Prima opera di un più vasto progetto comprendente circa dieci volumi, Il declino degli dèi. Avvisaglie d’uragano si snoda nel crocicchio tra l’atavico regno delle divinità pagane, simbolo e sintesi dell’era della grande Roma, e il nascente culto del monoteismo cristiano. Il III secolo è, difatti, il frangente apicale della crisi dell’impero, che scandisce lentamente e incisivamente questo passaggio religioso, ma anche politico, con l’affermazione del grande e controverso monarca Diocleziano. Il IV secolo, invece, si contraddistingue per il grande fervore intellettuale che coniuga sapientemente la classicità greco-romana con i nascenti temi del cristianesimo.
Gerardo Passannante, autore di questo ambizioso progetto letterario, il cui primo volume è di imminente pubblicazione per i tipi di Città del sole edizioni, vive da molti anni in Svizzera, dove insegna Storia e Filosofia, ed è già autore, fra l’altro, di diverse raccolte poetiche (Miti e miraggi, L’altra dimensione, Passeggiando con Cristo, L’ora della memoria, Proibito, Incontro), di due Canzonieri di dimensioni petrarchesche (Appunti di un colloquio interrotto, Ex glebula Lux), di romanzi (Atto terzo, Atto gratuito, Rasmletikov, L’estetica dell’attimo), di racconti (L’ora della mezzanotte, Storie di polvere), di saggi, diari, e opere teatrali (Sha nagba imuru).
Qui di seguito vi proponiamo integralmente la Prefazione curata dal critico torinese Guglielmo Colombero e l’Introduzione del professore Fausto Cozzetto, docente di Storia moderna presso l’Università della Calabria.
Bottega editoriale
Prefazione
Il primo atto di una grande tragedia storica
Il declino e la caduta di un impero non sono mai frutto del caso, ma della concomitanza di più circostanze che, talvolta, si combinano in blocco. Narratore appassionato di un periodo storico fondamentale per l’Occidente, quello che, nel IV secolo d.C., segnò il passaggio dalla tetrarchia pagana fondata da Diocleziano al cesaropapismo cristiano di Costantino il Grande, Gerardo Passannante affronta una sfida complessa e difficile senza mai cadere nell’astruso o, all’opposto, nel prevedibile.
Il declino degli dèi prende le mosse dal fulmine che, nell’anno domini 283, incenerisce la tenda dell’imperatore Caro, spianando la via all’irresistibile carriera di un generale illirico al quale una druidessa aveva profetizzato un destino glorioso. Passerà alla storia con il nome di Diocleziano, e riuscirà ad imbalsamare per un ventennio un impero ormai disgregato e decomposto, ideando una nuova forma di governo, la tetrarchia. Passannante, capace di padroneggiare un intreccio romanzesco assai complicato grazie a una prosa elegante e raffinata, si addentra nella psicologia dei personaggi storici con una sonda di netta impronta junghiana: scava dentro di loro per coglierne i più segreti impulsi interiori, ne mette a nudo le sofferenze e le contraddizioni, ne incornicia le vicende in un’epoca di mutamenti traumatici, di sanguinosi intrighi, di implacabile resa dei conti fra una cultura ormai esausta e svuotata – quella degli dèi pagani declinanti, appunto – ed un’altra emergente e rivoluzionaria, quella cristiana del dio unico incarnato in terra da un Messia morto sulla croce per aver predicato la fratellanza universale. Una commedia del Potere, dove si agitano sulla scena maschere ora tragiche ora grottesche: «Sollevato all’impero in un secolo di violenza, sono condannato a finire presto, e non mi importa. Quando poi sarò scomparso, vadano pure in malora insieme a Roma questi parassiti del senato, che, ingannati dalle loro pinguedini, ignorano la vanità del transitare. Sconoscono, essi, le immersioni nei rigurgiti dell’odio; sono ciechi al sopruso degli eventi: e perciò non intendono il significato della mia vendetta su quel mondo che ha violato la mia fanciullezza innocente». Il monologo di Carino, giovane imperatore dissoluto che morirà pugnalato alle spalle da un tribuno al quale aveva stuprato e ucciso la sposa, appare fortemente emblematico di questa crudele introspezione che pervade tante pagine del romanzo di Passannante; mettendo anche a nudo, come un nervo scoperto, il profondo disagio di un autocrate ormai distante da qualsiasi affetto privato: «Diocleziano sapeva bene, e l’aveva capito nel momento stesso in cui aveva rivisto Prisca, che a lui d’ora in poi i sentimenti più ordinari non appartenevano più, che la scalata all’impero gli aveva donato l’universo, ma gli aveva sottratto il minuscolo, immenso bene, degli affetti comuni».
