Anno XXI, n. 231
maggio 2025
 
In primo piano
La pretesa universalistica
del potere dello Stato pontificio
Proponiamo le Prefazioni al volume, edito Armando, di A. Donati:
quella storica, di M. Ponzani, e quella teologica, di P.A. Gajewski
di Michela Ponzani e Pawel Andrzej Gajewski
Il rapporto tra stato e chiesa e il ruolo di quest’ultima nell’ambito culturale, economico, politico e sociale sono da sempre oggetto di studio e di dibattito nel panorama editoriale e pubblicistico. Con l’avvento della globalizzazione questo interesse si è anche amplificato per dare seguito all’esigenza di riesaminare il quadro istituzionale della società contemporanea.
Attraverso un approccio interdisciplinare e una solida trattazione, ampia e documentata, Alberto Donati ha offerto il suo contributo all’argomento, soffermandosi sulla vocazione universalistica della chiesa che le discende dall’autoporsi dei pontefici come vicari di Dio sulla terra e, quindi, in quanto tali, come “sovrani” del mondo.
Nell’Abstract di La globalizzazione cattolica. Humanitas sub Pontifice (Armando editore, pp. 640, € 35,00), Alberto Donati – filosofo e giurista, docente universitario e autore di numerose pubblicazioni – così descrive i propositi del suo saggio: «L’assolutismo pontificio e l’assolutismo della oligarchia capitalistica, l’universalismo del primo, l’universalismo della seconda, sembrano avviarsi verso una progressiva integrazione […]. Si prospetta così, vichianamente, […] un secondo Medio Evo. Il saggio descrive lo stato attuale di questo percorso convergente al fine di scongiurarne la compiuta attuazione».
Il volume è suddiviso in otto parti e in dodici capitoli articolati, a loro volta, in sezioni, con un corposo apparato di note bibliografiche e due Appendici finali. Si apre con due interessanti e prestigiosi apparati critici: la Prefazione storica di Michela Ponzani, dottore di ricerca in Storia contemporanea all’Università di Firenze e consulente storico del Senato della Repubblica italiana; e la Prefazione teologica di Pawel Andrzej Gajewski, pastore della chiesa evangelica valdese e docente di Metodologia del dialogo interreligioso e Teologia delle religioni alla Facoltà valdese di Teologia a Roma.
Ve ne proponiamo di seguito la lettura specificandone che per entrambe le Prefazioni sono state eliminate le relative note con lo scopo di non appesantire la lettura.

Bottega editoriale


Prefazione storica
“La dignità è una parola chiave che ha caratterizzato la ripresa del secondo dopoguerra. La nostra storia recente si contraddistingue per l’indubbia centralità della promozione della dignità umana”. Sono queste le parole che Jorge Mario Bergoglio ha scelto per rivolgersi al Parlamento europeo, riunito a Strasburgo il 25 novembre 2014.
“Quale dignità potrà mai trovare una persona che non ha il cibo o il minimo essenziale per vivere e, peggio ancora, che non ha il lavoro che lo unge di dignità?”. La salita al soglio pontificio di papa Francesco arriva in un contesto di notevole calo di consensi per la Chiesa, in una società ferocemente segnata dal crollo di ogni forma di solidarietà sociale, acuita dalla crisi economica e dall’assenza di lavoro.
La consapevolezza di una crescente complessità tra globalizzazione e mutamenti sociali nella realtà contemporanea, con il suo inevitabile impatto nella sfera dei valori e delle religioni, è, di certo, all’origine del tentativo di Bergoglio di prendere una ferma posizione rispetto alle maggiori piaghe del mondo attuale: dallo stigma della pedofilia gettato sulla Chiesa, alla condanna della corruzione e delle connivenze tra Stato e mafia.
Sopra tutti questi aspetti, l’unico modo che, a parere del pontefice, l’uomo avrebbe di riconquistare un rapporto con la “libertà” e la “giustizia”, sarebbe dato dal vivere in povertà; una povertà eretta a regola di vita, nel recupero di una vita austera e morigerata, certamente in grado di avvicinare l’umanità allo Spirito, ritrovando gli originari valori del cristianesimo.
Il pontefice detta dunque l’agenda del retto vivere allo Stato democratico, indicando a quest’ultimo quali dovrebbero essere le tappe del suo impegno nel rendere l’uomo libero dal bisogno.

