermarsi su alcuni degli aspetti peculiari che connaturano i vari capitoli.

La forza di non voltarsi dall’altra parte
Michele Albanese vive ormai da sette anni sotto scorta. A lungo è stato corrispondente della Gazzetta del Sud. In seguito ha cominciato a scrivere per il Quotidiano della Calabria, oggi diventato il Quotidiano del Sud.
Nel testo che si sta prendendo in esame, D’Atri si sofferma sui vari aspetti che hanno segnato la sua esistenza. Nel farlo, in primo luogo, mostra cosa significa scrivere di cronaca in terra di mafia. Gli ingredienti necessari, afferma, sono «testa dura e coraggio da vendere». Solo così facendo si può riuscire a compiere un mestiere in cui i rischi sono sempre dietro l’angolo.
Gran parte del libro è composto da una lunga e articolata intervista, un intenso scambio di battute tra l’autrice e lo stesso Albanese. Vengono affrontate in dettaglio tutte le tematiche affini al lavoro e al pensiero di una persona che continua imperterrita a denunciare con forza qualsiasi bruttura osservata.
Inoltre, accanto alle articolate risposte del cronista, non mancano diverse ricostruzioni e analisi dettagliate compiute da D’Atri. Non solo: così come avviene proprio in apertura, il testo presenta in alcuni punti chiave una conformazione prettamente narrativa. Questa scelta specifica mira soprattutto a far immergere i lettori nei momenti cruciali della ribellione di Albanese.
Indubbiamente, in tal senso, una data fondamentale è il 17 luglio del 2014, l’ultimo giorno che il cronista passò da uomo libero e da reporter di strada. Fu in quel momento che venne scoperta la progettazione di un attentato ai suoi danni. Infatti, avvalendosi di una cimice, si catturò un dialogo fra due uomini appartenenti a una cosca. I contenuti della discussione – su cui, non a caso, D’Atri si sofferma nelle prime pagine del testo e ritorna più volte nei vari capitoli del libro – vertevano principalmente su una bomba da confezionare sotto l’auto di Albanese.
Va da sé che la tutela di terzo livello che si decise prontamente rappresentò un punto di svolta. Per comprendere in modo efficace i motivi dell’attentato si può fare affidamento alle parole dello stesso Albanese: «Questa gente non gradisce che si parli di loro, preferisce piuttosto restare nell’ombra, mantenere un profilo basso. Soprattutto se ne fa parte un super latitante noto per la sua crudeltà. Io invece su di loro ho scritto tante volte. Non puoi ignorarli se ti occupi di cronaca nera in questo territorio e vai alla ricerca della verità. Farlo avrebbe significato voltarsi dall’altra parte. Ed io non l’ho fatto».

Le molteplici conseguenze di una netta presa di posizione
Nelle affermazioni di Albanese poc’anzi riportate emergono tutti i temi fondamentali che D’Atri passa in rassegna nel libro. Indubbiamente, quella ricerca della verità e quella necessità di non voltarsi dall’altra parte presuppongono una netta presa di posizione.
Infatti, ritornando anche soltanto sul celebre articolo citato in apertura, che probabilmente, così come chiarisce lo stesso Albanese, poco o nulla ha a che fare con la progettazione dell’attentato, si nota il vigore attraverso cui il cronista mostra una Calabria «soggiogata, complice, inerme».
Di sicuro, le conseguenze della sua forte azione di denuncia furono molteplici. La notorietà data dall’accaduto portò il vescovo della diocesi di Oppido Mamertina a sospendere tutte le processioni programmate in quel periodo.
Eppure, nel libro è spiegato come azioni siffatte non godono quasi mai dell’appoggio incondizionato di tutta la popolazione. Al contrario, i motivi di disappunto per i contenuti delle pubblicazioni giornalistiche di Albanese portarono non di rado molte persone a storcere il naso. «Per molti la colpa era mia, ero considerato peggio della peste in quel territorio», si legge in merito nel libro.
Del resto, D’Atri non manca di sottolineare quanto accadde soltanto quattro giorni dopo la processione incriminata. Infatti, il 6 luglio del 2014, dal pulpito della chiesa della Madonna delle Grazie, si sentì il parroco rivolgersi alla platea di fedeli presenti con tono perentorio: l’invito fu addirittura quello di prendere a schiaffi chi si trovava in fondo alla chiesa.
Ad assistere alla funzione c’era Lucio Musolino, mandato da Il Fatto Quotidiano nel tentativo di intervistare proprio don Benedetto Rustico. La posizione del parroco di Treselico e di altri sacerdoti di Oppido-Palmi fu netta: i giornalisti erano diventati a tutti gli effetti nemici della Chiesa e della Calabria.

