Anno XX, n. 218
marzo 2024
 
In primo piano
La Calabria negli anni delle stragi.
Protagonista del peggio possibile
Neofascisti, golpisti e mafiosi: una storica sentenza
ci riporta a una regione tetra ma oramai passata
di Alessandro Milito
In questi mesi il nostro nuovo collaboratore Alessandro Milito non solo ha redatto un Diario riguardo alla sua Quarantena (un’interessante opera letteraria di prossima pubblicazione) ma ha quasi concluso un saggio, tanto interessante quanto indigesto, nel quale si parla della Calabria negli anni delle stragi, del suo ruolo all’interno di quel segmento della Storia italiana. Come è noto, il Sud è generalmente sempre rimasto marginalizzato e distante dai punti focali del confronto politico italiano. Di solito ce ne dogliamo. Questa volta che, invece, ne saremmo stati contenti, dobbiamo segnalare come il Mezzogiorno, e particolarmente la Calabria (ma anche la Sicilia) sia al centro delle peggiori nefandezze.
L’
Introduzione da lui curata è qui presentata in anteprima.
Maria Chiara Paone

Il XXI secolo ha idealmente avuto inizio con uno degli attentati più sanguinosi e simbolici di sempre. L’11 settembre ha inaugurato un’epoca caratterizzata da forti radicalizzazioni religiose, un rinnovato razzismo e nuove incertezze in uno scenario internazionale non più monopolizzato dalla forza stabilizzatrice degli Stati Uniti, ormai distanti da quel ruolo di poliziotto globale che fino gli anni Novanta imponeva il rispetto della propria legge a ogni latitudine.
Anche in Italia i primi due decenni del secolo sono stati interpretati come un’epoca di crescente smarrimento e precarietà: un lungo e inesorabile declino, fatto di ipotetiche ripartenze più volte annunciate e mai realmente verificatesi. Sono stati gli anni della perenne emergenza sicurezza, della tanto temuta invasione dei migranti sulle quali interi governi hanno basato il loro consenso e le loro maggioranze parlamentari.
I tanti decreti sicurezza variamente denominati, le isteriche (contro)riforme all’istituto della legittima difesa hanno avuto come premessa una narrazione ben precisa: l’Italia è un Paese in continuo stato d’allarme, insicuro e pericoloso. Il tutto senza tenere in considerazione i principali indici di criminalità in costante calo da anni.
L’Italia è instabile, ripetutamente sull’orlo del baratro e riesce a rimanere in bilico quasi per miracolo: questo si dice nei salotti televisivi, nei comizi e sulla carta stampata. Una narrazione che è entrata a far parte così nel profondo del nostro immaginario collettivo che quasi si rinuncia a confutarla o semplicemente ad approfondirla.
Se non fosse che si tratta di una visione, il più delle volte, sbagliata e ingannevole; dovuta anche e forse soprattutto a una grande mancanza di memoria storica.

Un Paese sotto assedio ma vivo e vegeto
Basta leggere le cronache del 1970 per capire quanto sia errata e risibile la percezione di insicurezza odierna, se paragonata a quanto accadeva cinquant’anni fa nel nostro Paese.
Il 1970 è un anno carico di storia e di avvenimenti che hanno segnato nel profondo la nostra tormentata repubblica.
È l’anno di traguardi fondamentali di giustizia sociale e civiltà come lo Statuto dei lavoratori e la legge sul divorzio.
Ma il 1970 non è solo questo: è molto di più, qualcosa di più oscuro. Il Paese ha appena subito la violenza della Strage di Piazza Fontana ed è entrato in quelli che saranno ricordati come gli anni delle stragi e della strategia della tensione.
È l’anno del Golpe Borghese, di un progetto eversivo molto più serio e pericoloso di quel “golpe da operetta” descritto da più parti: c’era chi voleva rendere l’Italia una Grecia dei colonnelli in larga scala, a soli 22 anni dall’approvazione della costituzione democratica e repubblicana. Il 1970 è l’anno delle formazioni neofasciste che imperversano da Nord a Sud dimostrando un efficace e ben coperto attivismo, radicalizzando un clima già rovente: gli Anni di piombo entrano nella loro fase più cruenta.
Il 1970 è l’anno della Rivolta di Reggio Calabria: una delle pagine più oscure e forse più sottovalutate della nostra storia contemporanea.
È quasi impressionante osservare quanti avvenimenti, quanta violenza e quanto sangue debbano essere ricordati a cinquant’anni di distanza. Sin da una panoramica superficiale è possibile vedere come quell’Italia fosse molto più pericolosa, oscura e inquietante di quella attuale. Allo stesso tempo, non si può negare che quel Paese fosse dotato di una carica vitale e di una forza propulsiva, sociale e politica, che è difficile rinvenire nella repubblica del 2020. Un Paese sotto assedio ma vivo e vegeto, in continuo fermento.