I tentativi papisti di dominazione culturale
Al rapporto tra Stato e Chiesa e al tentativo del papato di imporre il proprio dominio su una società da “confessionalizzare” nell’era della globalizzazione, è dedicato questo denso e documentato saggio di Alberto Donati. Attraverso un approfondito scavo bibliografico-documentale, l’autore ha il merito di soffermarsi su uno dei nodi più spinosi nel rapporto tra Chiesa e Stato; il tentativo del papato di affermare il predominio assoluto sulla società civile (civitas hominis), da realizzarsi per mezzo dell’assoggettamento dell’intera collettività al suo potere, nella piena affermazione dei diritti della Chiesa sulla persona umana, compresi quelli economici.
Sostenendo di essere il vicario di Dio sulla Terra, il papa reclama a sé da secoli la direzione della società umana, proclamando, così, il principio del suo primato politico, da esercitare – sia pur indirettamente – attraverso lo Stato.
Il diritto di godere della libertà religiosa, per la cura e la salvezza degli uomini, e di qui il bisogno di costruire un adeguato apparato educativo, perché il “dovere di educare spetta alla Chiesa”, non sarebbero nient’altro che gli strumenti con i quali il papato rivendica la propria autorità spirituale e, dunque, il diritto naturale d’imporsi sulla società degli uomini. Un diritto preesistente la natura stessa del mondo, non dipendente dalla volontà umana né derivante dall’autorità politica.
Naturale, dunque, che nell’era della grande crisi economica, la Chiesa cerchi di aumentare la sua alleanza con il potere politico, nell’idea che sia necessario recuperare terreno in una società in cui la mentalità e le scelte legate alla sfera culturale non sembrano più scandite dai precetti religiosi.

La crisi della centralità cattolica
L’origine di questo disegno di evangelizzazione – i cui percorsi storico-teologici sono ricostruiti in maniera estremamente dettagliata dall’autore – sarebbe allora da ricercare nell’avvento del papato durante il Medio Evo, perché è proprio in quel periodo che viene sancita la potestà assoluta della Chiesa sull’umanità.
I percorsi che nei secoli hanno condotto all’affermazione dell’irrinunciabile principio della laicità dello Stato, secondo quanto stabilito dalla Costituzione italiana del 1948, non sarebbero dunque riusciti a scardinare il potere d’assoggettamento della società civile, a ben diritto rivendicato dal pontefice in qualità di vicario di Dio sulla Terra.
Certo non si può negare che nell’era della globalizzazione il fenomeno religioso abbia perduto in tutto l’Occidente la sua centralità esclusiva. A dimostrarlo sarebbero diversi fattori, come ad esempio, il calo dei matrimoni religiosi con la messa in discussione delle sentenze della Sacra Rota da parte della Cassazione, che intervengono a far valere il principio della superiorità delle leggi umane su quelle divine; l’aumento delle unioni di fatto e le forme di convivenza tra omosessuali che – sebbene non riconosciute a norma di legge – sembrano non subire più la condanna sociale di un tempo. Infine, le campagne per l’educazione sessuale nelle scuole statali e, ancora, l’indignazione crescente per il privilegio concesso al Vaticano nell’esenzione dalle imposte rispetto alle sue numerose attività commerciali (alberghi, ristoranti, scuole, centri sportivi, cliniche, agenzie turistiche, ecc.).
Eppure, come l’autore di questo libro mette bene in evidenza, nel rapporto tra Chiesa e Stato sarebbe stato proprio quest’ultimo a perdere la battaglia per il predominio sulla società, “infeudato” dall’azione pontificia volta a globalizzare il cattolicesimo.
All’origine di tale rapporto squilibrato sarebbe stato anche il tentativo delle élite liberal-democratiche, di realizzare, in età risorgimentale, quell’idea di nazione indissolubilmente legata al principio di libertà, in Europa e in Italia. L’idea cioè di poter creare uno Stato-nazione a partire dal recupero di quei principi laici giacobini-rousseauiani già decantati dalla Francia rivoluzionaria, senza alcuna considerazione per il profondo radicamento, nel popolo italiano, di un sentimento religioso cattolico, da intendersi come tratto distintivo dell’identità nazionale, assieme ad altri aspetti geografici, culturali, linguistici e storici.
In alti termini, come avrebbe scritto Arturo Carlo Jemolo, “l’Italia una è stata creata attraverso il ricorso a una ideologia non italiana […] prescindendo volutamente dalle caratteristiche proprie alla nazione italiana”. Lungi dal preesistere allo Stato, il concetto stesso di patria sarebbe stato in Italia piuttosto una sua derivazione, con l’effetto di dover imporre alle classi dirigenti postunitarie il compito, di certo non facile, di educare un popolo da sempre diviso, per farlo “diventare nazione”.
La Chiesa avrebbe così avuto gioco facile nel veder sconfitta, sul nascere, l’idea mazziniana di una missione universale capace di unire tutti gli italiani, pronti a riconoscersi, in piena coscienza, parte di una nazione rinsaldata nello spirito di una nuova religione dell’umanità. Un’idea di nazione “volontaristica”, dunque, capace di formare un popolo alla coscienza della propria nazionalità, consapevole anche della necessità di doversi battere, di lottare per la libertà e l’indipendenza.