I fondamenti del potere imperiale, dunque, si rivelano fragili come il basamento di una statua costruito sulla sabbia: Passannante lo sottolinea in svariati passaggi, dando vita a un’intrigante alchimia di sentimenti e di emozioni, di parole e di silenzi, di occhiate e di sguardi. La galleria dei personaggi storici è folta: oltre a Diocleziano e all’imperatrice Prisca, la loro figlia Valeria e il suo innamorato senza speranza, il tribuno Aurelio; gli altri tre tetrarchi Massimiano, Galerio e Costanzo; la madre del futuro imperatore Costantino, Elena; il retore cristiano Lattanzio e il filosofo pagano Porfirio; l’eunuco Doroteo, e tanti altri evocati dal passato, come gli imperatori Gallieno e Valeriano, il martire Cipriano, la regina di Palmira Zenobia, il vescovo Paolo di Samosata, l’eretico Ario, l’usurpatore della Britannia Carausio. Passannante si sofferma ampiamente sugli antefatti della vicenda narrata, allo scopo di far riemergere le radici di uno degli eventi epocali della storia umana quale fu il crepuscolo di Roma prima del crollo finale. Dal punto di vista letterario, l’esperimento risulta assai stimolante: filosofia e religione, sviscerate in digressioni che immergono il lettore nella mentalità dell’epoca, costituiscono i due elementi essenziali di contorno della trama romanzesca. Una volta inquadrato lo sfondo su cui si muovono i personaggi, il lettore può utilizzare due chiavi interpretative: quella della Storia affabulata in romanzo, e quella del romanzo in cui s’innesta la realtà storica. Due aspetti che si compenetrano nel tessuto narrativo, come le due facce della medesima medaglia, ma che il lettore è in grado, volendo, di scorporare a proprio piacimento. La comprensione dei meccanismi, soprattutto psicologici, che minarono alla base il potere dei Cesari è fondamentale per intuire i significati che si annidano fra le pagine di Passannante, capaci di attrarre quanto di respingere chi ne sappia distillare l’essenza più autentica. Intellettualismo accademico? Niente affatto. L’autore si sofferma su aspetti sconosciuti e inediti di quel ciclo storico, inaugurato dall’ascesa al potere di Diocleziano e concluso dalla morte in battaglia di Giuliano, l’ultimo dei discendenti di Costantino il Grande. Otto decenni cruciali per la storia umana: e il primo atto di questa tragedia, a cui sicuramente avrebbe potuto ispirarsi Shakespeare, ne traccia i presupposti.
Passannante racconta a quali sotterfugi fece ricorso Diocleziano per conquistare lo scettro imperiale nel bel mezzo del caos cruento della Grande Anarchia, durata mezzo secolo, e come seppe conservare quel potere scegliendo di condividerlo con uomini che, a parte Costanzo Cloro, non possedevano le sue doti di statista. Uomini che, proprio perché rozzi e mediocri, Diocleziano era in grado di controllare e manovrare. Nelle pieghe del racconto, Passannante insinua la dimensione oppressiva e claustrofobica del potere, e la tratteggia attraverso certi dettagli che non sfuggono al lettore dal palato più esigente: «La tua prudenza non nasce dal timore che ti suscita ogni innovazione, e ti rende ostile a questo loro fervore? Il tuo rispetto per le divinità dell’impero, del resto, e lo so bene, è solo un’abitudine, e non una convinzione!», così Prisca rinfaccia a Diocleziano il suo tradizionalismo ipocrita che lo rende diffidente verso i cristiani. I dialoghi incalzanti gettano un fascio di luce su torbide macchinazioni di palazzo che, quasi allo scadere del ventennio dioclezianeo, sfoceranno nella decima ed ultima persecuzione anticristiana, la più insensata e virulenta di tutte.
Passannante ha sicuramente studiato a fondo la storiografia dell’impero romano (Eberhard Horst ed Edward Gibbon su tutti), e nelle sue pagine si sforza di oltrepassare le apparenze e di comporre un affresco storico lontano da qualsiasi luogo comune. E se, nel gettare la sonda nei moti interiori il suo stile narrativo si aggira nei dintorni di Joyce, di Musil e della Yourcenar, alcune impennate classiciste fanno più pensare al Flaubert di Salambò e all’Howard Fast di Spartacus. Il sadismo di Massimiano nell’ordinare il massacro della Legione Tebana, su cui l’autore si sofferma con particolare crudezza, è identico a quello di Crasso quando ordina la crocifissione degli schiavi lungo la Via Appia, e precorre il furore orgiastico con cui, sedici secoli dopo, Hitler avrebbe decretato la Soluzione Finale del problema ebraico a Wannsee. Il ghigno malsano di un dispotismo agonizzante traspare in tutta la sua ferocia in certi ritratti che, per il lettore appassionato di storia antica, rappresentano una prova di notevole maestria narrativa da parte di Passannante.