La speranza in una fede priva di formalismo e di rigidità dogmatiche
«Gli uomini della ’ndrangheta non sono in comunione con Dio, sono scomunicati». Sono queste le incontrovertibili parole che papa Francesco pronunciò il 24 giugno dello stesso anno, il 2014, davanti alle 250mila persone che affollavano la grande spianata presente nell’area turistica di Sibari.
Solo qualche mese prima si era consumato un efferato omicidio. Gli uomini d’onore avevano ucciso un bimbo di tre anni insieme al nonno e alla sua compagna. I corpi erano stati trovati carbonizzati in un’auto. Prima d’essere bruciati, vari colpi di pistola avevano già tolto la vita alle tre persone.
Anche tra i fedeli, il clima non era affatto dei migliori. Inevitabilmente, come viene riferito nel testo, «c’era una coscienza antimafia da risvegliare e sostenere, un riscatto da sollecitare. C’era in primo luogo da allontanare, una volta per tutte, i tentativi della ’ndrangheta di appropriarsi anche di riti e simboli religiosi per allargare il consenso tra la gente».
Così, si può comprendere l’importanza che assunsero le affermazioni di papa Francesco, una vera e propria «pietra tombale su ambiguità, silenzi, sottomissioni».
D’Atri non manca di soffermarsi su questo evento poiché la visita pastorale, resa necessaria dagli avvenimenti, ebbe come obiettivo proprio una presa di coscienza manifestata attraverso la denuncia e, inevitabilmente, tramite l’allontanamento dei mafiosi anche dalla Chiesa.
Quando papa Francesco pronunciò quelle parole Albanese era nell’area stampa, insieme agli altri giornalisti autorizzati a seguire l’evento. Fu un momento rilevante anche per lui.
Infatti, nel testo, dalle risposte alle domande poste da D’Atri, emerge chiaramente la sua forte appartenenza al mondo cattolico. L’autrice definisce questo legame col cristianesimo un qualcosa che, «privo di formalismo e rigidità dogmatiche», sfocia in una fede principalmente «testimoniata dal suo modo di agire e di comunicare».
Per questo, le parole di papa Francesco divennero un terreno fertile su cui piantare diversi semi di speranza, furono un conforto per chi, come Albanese, lottava contro le ingiustizie.

Una cultura di violenza e sangue capace di mutare pelle
«Omertà, silenzio, paura, prevaricazione. Questa è la ’ndrangheta». Si tratta di una breve ed efficace definizione contenuta nel testo che risulta proficuo riportare poiché, attraverso queste parole, Albanese racchiude gran parte dei problemi contro i quali si è dovuto a lungo scontrare.
Riuscire a scardinare i pilastri attorno ai quali la mafia continua a ramificare non è affatto semplice, soprattutto perché nel corso del tempo l’organizzazione criminale ha mutato più volte pelle, finendo per distanziarsi ampiamente da quella ruralità che aveva caratterizzato le origini del fenomeno.
Infatti, negli ultimi decenni la mafia ha fiutato gli affari delle grandi città e dei centri di potere. Non a caso, Albanese prosegue la sua definizione sottolineando come sia necessario «immaginarla come un pezzo di tutto. Perché la ’ndrangheta è criminalità certo, ma è anche politica, massoneria, persino un pezzo di Chiesa».
I campi di interesse mafioso sono svariati. Il cambio di passo decisivo avvenne con gli investimenti dello Stato per la realizzazione di opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale, tramite la Cassa per il Mezzogiorno istituita nel 1950. Si trattò di un fiume di denaro «destinato, almeno nei progetti, alla realizzazione di infrastrutture e insediamenti industriali».
È lì che la ’ndrangheta intuì la grande opportunità e cambiò le sue prospettive. Tutti quei soldi, afferma D’Atri, stuzzicarono «gli appetiti mafiosi». Così, «le ’ndrine capiscono che i tempi sono maturi per quel salto di qualità». Il cambio radicale impose di rivedere le vecchie regole.
Albanese parla di uno spartiacque decisivo: il summit di Montalto avvenuto il 26 ottobre 1969. Da quel momento, la conformazione «rozza delle origini» cominciò a trasformarsi in vera e propria holding criminale. Un passaggio compiuto principalmente negli anni Settanta che non fu affatto indolore. Infatti, le divisioni furono anche interne, con famiglie contrassegnate dalla scelta tra arcaismo e modernità.
Sono tutti elementi che nel testo vengono ripresi in dettaglio e che portano a comprendere la dimensione odierna della mafia segnata anche da una disponibilità economica straordinaria.