Il fallimento della laicizzazione dello Stato
La confessionalizzazione dello Stato italiano timidamente superata dalla “legge sulle guarentigie” del 15 maggio 1871, poi sancita dal Concordato dell’11 febbraio 1929 e successivamente dall’art. 7 della Costituzione repubblicana, con “lo Stato e la Chiesa […], ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, non avrebbe fatto altro che stabilire definitivamente la subordinazione dello Stato alla Chiesa, dando a quest’ultima gioco facile nel controllare un popolo incline a riconoscere, fin tropo agevolmente, la propria identità nella religione cristiana.
“L’evangelizzazione della società richiede [infatti] – come nota l’autore – che la religione cattolica, dopo la sua espulsione dall’area del diritto pubblico operata dalla Riforma e dall’Illuminismo, torni ad essere la religione di Stato”.
Il rafforzamento del “carattere nazionale, cioè moderato e tradizionale, del regime [identificato dal fascismo con lo Stato], a danno delle posizioni intransigenti”, dal carattere antitradizionalista, laico e rivoluzionario, si ha proprio con i Patti Lateranensi del 1929; un vero e proprio successo per Mussolini che potrà così rafforzare lo Stato con una netta tendenza verso il “conservatorismo politico e culturale”.
Il principio della collaborazione per il bene comune dei popoli nelle questioni sociali ed economiche, che sancisce la regola del coordinamento nei rapporti tra Stato e Chiesa, viene così assoggettato al criterio della subordinazione; nel “ricercare con la Chiesa le soluzioni più idonee per il bene comune” lo Stato non gode affatto di “un rapporto paritetico, ma gerarchico”, dal momento che non può approvare “altri provvedimenti che non siano quelli richiesti dalla Chiesa stessa”.
Non avendo poi alcuna competenza in materia etica, lo Stato ha demandato questa sfera integralmente alla Chiesa, che può così eserciate il suo potere di soggezione sulla collettività, rivendicando il diritto alla libertà religiosa e quello di organizzarsi nel modo che ritiene più opportuno all’interno dello Stato.
Durante il fascismo, è a partire dalla scuola e dalla famiglia che la Chiesa tenta di recuperare terreno in una società sempre più orientata a riconoscersi in uno Stato totalitario. Non è un caso che a cavallo della seconda metà degli anni Trenta la “svolta totalitaria” di regime manifesti l’ambizione di trasformare il fascismo in una vera e propria religione laica, nell’idea che sia ora possibile considerare il cattolicesimo solo e soltanto come “una componente” di quella che il ministro dell’Educazione nazionale, Giuseppe Bottai, definisce, la “religione dei padri”.
Come ogni movimento politico dell’era moderna, anche il fascismo mira ad assumere aspetti religiosi nell’ideologia, nello stile di vita, nelle attività di socializzazione e di integrazione delle masse, che vengono introdotte alla ritualità di nuove credenze, con il culto fideistico dei capi e l’adozione di nuovi riti e simboli.