Il declino degli dèi è un caleidoscopio di sensazioni forti, carico di tensione morale e di conflitti emotivi, che rispecchia le convulsioni di una svolta epocale: le parole e il sangue affiorano da queste pagine coinvolgenti, dove la freddezza del cronista si surriscalda a tratti nel palpito violento del narratore di drammi individuali e collettivi, destinati a confluire nell’immenso magma della Storia umana.
Guglielmo Colombero
Introduzione
Annotazioni di uno storico
Santo Mazzarino, uno dei maggiori storici dell’Impero romano del secolo scorso, individuava negli imperatori illirici del III secolo dell’era cristiana, alcuni rilevanti caratteri comuni:
«Illirici sono i grandi imperatori di questo quarantennio che va da Claudio [Gotico Nda] all’epoca tetrarchica […] e di origine illiriciana saranno i Costantinidi e i Valentiniani nel IV secolo […]. La frequenza di imperatori di origine illirica si connette anche col fatto che la difesa limitanea costringe l’imperatore a trattenersi spesso nei Balcani. Ma gli imperatori illirici da Claudio all’epoca tetrarchica hanno un carattere comune. Questi generali, solidali fra loro, […] sono tutti presi dalla volontà di restaurare l’impero unitario nel segno della concordia. Sono soldati adoratori del Sol invictus […]; sono ispirati a una concezione democratico-militare del loro comando […] e seguono una coerente politica di agevolazioni sociali per gli Humiliores […]. Ormai in questo avanzato III secolo, è chiara la coscienza che l’imperatore è tale per la protezione e la grazia della divinità: basti pensare che esso è fondamentale in ogni canovaccio retorico di laudes imperatoris, come quello, a noi pervenuto, di un retore di questo periodo. Nello stesso canovaccio si troveranno altri luoghi comuni atti a definire l’ideale imperiale: il carattere ereditario della monarchia, la fissazione dell’antico concetto delle quattro virtutes dell’imperatore […], e via dicendo. L’alone religioso che circonda il monarca consente la diffusione di motivi orientali, come la conversazione del monarca col profeta su argomenti teologici» (S. Mazzarino, L’Impero romano, Laterza, Roma-Bari, 1973, vol. II, pp. 586-587).
Il lettore del romanzo storico di Passannante, se ha seguito spontaneamente l’ottimo principio che le Introduzioni o le Prefazioni vanno consultate a conclusione del proprio personale piacere di lettura dell’opera letteraria, si sarà reso subito conto dell’estrema cura che l’autore ha portato nell’inquadrare i personaggi principali e, per usare un linguaggio teatrale, le semplici comparse nel loro ambiente storico, quello del mondo euro-mediterraneo della seconda metà del III secolo d.C., attentamente ricostruito. Personalmente ritengo che in un romanzo storico ciò che conta, ed è proprio ciò che caratterizza questa prima parte del racconto di Passannante, sia la credibilità dell’invenzione romanzesca, frutto esclusivo dell’autore, poiché egli solo costruisce e dà consistenza allo spessore psicologico dei personaggi principali. Non vi è dubbio che essi siano costituiti da Diocleziano e dalla sua famiglia, rappresentata dalla moglie Prisca e dalla figlia Valeria. Le fonti storiche ci tramandano notizie sul destino, per così dire, politico, delle due personalità femminili, al quale non vogliamo accennare, per non togliere al lettore la sorpresa sugli esiti ulteriori delle vicende familiari dioclezianee, solo in parte desumibili nell’ultimo e, allo stato, decisivo scontro tra i due augusti coniugi, alla vigilia di una apparentemente inevitabile e definitiva rottura sentimentale, che si spinge fino alla scelta della lontananza voluta.
Il contesto storico in cui l’intreccio narrativo andava inserito è la riforma di Diocleziano, la cui radice è nella convinzione, storicamente ineccepibile, maturata dall’imperatore, come ha scritto Giuseppe Galasso, dell’impossibilità materiale e dell’inopportunità politica di mantenere in piedi il governo unitario dell’impero:
«Il meccanismo della “tetrarchia” da lui instaurato a questo scopo […] avrebbe dovuto risolvere anche il problema della successione al trono. Sarebbero state superate così sia la mancata affermazione di uno stabile principio dinastico, sia le lotte che per il titolo imperiale si erano scatenate per varii decenni e che avrebbero visto come protagonisti i diversi corpi dell’esercito, divenuto fatalmente la forza prevalente in un ordine politico e sociale profondamente sconvolto» (G. Galasso, Storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari, 1996, vol. I, p. 112).