La Calabria: così periferica, così stranamente importante
In questo contesto chiaroscuro, torbido ma allo stesso tempo incredibilmente vivace, sorprende il ruolo avuto dalla Calabria. Il tacco dello stivale, regione piccola – nemmeno due milioni di abitanti – e marginale, sia dal punto di vista economico che politico, nel 1970 era al centro dei più grandi eventi politici del Paese, sotterranei e non.
La Rivolta di Reggio Calabria rappresenta la più grande e lunga sommossa popolare della storia repubblicana, prima occasione dalla Seconda guerra mondiale in cui il Governo ha dovuto impiegare mezzi militari per le strade di una delle sue città. La città reagiva sdegnata all’elezione di Catanzaro come capoluogo del nascente ente regionale, leggendo in questa scelta politica la sua condanna alla marginalità e a un rapido e definitivo declino.
La temperatura politica della Reggio ferita e rivoltosa era alle stelle e rappresentava lo scenario perfetto per altre e più profonde manovre: politiche e non solo.
Le ragioni e il sentimento della Rivolta, non capiti da molti, specie a sinistra, trovarono presto rappresentanza negli ambienti dell’estrema destra e dei movimenti neofascisti.
L’occasione era ghiotta e imperdibile per chi cercava di sovvertire la giovane democrazia italiana e darle una decisiva spallata in favore di modelli autoritari e liberticidi: la più popolosa città calabrese, nonché una delle più grandi del Meridione, era scesa in piazza lanciando un’aperta – e spesso violenta – sfida al nascente capoluogo catanzarese e alla politica romana.
Al movimento operaio, più forte e attivo al Nord, poteva contrapporsi un pezzo di Sud nero e altrettanto battagliero.
Reggio Calabria si contendeva con Roma il ruolo di capitale del neofascismo italiano, di fatto divenendone uno dei suoi poli fondamentali. Quello stesso mondo legato al Fronte nazionale del principe Junio Valerio Borghese e che avrebbe dovuto dare una svolta autoritaria allo Stato italiano: Reggio e la Calabria avrebbero dovuto partecipare attivamente al disegno eversivo e golpista prospettato nel dicembre 1970.
Ma Reggio Calabria e la sua provincia non erano solo il teatro di una rivincita della destra neofascista: rappresentavano la rampa di lancio di una ’ndrangheta prossima a fare il suo salto di qualità definitivo, per diventare la potente e radicata associazione criminale che oggi ben conosciamo. Nel fare ciò, le ’ndrine coltivavano una rete di contatti e di alleanze con gli ambienti politici di estrema destra, più sensibili a una collaborazione spesso indirizzata contro il comune nemico: i comunisti, vero e proprio mantra dell’epoca in grado di accomunare mondi diversi sotto la stessa bandiera, contro il nemico comune.