Chiesa cattolica e fascismo
Da questo preciso momento il regime ingaggerà una spietata lotta con la Chiesa cattolica di Roma, ritenendo di dover sottrarre la gioventù d’Italia all’influenza della religione tradizionale, nell’idea che sia giunta l’ora di una nuova “sacralizzazione della politica”. Se certo, formalmente si dichiara il proprio rispetto alla Chiesa di Pietro, il regime guarda alla religione cattolica come a un “pericoloso concorrente” per la nuova funzione pedagogica dello Stato; è, infatti, proprio la presenza della Chiesa e di altre organizzazioni come l’Azione cattolica a poter contestare al fascismo il “monopolio della gioventù”, introdotta a una nuova liturgia fatta di parate militari, saggi ginnici, sfilate, canti corali, celebrazioni, simboli e gagliardetti. Sono le generazioni più giovani – viste come il futuro d’Italia – quelle che il Duce vorrebbe forgiare allo spirito combattentistico della “rivoluzione culturale fascista”. Un’immagine di ordine, forza, bellezza, potenza e giovinezza, capace di dar vita, attraverso la propaganda dei miti fascisti tra le masse, ad un nuovo “armonico collettivo”.
“Istituzione sussidiaria e complementare della famiglia”, la Chiesa non può tuttavia rinunciare a guardare alla scuola e all’educazione dei giovani, secondo quando scritto da Pio XI nella lettera enciclica Divini illius magistri del 31 dicembre 1929; è, infatti, alla scuola che si affida il compito di formare “con la Chiesa, un solo santuario sacro all’educazione cristiana”. Ad essere condannata è pure la scuola mista dal momento che la “convivenza perfetta dei due sessi [si ha] soltanto nell’unità del matrimonio”, visto che “la fecondità, principio di vita e quindi principio di educazione alla vita”, costituisce “insieme con l’autorità, principio di ordine”.
La Chiesa, così come del resto lo Stato fascista, cerca allora di mantenere il suo predomino, ingerendosi fin negli aspetti più intimi della vita delle persone. L’art. 36 del Concordato ha difatti stabilito che “l’Italia [debba] considera[re] fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica”.
Non è un caso che proprio nella politica per le donne elaborata dal regime fascista sia la Chiesa a intuire e fiutare la possibilità di ottenere un controllo sulla società pressoché definitivo; il concetto stesso che fa della “donna d’Italia”, la “pietra fondamentale della casa”, la “madre, sposa, collaboratrice essenziale dell’uomo nella vita sociale non meno che nell’azienda domestica”, non può non trovare il pieno accordo del mondo cattolico.
Nel marzo del 1926 il capo dell’allora Ufficio stampa del Partito nazionale fascista ha quindi modo di segnalare, a tutte le federazioni del fascio, come una “politica femminile di regime di grande efficacia” si possa realizzare solo ed esclusivamente “attraverso le buone tradizioni italiane dello spirito cattolico, senza alcuna separazione tra Stato e Chiesa, bensì [con la] subordinazione eterna dello Stato alla Chiesa”.
L’antifemminismo cattolico, tanto esaltato dagli intellettuali gesuiti o dai giuristi de «La Civiltà cattolica», come padre Agostino Gemelli e Anastasio Bocci, si dimostra negli anni del fascismo splendidamente affine alla legislazione contro l’aborto, che impone pene durissime per chi pratica il “delitto alla maternità”.
Il consenso delle organizzazioni cattoliche alle misure introdotte dal regime per favorire l’aumento delle nascite è, del resto, ben dimostrato dall’impegno in una capillare azione di propaganda attuata nel rispetto dei principi morali chiamati a regolare il matrimonio, secondo i precetti espressi da Pio XI nell’enciclica Casti connubii del 1930: “Il compito nobilissimo di sposa, di madre e di compagna”, deve infatti accordarsi con l’ordine all’interno della famiglia, basato sulla “superiorità del marito sopra la moglie e i figli”, nonché sulla “pronta soggezione e ubbidienza della moglie”.
Il controllo sulla sessualità femminile è, in sostanza, un principio non negoziabile, alla cui base sta la necessità del mantenimento della gerarchia sociale ordinata dal potere papale, posta al di sopra di qualsiasi autodeterminazione degli individui e di un principio che rispetti l’autonomia dello Stato laico.
Di generica centralità delle donne nella vita pubblica parla ancora oggi, del resto, il catechismo, che continua a relegare il mondo femminile al ruolo di accudimento, fuori e dentro la Chiesa. Ed è interessante notare che lo stesso papa Francesco veda le donne “accanto all’uomo”, senza che sia minimamente presa in considerazione l’idea di una possibile messa in discussione della superiorità del sacerdozio maschile. Al ruolo di una maternità sacrificale era del resto stata dedicata l’enciclica di Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, redatta nel 1995: “Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario […] lede gravemente l’onore del Creatore”.
“Oggetto di disordine morale” sono poi gli “atti omosessuali”, così come li definisce la Congregazione per la dottrina della fede in una lettera pastorale dell’ottobre 1996, condannati a sopportare nel “sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione”.
Caduta, pentimento e perdono: è questa la triade che da sempre denota la dottrina della fede ecclesiastica al servizio della conquista della società umana. In un momento di diffusa crisi economica e morale, laddove la politica non sembra più essere in grado di fornire soluzioni concrete ai bisogni umani o ai problemi legati al lavoro, all’immigrazione e alla pace, misericordia, espiazione e preghiera continuano a essere intimamente parte di una dottrina di evangelizzazione della società, che fa della Chiesa l’unico baluardo alla decadenza dell’uomo. Una dottrina che può legittimarsi proprio grazie alla subordinazione dello Stato alla Chiesa, regolata dall’art. 7 della Costituzione italiana.
L’autore si sofferma, con una lunga e articolata ricostruzione, sull’antistoricità di questo processo, ricordando come la radice cristiana dell’Europa, riconosciuta nel Trattato costituzionale europeo, sia assolutamente in contrasto col fatto che l’Europa moderna sia sorta, nel XVII secolo, “dall’esito vittorioso della Guerra dei trent’anni (1618-1648)”, e ancor prima dalla progressiva emancipazione dell’Europa dall’egemonia pontificia, con la Riforma luterana nel 1517 e poi con la Costituzione della Chiesa anglicana nel 1533; dunque “dal rifiuto radicale del cattolicesimo operato dalla Riforma e dall’Illuminismo”.
Quella che Donati definisce in questo saggio la restaurazione della potestas spiritualis, avrebbe dunque le sue origini proprio nell’incompiuta separazione tra Stato e Chiesa e nella mancata riduzione del papa a cittadino del Regno sabaudo, così com’era stato stabilito dalla “legge sulle guarentigie” che pure gli aveva concesso il beneficio di alcune prerogative. In quel processo di confessionalizzazione dello Stato, in cui il riconoscimento della libertà religiosa a favore della Chiesa cattolica sta ad indicare la soggezione del potere politico alle condizioni che ne garantiscono l’effettivo esercizio, i cattolici laici, non meno che i chierici, assumono – come indicato da Luigi Sturzo in opposizione alle teorie del non expedit – il ruolo essenziale di rappresentanti dei partiti cattolici nei parlamenti nazionali, al solo di fine di poter assumente il controllo dello Stato. Nell’incompiuta separazione tra Stato e Chiesa sarebbe pertanto l’origine di una classe politica che non riesce a distinguere la solidarietà dalla carità nel senso di charitas, ossia come valore ordinante il complesso delle relazioni sociali.