L’immaginazione narrativa di Passannante indaga, con sottigliezza di rilievi psicologici, il retroterra umano e familiare di questo straordinario fatto politico e si può immaginare facilmente che tale indagine andrà avanti nella narrazione successiva. Ancora più pregnante attesa suscita nell’attento lettore di questo romanzo il rapporto di grandissimo rilievo storico tra Diocleziano e il mondo cristiano. Molti sono gli accenni presenti nel libro, che riprendono quanto si conosce sulla sua sostanziale indifferenza, fino all’annoiata sufficienza, verso quelli che riteneva estremismi infantili e perfino strumentali, posti in essere, per larga parte, da un clero inaffidabile. Né era casuale che fossero squisitamente politiche le ragioni che l’avevano portato a scegliere di governare la parte orientale dell’impero, dove invece più forte era la diffusione del culto cristiano e dei conflitti già in atto su temi fondamentali come il trinitarismo, la doppia natura umana e divina del Cristo, la nascita di una nuova religione come quella di Mani, etc. Passannante ha ragione nel presentare tali atteggiamenti di sufficienza verso le nuove religioni come parte di un rassegnato realismo dioclezianeo sui grandi mali dell’impero, non tutti curabili dalla sua straordinaria visione politica. Acuta la lettura che il nostro autore fa della più o meno fantasiosa vicenda della liquidazione fisica, da parte di Massimiano, di una intera legione, nota come tebana, ai suoi ordini, in quanto accusata di cristianesimo. Quando la vicenda viene rimproverata all’imperatore come prova dell’atrocità e inaffidabilità del secondo augusto del sistema tetrarchico, Diocleziano risponde che si tratta di operazioni possibili in zone di guerra, quando il comando del generale non può essere in alcun modo messo in discussione.
Passannante mette sulla bocca di Diocleziano la tesi fondamentale che nella corrispondenza tra Plinio e Traiano venne avanzata, agli inizi del II secolo dell’era cristiana, su quale dovesse essere l’atteggiamento politico nei riguardi del cristianesimo: non esistendo nella legislazione romana il reato di cristianesimo, i cristiani andavano puniti anche con la morte quando, accusati da un cittadino (che ne assumeva la responsabilità fino alla ritorsione ai suoi danni anche della pena di morte, in caso di delazione infamante), negavano apertamente la divinità imperiale, rifiutando il sacrificio, cioè negavano il potere superiore dello Stato romano e la sua Fortuna storica, forma di religione civile che costituì, fin dal principato augusteo, il coibente della civilitas di quel popolo. Eppure, qualche anno dopo, e in questo caso non anticipo nulla al lettore perché è vicenda assai nota, Diocleziano organizzò la prima grande persecuzione di Stato contro i cristiani.
Su un ultimo punto, mi permetto di intrattenere il cortese lettore. La mia formazione scientifica ha privilegiato e privilegia il tema della modernità, per cui, per mestiere, mi occupo di un’epoca assai più tarda di quella dioclezianea. A parte gli stimoli di un testo interessante, come ho cercato di spiegare in questo contributo, una cosa mi ha colpito particolarmente nel bel romanzo di Passannante: la sua attenzione al complessivo mondo euro-mediterraneo in cui si svolge la vicenda degli imperatori illirici. Il mondo persiano e quello armeno, in Asia minore; il mondo di Zenobia, novella Cleopatra, con il suo tentativo di ritagliarsi uno stato immenso tra Egitto, Arabia e Siria; la nuova dimensione balcanica dell’Impero dioclezianeo, vero crogiolo di popoli nuovi, con la sua ambizione di fondare una nuova città, Nicomedia, «a uguale distanza dal Danubio e dall’Eufrate». Quella di Diocleziano non sarà una nuova Roma, ma costituirà appunto il tramite essenziale dell’Impero romano con mondi in grande trasformazione, materiale e spirituale (tre secoli dopo, quel mondo, esprimerà l’Islam). Il nostro autore propone in maniera fuggevole le vicende dell’Europa centro-occidentale, Massimiano e la sua rozzezza politica sono emblematiche di questo mondo. L’unica eccezione è il terzo impero mancato della Britannia di Carausio. Viva è l’attenzione che Passannante volge su questa realtà che emerge da una dialettica di forze e intelligenze nuove, da abile romanziere-interprete capace di catturare la simpatia del lettore.
Fausto Cozzetto
Università della Calabria
(direfarescrivere, anno X, n. 107, novembre 2014)
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