Probabilmente non a tutti oggigiorno è noto il significato della parola hospice. Se dovessimo limitarci ad una semplice traduzione letterale dall’inglese all’italiano salterebbe fuori, con molta probabilità, “ospizio”. Tale termine, tuttavia, di certo non rende onore a tutto ciò che si cela dietro il suo corrispettivo inglese.
Hospice, per chi ancora non lo sapesse, designa una struttura ospedaliera finalizzata ad accogliere solo ed esclusivamente malati terminali. In altre parole, persone giunte al momento più cruciale e drammatico della loro esistenza: quello destinato all’incontro/scontro con il “Grande Mistero” della morte. Una specie di “non luogo” dove il tempo assume tutt’altro significato, visto che ogni giorno può corrispondere all’ultimo su questa Terra e come tale deve essere affrontato. Non solamente dai diretti interessati, i condannati dal verdetto finale della malattia, ma anche da tutti coloro che vi gravitano attorno: parenti, amici e, non ultimo, il personale ospedaliero. Date queste circostanze ne consegue che i muri di queste strutture sono impregnati non solo di sofferenza, ma anche di un’umanità che difficilmente si riscontra altrove.
Angela Barbieri è un’infermiera che ha scelto liberamente di svolgere la sua professione all’interno di un hospice e una tale scelta le ha certamente segnato l’esistenza. Da questa esperienza quotidiana nasce 120 giorni. L’équipe di un Hospice racconta (Infinito, pp. 120, € 12,00), un testo al quale è quasi impossibile imporre una di quelle etichette di cui necessita il mercato per vendere meglio.
Il grido soffocato di un’autrice coraggiosa
Si possono raccontare un milione di storie: da quelle che parlano di vicende umane intricate e realmente accadute a quelle basate su fantasiosi ed impervi cammini impregnate di temi filosofici; da quelle fatte di situazioni inverosimili in cui prendono vita personaggi indimenticabili a quelle talmente esilaranti da impedirci di trattenere il riso. Le storie che parlano di morte (non quella dozzinale che passa quasi inosservata, ma quella vera in grado di turbare realmente l’emotività del lettore) sono però da sempre le più difficili da affrontare. Per un semplice motivo: più passa il tempo e più pare non esservi posto per essa nella società contemporanea. La sua, a ben guardare, è una presenza che infastidisce e quindi si cerca il più possibile di sfatarla, di ignorarla, rinviandone la presa di coscienza a data da stabilire. È come se ogni giorno di più, senza che ce ne accorgessimo (e, forse, per la prima volta nella storia dell’umanità), stesse prendendo sempre più piede una cultura edonistica che rimuove la morte, rendendo l’atto stesso del morire una sorta di tabù piuttosto che una fase naturale dell’esistenza. Eppure, all’interno della medesima società, ci sono persone che lavorano ogni giorno a stretto contatto con la morte e di conseguenza essa, in una maniera che potremmo definire paradossale, diviene parte integrante della loro stessa vita.
Angela Barbieri, infermiera che ha scelto liberamente di svolgere la sua professione all’interno di un hospice, è senz’ombra di dubbio una di queste persone. L’autrice non ci propone un romanzo, né tanto meno un’autobiografia. A fine lettura, l’impressione che se ne ricava è quella della testimonianza di una scrittrice che si è mossa in punta di piedi, come per timore di disturbare troppo. Una scrittrice che ha bussato sommessamente alla porta del lettore, per poi consegnargli un grido soffocato, nonostante sia più che evidente che, almeno nelle intenzioni, a spingerla a scrivere sia stata la volontà di urlare al mondo la sofferenza che ha conosciuto e che adesso, inevitabilmente, porta dentro di sé.
Quando il personaggio principale diventa il luogo stesso
Partendo da un breve incipit autobiografico, l’autrice decide in seguito di soffermare il suo sguardo sulle persone che andranno a confluire all’interno della narrazione: i pazienti ricoverati e le due giovani volontarie, Arianna e Camilla, che si prenderanno cura di loro nel corso della vicenda. Figure centrali sono proprie queste ultime. Man mano che si procede con la lettura, infatti, diventa sempre più palese che il compito che esse svolgono non è tanto quello di sostegno per lo staff medico, quanto quello di risorsa indispensabile dell’intero hospice Sono loro, infatti, a ricoprire il delicato ruolo di anello di congiunzione tra il personale, le famiglie e il malato. Il ritratto che ne scaturisce è quello di piccole donne che, stabilendo un legame emotivo con i pazienti e i loro congiunti, apprendono le regole base per una serena convivenza: ascoltare, comprendere, porgere una mano, donare una carezza, un sorriso, un abbraccio. Il tutto in una costante lotta con se stesse ed i propri limiti.
Nonostante Camilla sia il personaggio meglio caratterizzato, e quello che occupa più spazio e peso all’interno della narrazione a causa di un grave conflitto interiore dovuto ad alcune incomprensioni familiari, non è tuttavia possibile elevarla al ruolo di protagonista. Non solo perché tutto il testo è costellato di personaggi che si delineano vicendevolmente come i protagonisti assoluti dei vari tasselli che compongono il quadro generale dell’opera, ma soprattutto perché è lo stesso hospice, a conti fatti, il vero protagonista del libro. E non potrebbe essere altrimenti, visto che la sua presenza è percepibile anche nel momento in cui non ci si ritrova all’interno delle sue mura. Mura che, al contrario di quello che si può credere, non sono asfissianti o opache, ma accoglienti e vivide. La percezione che se ne ricava, infatti, è quella di una struttura aperta, dalle caratteristiche particolari, gradevole, in grado di ricreare un ambiente simile ad una casa, essendo certamente quest’ultima il luogo di cui ha maggiormente bisogno una persona in quella fase della sua vita. Con questa affermazione non si vuole di certo sostenere che un hospice sia un luogo in cui ci si sente a proprio agio, ma semplicemente un posto in cui la vita, tutto sommato, continua piuttosto che terminare. Questo perché si tratta di un luogo quasi incantato, sospeso nel tempo, in cui è possibile scoprire la bellezza dei piccoli gesti quotidiani e apprezzare maggiormente quello che si ha, piuttosto che lasciarsi accecare da quello di cui non si dispone; che insegna quali emozioni e sentimenti contano veramente nella vita e dal quale si esce, per forza di cose, trasformati.
Tutto questo per dire che in 120 giorni. L’équipe di un Hospice racconta si narra il vivere, la fatica e la gioia di uomini e donne che ogni giorno – e senza riflettori puntati – compongono un inno alla vita. E non potrebbe essere altrimenti dal momento che, per un essere umano, l’attaccamento alla vita è un istinto non solo insopprimibile, ma che si acuisce ancor più quando le condizioni peggiorano, fino a configurarsi come senza speranza. Ognuno, seppur stremato dalla sofferenza, cerca di godere sino all’ultimo istante dei piccoli piaceri che la propria condizione gli consente. Devono esserci però alcuni requisiti affinché tutto questo possa accadere. E lo hospice è, senz’ombra di dubbio, il miglior risultato a cui si è giunti sino a questo momento.
Marco Molinari
(direfarescrivere, anno XII, n. 124, aprile 2016)
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