L’Assemblea costituente come occasione perduta di laicità
I partiti eletti all’Assemblea costituente, a seguito del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, si dimostreranno di fatto incapaci a rimuovere tutti quegli “ostacoli che si frappongo al pieno sviluppo e alla dignità della persona umana”, nell’idea che il lavoro sia un diritto da garantire perché così stabilito dal testo costituzionale, e non un atto di carità.
L’inserimento dell’art. 7 nel testo costituzionale avrebbe, di lì in poi, impedito allo Stato italiano di poter agire affinché, per mezzo del suo intervento, fosse realmente possibile promuovere l’uguaglianza di tutti i cittadini; accettando la costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi, recepiti integralmente nell’ordinamento dello Stato, anche la scuola statale veniva, infatti, ridimensionata nel suo ruolo formativo di cittadini con una mente critica, dunque poco inclini ad accondiscendere al pensiero dominante, a favore delle scuole private, per la maggior parte di orientamento cattolico.
Il patto sociale che da sempre regola i rapporti tra cittadini e Stato, per poi trasformarsi in legge scritta con l’approvazione di un testo costituzionale, sarebbe dunque venuto meno proprio durante i lavori preparatori dell’Assemblea costituente, che secondo l’autore avrebbe dovuto “procedere alla defascistizzazione dell’ordinamento politico e giuridico italiano”, invece di recepire integralmente il Concordato e limitare la sovranità dello Stato italiano.
L’Humanitas sub Pontifice può dunque realizzarsi al di fuori della volontà dei cittadini, per mezzo dell’operato di un’Assemblea costituente incapace di dar vita a un vero Stato democratico e di risolvere la “questione romana”.
Di qui, le parole ancora straordinariamente attuali di Piero Calamandrei, riportate da Donati, sull’illegittimità delle disposizioni relative alla sovranità dello Stato menomata dalla sottomissione alla Chiesa di Roma. “Una ben grave menomazione”, tale da chiedersi se nel “mandato che noi abbiamo avuto dal popolo […] ci sia, […] quello di consentire rinunce e menomazioni alla sovranità italiana; di quella sovranità che è nostro dovere affermare, difendere e tener alta ed intatta nella nostra Costituzione”.

Michela Ponzani


Prefazione teologica
Nel panorama editoriale contemporaneo si può notare una notevole proliferazione degli studi dedicati al ruolo della Chiesa, anzi delle chiese, nei processi culturali, sociali, politici ed economici legati al fenomeno della globalizzazione. Tale interesse è indubbiamente legato alla necessità di ripensare in maniera radicale tutto il quadro istituzionale della società contemporanea. Alberto Donati risponde a questa necessità in modo alquanto appassionato e originale. Il volume La globalizzazione cattolica. Humanitas sub Pontifice non è soltanto un saggio interdisciplinare che dimostra l’erudizione del suo autore, capace di usare approcci che spaziano tra filosofia del diritto, sociologia, antropologia e persino teologia. Si tratta prima di tutto della voce chiara e forte di un intellettuale seriamente preoccupato per alcune derive della società postmoderna; quella di un nuovo “secolo oscuro” in primo luogo.
Considerando l’ampiezza della ricerca svolta da Donati, il suo saggio potrebbe essere paragonato al volume di Peter Brown, Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d.C. (Einaudi, Torino, 2014) che si confronta con lo stesso argomento, utilizzando tuttavia l’approccio puramente storico. Se si volessero cercare riferimenti e collegamenti nel campo della teologia allora si dovrebbe ricordare Vittorio Subilia (1911-1988) e il suo studio Il problema del cattolicesimo (Claudiana, Torino, 1963). Il teologo valdese nella sua critica teologica del papato dimostra che la pretesa del dominio sull’umanità è parte integrante del cattolicesimo. Nell’ambito valdese questa dimensione “imperiale” del cattolicesimo romano è stata ricordata e discussa da Giorgio Tourn nel suo libro Italiani e protestantesimo. Un incontro impossibile? (Claudiana, Torino, 1998).
Volendo allargare lo sguardo all’Europa si può menzionare il pamphletdi Christian Nürnberger, Kirche wo bist du? (Dtv, München, 2000). L’autore di questo libro sostiene (apparentemente) una tesi radicalmente opposta a quelle di Donati: tutte le chiese cristiane mostrano segni di debolezza, decadenza e sottomissione ai dettami della società postmoderna. Nell’ambito della lingua inglese spicca il saggio di Pete Ward, Liquid Church (Hendrickson Publishers, Peabody (Ma), 2002), uno stimolante tentativo di instaurare un dialogo teologico con le teorie sociologiche di Zygmunt Bauman. La principale tesi di Ward è particolarmente interessante: la globalizzazione e la conseguente mutazione – dal solido al liquido – dei paradigmi e delle strutture sociali sono processi che mettono a repentaglio istituzioni ecclesiastiche “solide” ma favoriscono l’annuncio del messaggio cristiano che oggi è svolto principalmente da chiese e movimenti non dotati di una vera e propria struttura gerarchica. Quanto all’analisi teologica del cattolicesimo romano nella prospettiva evangelica merita una particolare attenzione la monografia di Leonardo De Chirico, Evangelical Theological Perspectives On Post-Vatican II Roman Catholicism (Peter Lang Publisher, Oxford, 2004).
Alla luce di questa breve rassegna lo studio di Alberto Donati, La globalizzazione cattolica, rimane tuttavia un saggio assolutamente originale perché il suo autore da un lato si confronta con una serie di problemi giuridici e politici, dall’altro invece cerca di proporre un modello, anzi un ideale, per quanto concerne rapporti tra Chiesa e società.

