«“E quello…?” dice in fretta Fulvia. Giulio coglie con la coda dell’occhio uno sbuffo di polvere sulla corsia opposta. Subito lo spartitraffico esplode in una nuvola di terra e metallo. Il parabrezza dell’Audi si riempie della massa incolore ed informe di una montagna di lamiera. Giulio Gangemi non frena neppure: ha appena il tempo di irrigidire le braccia contro il volante in un istintivo gesto di protezione. Lui e la moglie non sapranno mai se abbiano avvertito lo schianto, il rumore delle lamiere accartocciate e dei vetri esplosi, il colpo inutile degli airbag, simile ad una rivoltellata. La macchina schizza di lato, sotto l’urto immane dell’autoarticolato che, dopo avere sfondato la barriera centrale di protezione, ha centrato in pieno l’Audi. Il TIR prosegue la sua corsa senza controllo trascinando con sé parte della macchina, tranciata a mezzo. Si arresta con fragore e polvere nel fossato adiacente all’autostrada».
Sesto romanzo di Massimo Gregori Grgič, Litèutos (Mohicani edizioni, pp. 210, € 15,00) prende avvio in stile chandleriano: secco, asciutto, ma coinvolgente. Del resto, l’autore non è nuovo al genere noir, avendo già pubblicato con Felici editore Quote latte rosso sangue nel 2007 e Scomparsa in Toscana quest’anno, oltre all’ebook Golf, sesso e bugie. Sempre palle sono con Esse editore.
La trama di Litèutos prende avvio da uno spaventoso incidente d’auto che stronca le vite dei coniugi Gangemi. Il figlio Marco, artigiano gioielliere, ricco, elegante, instancabile tombeur de femmes, riceve la notizia per telefono mentre sta sacrificando a Venere con la bella Monica, fidanzata infedele del suo promesso sposo. Eros e Thànatos in piena regola, quindi, in un brano che procede per scorci rapidi, paragonabili alle inquadrature di un piano sequenza, analogamente a quelli della sciagura in autostrada e del gelido rituale di riconoscimento delle salme all’obitorio. Subito dopo la disgrazia, che lo abbatte moralmente, Marco riceve una lettera post mortem stilata dal padre Giulio, tramite la quale gli viene rivelato che il nonno Alfonso aveva ricavato l’origine della sua fortuna economica dall’oro affidatogli dagli ebrei fiorentini braccati dalla Gestapo. Oro mai più restituito alle famiglie dei proprietari deceduti nei campi di sterminio. La rivelazione si ripercuote anche sulla relazione con Monica: infuriata per l’apatia di Marco di fronte alla visione del suo corpo nudo, la ragazza lo piglia a schiaffi e se ne va sbattendo la porta. Poi si reca dal futuro marito e, dopo una rabbiosa cavalcata erotica in cui sfoga il suo rancore, scoppia in singhiozzi. Altro brano costruito in un sapiente crescendo in bilico fra cieca libidine e sentimenti feriti.
Un paesino in rovina rifiorisce sulle ali di un sogno utopico
Marco, in preda a una specie di ansia di fuga dalla frustrazione metropolitana, decide di ridare vita a Poiana, un paesucolo diroccato immerso fra le colline toscane, per poi stabilirsi lì. Addirittura lo ribattezza Litèutos, acronimo di “Libera Terra di Utopia e Sogno”. Insieme a due amici, Ludovico e Ranieri, compagni di viaggio nella sua avventura, Marco compie una scoperta interessante: «un antico portone rettangolare di legno, inquadrato da un arco acuto di pietra serena. Sopra ai battenti un tondo di ceramica bianca ed azzurra, sbeccato in più parti, raffigura la solita Madonna con bambino. La figura candida risalta sul fondo color cielo, la bordura di frutti colorati è molto rovinata, quasi scomparsa».
Forse un dipinto di scuola Della Robbia, che simboleggia efficacemente l’aspirazione a riscoprire le più antiche radici di un territorio in stato di abbandono. Inoltre, Marco conosce Stephanie, una escort di origine balcanica, che diviene la prima residente di Litèutos. Ricompare brevemente anche Monica, che a sorpresa capita a Poiana, ma lei e Marco non possono far altro che scambiarsi un malinconico addio. Nel frattempo, a causa del clamore suscitato dalla sua utopistica iniziativa, Marco attira su Litèutos l’attenzione dei mass media: il conflitto con la burocrazia locale diventa sempre più aspro. Altri esuli, come Marco in fuga dal consumismo, si radunano in quel luogo che pare fuori dal tempo: un prete in crisi spirituale, padre Vittore; una donna matura riemersa dall’alcolismo, Serena; una coppia gay, Manlio e Giuseppe, artigiani del cuoio; il professor Fornara, che, stufo della filosofia accademica, ora lavora come fabbro. E diversi altri pittoreschi personaggi. Arriva anche una giovane cronista, Emy, che trova Marco alquanto affascinante.
La situazione diviene incandescente quando le forze dell’ordine tentano un blitz notturno per snidare gli utopisti, gli “eretici del terzo millennio” assediati a Litèutos come i dolciniani sulla Parete Calva…
L’utopia si scontra con i mastini della repressione
Litèutos è una suggestiva favola moderna sulla lucida follia di chi tenta di riportare indietro le lancette della storia, alla disperata ricerca di tradizioni ormai irrimediabilmente perdute, ma ancora sedimentate nell’inconscio. Un sentimento di rigetto verso la cinica e alienante società globalizzata (qui personificata dall’arrivista Monica, la quale, pur amando appassionatamente Marco, non rinuncia al matrimonio con il rampollo di una straricca dinastia fiorentina).
La prosa limpida e incisiva dell’autore percorre gli snodi narrativi con le cadenze serrate di un reportage, e fa vibrare il diapason della tensione nei momenti giusti. La psicologia dei personaggi è delineata con cura, attraverso un gioco raffinato di flashback, e la violenza, spesso ottusa e ipocrita, delle istituzioni risalta nel drammatico finale con intensa partecipazione emotiva: «la scena è tragicomica. Da una parte del vallo ci sono i liteuti, in pigiama e ciabatte, che parlano tutti assieme e gesticolano agitando al cielo fucili da caccia. A dieci metri di distanza, dall’altra parte, ci sono sette uomini vestiti di nero, con le facce dipinte come dei guerrieri tribali neozelandesi, che imbracciano le mitragliette con aria bellicosa».
Il substrato ideologico dell’apologo è denso di sfaccettature: da nostalgie postsessantottesche (“l’immaginazione al potere”) a riferimenti più attuali sugli anticorpi di una società malata. E, naturalmente, l’amplificazione mediatica degli eventi che proietta sulla vicenda la luce livida dei riflettori, coagulando i destini del protagonista e delle numerose figure di contorno in un amalgama che, dal punto di vista squisitamente narrativo, funziona come un congegno ben oliato.
Guglielmo Colombero
(direfarescrivere, anno XI, n. 109, gennaio 2015) |