La sentenza-ordinanza del 1995 del Giudice istruttore Guido Salvini
Una Calabria crocevia di piani eversivi, violente rivolte popolari, neofascisti e criminalità organizzata, molto meno marginale di quanto si potesse credere. È questo il ritratto tratteggiato dal magistrato milanese Guido Salvini nella sua monumentale sentenza-ordinanza del 1995. Un testo frutto di un’istruttoria avviata nel 1989 e conclusasi dopo sei anni di indagini, centinaia di ore di interrogatorio e migliaia di pagine scritte dall’allora Ufficio del Giudice istruttore del Tribunale di Milano, secondo il vecchio rito processuale antecedente all’attuale codice di procedura penale della riforma Vassalli.
L’ambizioso obiettivo dell’istruttoria era quello di far luce su molti aspetti della cosiddetta strategia della tensione, sulla realtà oscura dello “Stato parallelo” e il ruolo dei “servizi segreti deviati” in alcuni dei più sanguinari episodi terroristici degli Anni di piombo.
Non è un caso che l’imponente lavoro investigativo abbia avuto luogo nei primi anni Novanta, e cioè una ventina di anni dopo la madre di tutte le stragi, quella di Piazza Fontana. L’Italia in cui il giudice Salvini scrive la sua sentenza-ordinanza è un Paese che ha visto la caduta del Muro di Berlino e il venir meno della minaccia comunista, a lungo utilizzata, a torto o ragione, per costruire imponenti e sotterranei apparati di difesa e polizia politica. Un’Italia in cui sono venute meno le ragioni che avevano visto nascere rapporti quantomeno ambigui tra frange dei servizi segreti, il Viminale e ambienti dichiaratamente neofascisti ed eversivi. La fine della Guerra fredda e del blocco sovietico avevano permesso di far luce su aspetti fino a ora solo ipotizzati o poco approfonditi.
Salvini cerca di individuare un filo conduttore, uno schema generale in cui inserire molti tasselli fino a quel momento considerati solo singolarmente e non in una visione di insieme.
Qualche anno dopo, l’attività del Giudice istruttore milanese sarebbe culminata con un’altra sentenza-ordinanza, incentrata sulla Strage di Piazza Fontana, e che avrebbe portato a un nuovo iter processuale conclusosi nel 2005 con una discussa sentenza della Corte di Cassazione.
Tuttavia, concentrandosi sulla sentenza-ordinanza del 1995, ciò che più colpisce un osservatore calabrese di questo grande e oscuro affresco dell’Italia delle stragi, è il ruolo avuto dalla stessa Calabria.
Nelle 327 pagine della sentenza-ordinanza la città di Reggio Calabria viene citata in 139 occasioni e il prefisso “calabr-” compare 56 volte: basterebbe già questo per capire che la Calabria e la sua città più popolosa hanno molto da dire in questo periodo storico, specie considerando la loro apparente marginalità.
L’intera parte VI della sentenza è dedicata alla Calabria e alla struttura eversiva di Avanguardia nazionale nella regione e i suoi collegamenti con la struttura centrale romana. Il quadro prospettato presenta diversi elementi sorprendenti: dai timers per le bombe da impiegare negli attentati e acquistati a Reggio Calabria all’appoggio che la ’ndrangheta avrebbe dato per la fuga e la latitanza di Franco Freda; dalla Rivolta di Reggio Calabria e i suoi risvolti eversivi alla presunta responsabilità di Avanguardia Nazionale nella cosiddetta Strage dimenticata di Gioia Tauro del 1972, per poi passare all’oscuro e dibattuto incidente stradale che tolse la vita ai 5 “anarchici della Baracca” in viaggio verso Roma per consegnare la loro controinchiesta sul ruolo dell’eversione nera nella Rivolta reggina: documenti mai ritrovati. Non mancano accenni al ruolo che la Calabria avrebbe dovuto tenere tra il 7 e l’8 dicembre 1970: la notte del Golpe Borghese.

La necessità di una riflessione
Guido Salvini è un magistrato e nel 1995 operava come Giudice istruttore presso il Tribunale di Milano. Ciò significa che, da magistrato, aveva il compito di valutare la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei tanti indagati sottoposti al suo giudizio.
Questo è un elemento da tenere ben presente nell’approcciarsi alla sentenza-ordinanza e al suo valore storico, comunque presente e innegabile. Ciò significa che il giudice, nel redigere la sua sentenza, ha deciso di sposare una tesi accusatoria. Nel fare ciò, è dovuto partire dalla ricostruzione dei fatti per poi ricondurre questi, in un secondo momento, ai reati legislativamente previsti. Quindi, se è pur vero che tutto il ragionamento del giudice parte e si fonde sulla ricostruzione dei fatti storici, bisogna tener presente che la logica che muove il Giudice istruttore non è perfettamente coincidente con quella dello storico.
Tutto questo non sminuisce il valore della sentenza-ordinanza, né il grande interesse che essa suscita e la riflessione storica e politica che dovrebbe provocare. I cinquant’anni dalla rivolta di Reggio Calabria possono essere utilizzati come pretesto per riaccendere i riflettori su alcuni degli episodi più oscuri e pericolosi della nostra storia recente: fatti e accadimenti che hanno riguardato tutto il nostro Paese e che hanno visto un serio coinvolgimento della Calabria.
È ancora difficile ritornare su quelle stragi e sulla strategia della tensione senza lasciarsi, anche indirettamente, influenzare dalle proprie sensibilità politiche e sociali: cinquant’anni non sono pochi ma di certo non sono neanche abbastanza per una riflessione completamente matura.
Eppure è arrivato il momento di provare a riflettere su cosa è successo in quegli anni e come quegli episodi abbiano influenzato la nostra democrazia.
Ultimamente sono aumentati i contributi di storici competenti e di osservatori validi e curiosi così come le occasioni per approfondire tale periodo, che risultano sempre più accessibili anche ai profani e non solo agli studiosi di professione; buoni esempi di divulgazione sono rinvenibili anche sul web, se si cerca bene: tra i tanti si possono citare le pagine www.misteriditalia.it> e www.storiaveneta.it.
Ritornare su quei fatti e approfondire le loro dinamiche riveste una importanza sempre maggiore per comprendere il nostro presente e lo stato della nostra democrazia.
Soprattutto è importante capire cosa abbiamo davvero rischiato, perché solo in questo modo sapremo davvero riconoscere quando preoccuparci realmente oggi, senza cedere ai sensazionalismi securitari e alle richieste ingiustificate di “pieni poteri” per fronteggiare emergenze inesistenti.

Alessandro Milito

(direfarescrivere, anno XVI, n. 174, luglio 2020)
 
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