Un ideale mai raggiunto?
“Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. E ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio, rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che venivano salvati” (At 2, 44-47).
Se le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento sono teologicamente ed eticamente vincolanti per le chiese cristiane (e lo sono almeno in teoria) allora si può affermare che – salvo qualche minuscola e marginale eccezione – nessuna chiesa nella sua dimensione istituzionale è oggi conforme alla descrizione contenuta negli Atti degli apostoli. Alberto Donati dimostra con convinzione che la Chiesa cattolica romana nel suo assetto istituzionale è particolarmente lontana dall’ideale di una comunità cristiana che vive nella totale comunione dei beni “lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo”.
Quali elementi teologici contengono i versetti neotestamentari appena citati? Il primo elemento che balza agli occhi è la solidarietà verso i più deboli. Come principio teorico questo aspetto della vita ecclesiale è oggi particolarmente esaltato e legato all’esercizio della charitas (agape nel testo greco del Nuovo Testamento). Si tratta tuttavia di un principio che in una particolare visione del rapporto con il mondo diventa un formidabile strumento di sottomissione e di potere. Un potere che tende non tanto al semplice accumulo dei beni materiali ma piuttosto al dominio sull’intera economia globalizzata. Questa tesi è il filo rosso che unisce i diversi approcci al problema del cattolicesimo presenti in questo volume.
Infatti, il secondo elemento – che va individuato nel contesto più ampio della citazione – è il rapporto della comunità cristiana con il mondo profano. Negli Atti degli apostoli tale rapporto può essere espresso con il termine “separazione”. Si tratta di una separazione volontaria, pacifica e serena. Tale separazione si fonda sulla profonda convinzione di vivere già pienamente nel regno di Dio. “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui”, risponde Gesù a Pilato (Gv 18, 36). L’espressione “non è qui” (letteralmente “non è di qui” - οὐκ [non] ἔστιν [è] ἐντεῦθεν [di qui]) indica una forte tensione escatologica che caratterizzava la comunità delle origini. Il cristianesimo delle origini dunque ha impostato il suo rapporto con il potere in modo indipendente e diverso da ogni categoria mondana.
Tra gli studiosi che hanno ripreso e ricostruito tale visione del cristianesimo delle origini spicca il nome di Adolf von Harnack (1851-1930). La sua celebrità è legata alla monumentale ricerca sulla storia del dogma cristiano ma il suo scritto più conosciuto e più letto ancora oggi è L’essenza del cristianesimo. Il libro è nato dalle lezioni di Harnack tenute all’Università di Berlino nel semestre invernale 1899-1900 e pubblicate nel 1901. Nell’opera emergono distintamente le tre convinzioni fondamentali che si intrecciano con una vera e propria confessione di fede dell’autore.
La prima di queste convinzioni si fonda sull’asserzione che è possibile, attraverso un’indagine storica accurata e criticamente responsabile, individuare e circoscrivere il nucleo originario di ogni fenomeno storico. Una volta individuato, esso costituisce la sua verità e conferisce certezza al sapere umano. L’essenza del cristianesimo è appunto il suo nucleo storico originario che, secondo Harnack, coincide con la predicazione di Gesù, i cui tratti essenziali sono tre: l’annuncio del regno di Dio e la possibilità di percepire oggettivamente la sua venuta, la fede in Dio Padre misericordioso, per il quale ogni anima umana ha un valore infinito; l’esigenza di una giustizia superiore a quella puramente retributiva, una giustizia dettata dall’amore del prossimo e persino dei nemici.
La seconda convinzione di Harnack si riferisce alla coscienza religiosa di Gesù e al suo rapporto con Dio. Il cristianesimo significa in questa prospettiva la possibilità e la necessità di rifare l’esperienza religiosa di Gesù, rivivere il suo rapporto filiale con Dio, essere afferrati non solo dalla forza delle parole di Gesù ma dal mistero della sua persona.
La terza convinzione espressa da Harnack vede nel Vangelo la forza di trasformazione sociale. Non si tratta di vedere in Gesù un riformatore sociale ma di riconoscere che il Vangelo con la sua giustizia fondata sull’amore è un fermento di critica sociale e di ricostruzione dei rapporti collettivi nel segno di una effettiva (e non teorica) solidarietà e fraternità con i poveri.
Una particolare rivalutazione del pensiero di Harnack è stata espressa da Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) in una lettera scritta nel carcere di Tegel il 3 agosto 1944 e indirizzata a Eberhard Bethge: “La Chiesa deve uscire dalla sua stagnazione. Dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale col mondo. Dobbiamo rischiare di dire anche cose contestabili, se ciò permette di sollevare questioni di importanza vitale. Come teologo ‘moderno’, che tuttavia porta in sé l’eredità della teologia liberale, io mi sento tenuto a mettere sul tappeto tali questioni. Tra i giovani non ce ne saranno molti che connettono in sé le due cose”.
Nella prospettiva tracciata da Alberto Donati sembra che il cattolicesimo romano abbia compreso bene l’importanza del messaggio che il luterano Bonhoeffer lanciava ai suoi contemporanei più di settant’anni fa, in uno dei momenti più bui nella storia dell’umanità. Donati tuttavia esprime un giudizio chiaramente negativo sia sugli obiettivi sia sui metodi che il papato adotta oggi nel suo confronto con il mondo globalizzato: “Lo scopo ultimo è la cattolicizzazione della società occidentale, per questa via, della globalizzazione capitalistica. […] Non importa se l’umanità coinvolta nel processo economico globalizzato non sia affatto prevalentemente cattolica, importa, invece, che le sedi, da cui la globalizzazione si diparte, siano correlate al cattolicesimo” (Introduzione).
È il giudizio che un laico (nel senso più nobile di questo termine) dà di fronte al clericalismo imperante mutato nelle sue forme, apparentemente più aperte e dialogiche, ma immutato nella sua sostanza e nelle sue pretese.