La responsabilità e il contributo che può dare ogni individuo
Nel libro si parla di una mafia liquida che, «come un miasmatico e invisibile liquame criminale pervade e corrode la vita economica e civile della regione». Questa definizione fa comprendere a fondo come il problema della ’ndrangheta non possa essere relegato soltanto a un determinato territorio e ad ambiti specifici.
In tutto questo non manca anche la complicità con lo Stato. È un altro degli elementi che vengono affrontati con forza. In merito, basta riportare la nettezza della posizione di Albanese che sottolinea come siano alcuni pezzi dello Stato a essere «scesi a patti con le cosche» e non lo Stato nella sua interezza. Dunque, a ben vedere, la responsabilità cade sempre sul singolo.
È un elemento fondamentale su cui occorre ancora soffermarsi riportando proprio le parole del cronista. La distinzione tra alcune parti e la totalità è necessaria poiché, riferisce Albanese, «se noi mettiamo sullo stesso piano il politico corrotto e quello che non lo è, l’imprenditore colluso con quello che non si piega, chi è degno di portare una divisa da chi non lo è, passa l’idea che tutto è schifo, tutto è sporco. Questo uccide la coscienza civica, ci incatena alla rassegnazione e crea terreno fertile alla cultura mafiosa».
Dunque, è la rivoluzione delle coscienze l’unico mezzo in grado di invertire la rotta e portare, gradualmente, a sconfiggere il fenomeno mafioso. Il primo e decisivo tassello è dato dall’eliminazione del «condizionamento del bisogno». La reazione, il cambio di mentalità deve partire dall’educazione e dagli esempi.
Da questo punto di vista, risultano indispensabili gli altri contributi che arricchiscono il testo. Infatti, oltre alla Prefazione del giornalista Carlo Verna, compaiono le interviste a Federico Cafiero De Raho, all’epoca procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo, e a don Luigi Ciotti, fondatore di “Libera contro le mafie”, figure che, accanto a quelle di Albanese, dimostrano come oggigiorno siano numerose le persone che lottano costantemente contro la mafia.
Così, da quanto sottolineato ne consegue che l’obiettivo principale del libro è quello di tenere viva l’attenzione proprio sulla fitta schiera di individui che, come Albanese, si sono opposti con forza agli orrori osservati.
Quello di D’Atri è un proposito che non deve sorprendere. Infatti, a ben vedere, troppo spesso gli episodi capaci di raggiungere in breve tempo un vasto pubblico vengono pressoché dimenticati. L’interesse sfuma al punto tale che sulle loro vicende cala il più assurdo e illogico silenzio.
È in questa inammissibile bonaccia che chi intimidisce raggiunge lo scopo prefissato. Pertanto, l’autrice chiarisce con forza che la via dell’opposizione, che immette in quella decisiva rivoluzione delle coscienze di cui si è discusso poc’anzi, non può prescindere dalla voglia di cambiamento, dalle azioni quotidiane, dai ricordi, e, inevitabilmente, dall’incessante vicinanza alle persone colpite in vari modi dall’agire mafioso.

Mario Saccomanno

(direfarescrivere, anno XVIII, n. 200, settembre 2022)
 
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