Quale confronto?
A questo punto sembra opportuno confrontare tale critica con la sensibilità di chi cerca di vivere intensamente la propria fede rimanendo tuttavia profondamente laico nel suo rapporto con il mondo. Non si tratta di contrapporre necessariamente la “via protestante” – con tutte le sue debolezze e contraddizioni ben individuate da Donati (cap. X, sez. V, §§ 163-167) – a quella cattolica. Si tratta piuttosto del desiderio di inserirsi in un sincero dialogo sia con chi vive la propria esperienza del confronto con la realtà circostante in modo del tutto non religioso, sia con chi si sente legato a una visione del mondo (Weltanschauung) di forte impronta religiosa.
Per una Chiesa occuparsi come istituzione delle cose del mondo, significa inevitabilmente venire a compromessi con esso ed esserne trasformata secondo le regole e le esigenze (anche legittime e comprensibili) del mondo. I protestanti corrono consapevolmente tutti i rischi di tale trasformazione, cercando sempre di valutarla secondo volontà di Dio rivelata nella Bibbia. In questo contesto si colloca il principio dell’indipendenza dell’ordinamento della Chiesa nel suo aspetto istituzione nei confronti dell’ordinamento civile, enunciato nell’art. 5 della Disciplina generale della Chiesa valdese: “La Chiesa, fondata sui principi dell’Evangelo, si regge da sé in modo indipendente nell’osservanza della sua confessione di fede e del suo ordinamento senza pretendere alcuna condizione di privilegio nell’ordine temporale, né consentire nel proprio ordine ad ingerenze o restrizioni da parte della società civile”.
Alla Chiesa, che ha come campo di attenzione e d’azione l’annuncio del Vangelo della grazia di Dio, si contrappone, non come antagonista, ma come elemento dialettico, lo Stato, le istituzioni che guardano ai bisogni terreni e contingenti degli uomini e delle donne che vivono qui e ora, istituzioni che esprimono un ordinamento giuridico con istituti tipici, legato anch’esso al momento contingente, alla sensibilità sociale del tempo in cui è elaborato, imperfetto come ogni cosa umana.
Ordinamento ecclesiastico e ordinamento civile si distinguono per il diverso campo di attenzione, il diverso oggetto delle istituzioni, di cui sono rispettivamente espressione, e che regolamentano: in questo ambito la reciproca indipendenza dei due ordinamenti deve essere affermata con forza. Lo Stato, inteso come complesso di istituzioni espressione di comunità di uomini e donne con il compito di provvedere ai loro bisogni terreni, può adempiere questo compito mediante organi pubblici creati a questo fine, oppure demandando i medesimi compiti all’iniziativa privata, che assumerà allora una valenza pubblica. Il confine tra pubblico e privato è talora molto sottile, in questo senso, ma pur sempre sussistente.
Questa posizione si fonda principalmente nell’esperienza di una corrente all’interno del protestantesimo tedesco detta Chiesa confessante (Bekennende Kirche). Questa corrente si è istituzionalizzata nel 1934 con la pubblicazione della Dichiarazione teologica di Barmen. Il movimento divenne presto una forma di opposizione non soltanto nei confronti delle dirigenze ecclesiastiche ma anche un fattore di contestazione politica nei confronti del partito al governo. Significativa a questo proposito è la quinta tesi della Dichiarazione legata alla citazione di 1 Pt 2, 17 (“Temete Dio, onorate il re”): “Respingiamo la falsa dottrina secondo cui lo stato, al di là del suo compito particolare, dovrebbe e potrebbe diventare il solo e totale ordinamento della vita umana tanto da assolvere anche la funzione cui è destinata la chiesa. Respingiamo la falsa dottrina, secondo cui la chiesa, al di là del suo compito particolare, dovrebbe e potrebbe attribuirsi caratteri, compiti e dignità propri dello stato, tanto da diventarne essa stessa uno degli organi”.
Respingere ogni forma di totalitarismo, fermare sul nascere ogni pretesa di assolutezza, eliminare ogni confusione tra Chiesa e Stato: tutto questo significa riportare al centro della società l’essere umano con i suoi diritti fondamentali.

Quale umanesimo?
Nella parte finale del volume, Alberto Donati sviluppa, infatti, la prospettiva di un nuovo umanesimo “non religioso”. In questa prospettiva l’essere umano è chiamato a superare la dimensione religiosa della sua esistenza “raggiungendo le vette animate dal sapere razionale e, quindi, dagli eterni valori della giustizia” (cap. XII, § 193).
Questa istanza è particolarmente valida nel mondo occidentale in cui la pratica religiosa nelle sue forme istituzionali e consolidate riscontra un certo reflusso, se non una vera e propria fase di recessione. Sembra tuttavia che le vette del sapere razionale siano un’alternativa presa in considerazione da pochissime persone. La pratica e la ricerca di spiritualità genericamente intesa sembrano, invece, godere di ottima salute e attirare l’attenzione dei più. Può darsi che l’esplosione delle cosiddette nuove spiritualità, alla quale stiamo assistendo, sia un fenomeno tipico della nostra età, illusa dai miraggi di un mondo perfetto, proiettati nella seconda metà dell’Ottocento e nel primo Novecento, delusa dalle conquiste del secondo Novecento, le quali, nell’intenzione dei loro fautori, avrebbero assicurato pace e benessere a tutta l’umanità. Il culto della scienza e del progresso, inventato dalla modernità, sembra appartenere ormai allo sgabuzzino della storia. Le cose materiali come tali, già da parecchio tempo, hanno cessato di essere oggetti di adorazione. La corsa verso un prodotto tecnologicamente sempre più avanzato si rivela persa già in partenza, perché le industrie sono sempre in vantaggio, rendendo obsoleta una merce appena acquistata. Al di là delle interpretazioni storiche e sociologiche del fenomeno, si deve sottolineare la matrice religiosa che sta a monte dell’attuale ritorno della spiritualità. Questa matrice è un elemento indelebile – anche se contorto – dell’essere umano. L’uomo è un essere razionale in cui è impresso il pensiero dell’eternità e che ne è alla ricerca. Tale ricerca è il più delle volte un disperato tentativo di trovare il senso della propria esistenza.
L’obiettivo ultimo di ogni ricerca è la scoperta della verità sull’essere umano e quindi sull’intera realtà che lo circonda. Senza esitazioni si può asserire che tale ricerca ha prodotto frutti formidabili nel campo della filosofia, della letteratura e dell’arte. Gli scritti dei filosofi antichi e moderni, la bellezza delle sculture, la profondità delle emozioni, espresse dalla poesia e dal teatro, tutto questo ha un enorme valore anche oggi. Tali frutti della razionalità e dell’ingegno ma anche di una spiritualità genuina e non “confessionalizzata” possono e devono diventare un antidoto ad ogni pretesa assolutistica di matrice religiosa.
Indubbiamente al posto centrale della prospettiva tracciata da Alberto Donati si colloca la tutela della libertà religiosa con tutte le sue conseguenze culturali, politiche e legislative. Di fronte alle pretese del Vaticano da un lato e dello Stato islamico (Isis) dall’altro, davanti al moltiplicarsi delle diverse forme di spiritualità, è necessario un impegno comune di tutte le persone di buona volontà affinché il principio della libertà religiosa diventi sempre più parte del patrimonio sociale e culturale universalmente e globalmente condiviso. Lo stesso principio, per lo più già riconosciuto da numerosi ordinamenti giuridici, deve essere pienamente rispettato dalle autorità politiche, impedendo che nella collettività siano introdotte o praticate forme di privilegio o di discriminazione, a scapito della piena libertà di coscienza.

Pawel Andrzej Gajewski

(direfarescrivere, anno XII, n. 121, gennaio 2016)
 
Invia commenti Leggi commenti  
Segnala questo link ad un amico!
Inserisci l'indirizzo e-mail:
 

 

Direzione
Fulvio Mazza (Responsabile) e Mario Saccomanno

Collaboratori di redazione
Ilenia Marrapodi ed Elisa Guglielmi

Direfarescrivere è on line nei primi giorni di ogni mese.

Iscrizione al Roc n. 21969
Registrazione presso il Tribunale di Cosenza n. 771 del 9/1/2006.
Codice Cnr-Ispri: Issn 1827-8124.

Privacy Policy - Cookie Policy