Anno XXI, n. 231
maggio 2025
 
In primo piano
La teologia che condannò Galileo:
presto in un nuovo volume Rubbettino
Riportiamo la Presentazione di Romeo Bufalo e la Prefazione
di Fausto Cozzetto alla nuova interessante opera di Alberto Donati
di Romeo Bufalo e Fausto Cozzetto
Quella di Galileo Galilei è certamente una delle figure più affascinanti della storia culturale italiana (e non solo), con la quale tutti sono abituati a familiarizzare sin dai banchi delle scuole elementari.
La sua nota vicenda, in tempi relativamente recenti, è tornata al centro della cronaca quando papa Giovanni Paolo II, nel 1981, riconobbe l’errore commesso dalla chiesa e la correttezza della tesi eliocentrica per aver sostenuto la quale Galilei fu costretto ad abiurare.
Alberto Donati – filosofo e giurista, docente universitario e autore di numerose pubblicazioni – riapre il dibattito con un saggio di imminente pubblicazione per Rubbettino editore: Le motivazioni teologiche della condanna di Galileo Galilei (pp. 208, € 14,00).
La tesi dell’autore è che la condanna inflitta dalla Chiesa cattolica a Galilei – al contrario di ciò che comunemente si pensa – non avesse come reale oggetto la tesi eliocentrica sostenuta dallo scienziato pisano a discapito di quella geocentrica, ma da essa fu solo occasionata. Il vero “nocciolo” della questione era, piuttosto, di natura teologico-politica, dunque non scientifico-cosmologica, e riguardava la possibilità, che con Galilei si sarebbe aperta, di contraddire il magistero pontificio.
In altre parole, ciò che la chiesa condannò realmente a Galilei fu il fatto che questi, con la sua “rivoluzione scientifica”, mettesse a rischio l’unicità della fonte del sapere, costituita dal Testo sacro, con l’introduzione dell’autorità del “Libro della Natura” e la conseguente possibilità di contrastare una serie di valori appartenenti alla teologia cattolica.
Alberto Donati, infatti, sottolinea – con la densità della sua trattazione ricca di approfondimenti filosofici, giuridici, scientifici, storici e teologici – che l’ammissione, dopo quattro secoli, dell’errore scientifico commesso dalla chiesa è cosa ben diversa dalla revoca della sentenza di condanna (sentenza dunque da considerarsi ancora valida) e, specularmente, dall’emissione di una sentenza di assoluzione in favore di Galilei. Assoluzione che, secondo Alberto Donati, non potrà mai verificarsi in quanto la condanna di Galilei è la «logica conclusione indotta dal suo [della Chiesa cattolica, Ndr] dogmatismo teologico».
Il volume – suddiviso in cinque capitoli articolati, a loro volta, in sezioni, con un corposo apparato di note bibliografiche – si apre con due interessanti e prestigiosi apparati critici: la Presentazione di Romeo Bufalo, docente di Estetica presso l’Università della Calabria, e la Prefazione di Fausto Cozzetto, docente di Storia moderna nello stesso istituto.
Vi proponiamo di seguito la lettura di questi due contributi che “inaugurano” il saggio di Alberto Donati e che ne analizzano l’importanza e lo spessore, mettendone in evidenza le caratteristiche fondamentali e la portata delle tesi e della ricerca ivi contenute.
Buona lettura!

Bottega editoriale


Presentazione

Ancora un libro su Galileo Galilei ed il suo (tormentato) rapporto con la Chiesa cattolica? Sì, ancora uno e, se necessario, un altro ancora. Perché la memoria collettiva viene spesso appannata dallo scorrere del tempo; un fenomeno sociale, questo, per cui aspetti e vicende culturali di primaria importanza del passato vengono via via percepiti come secondari. Ecco: la vicenda di Galileo, se non alimentata opportunamente, rischia di venire ricordata come la storia di un banale fraintendimento scientifico e non, come invece è stata in realtà, lo scontro, decisivo per gli sviluppi della modernità, fra due modi di pensare, uno chiuso e dogmatico, l’altro aperto e plurale; uno centrato su verità (teologiche) predefinite, assolute ed immutabili, l’altro su verità (scientifiche) sempre nuove, controllabili e rivedibili.
Contro il pericolo di una attenuazione del significato che il processo, la condanna e la ritrattazione di Galileo hanno avuto per la storia culturale dell’età moderna e contemporanea mette in guardia il libro di Alberto Donati, che qui viene presentato. La tesi di fondo, argomentata con ricchezza di riferimenti testuali (filosofici, teologici, giuridici, storico-scientifici), è riassumibile nel modo seguente.
La Chiesa cattolica, depositaria della verità divina, riteneva che il sistema astronomico, quale risulta dalla Bibbia, fosse geocentrico. Per questo condannò a morte Galileo, sostenitore della tesi opposta (eliocentrica-copernicana). La condanna, come è noto, fu evitata in seguito all’abiura pronunciata dal grande scienziato pisano. Oggi, dopo quattro secoli, la Chiesa ammette l’errore per recuperare il rapporto con la scienza. Ma l’ammissione non ha implicazioni teologiche. Rimane limitata alla sfera dell’incidente scientifico: incomprensioni, difetto di comunicazione, uso di paradigmi diversi, e via di questo passo. Le cose però non stanno affatto così, sostiene l’autore. Altrimenti non si spiegherebbe la mancata revoca della sentenza di condanna, evidente nel fatto che non sono stati messi in discussione la santità ed il culto del Cardinale Bellarmino, il principe della Chiesa contro cui Galileo combatté e perse (almeno sul piano storico-contingente) la sua battaglia per il progresso del sapere scientifico. Scrive Alberto Donati nella sua Introduzione al saggio: “Altro l’ammissione dell’errore, altro la revoca della sentenza. La revoca è un provvedimento giurisdizionale specifico, l’ammissione è un atto, in sé e per sé, processualmente ininfluente; diviene giuridicamente rilevante solo se è seguito dalla apertura del procedimento di revoca, solo, quindi, se la originaria sentenza di condanna viene sostituita da una nuova sentenza di assoluzione”.
Sentenza di assoluzione che la Chiesa non ha ancora emesso, anche perché per prosciogliere Galileo bisognerebbe aprire nei suoi confronti un nuovo processo, di cui non si vede, a tutt’oggi, alcun indizio.
Tale constatazione spinge l’autore a formulare l’ipotesi che il processo a Galileo non sia stato occasionato da una semplice questione cosmologica, ma abbia avuto ad oggetto un tema essenzialmente teologico. E la natura teologica della controversia non fu senza ripercussioni sul cammino della scienza. Per cui è forse troppo sbrigativo l’ottimismo di un Karl Popper, il quale, in Scienza e filosofia, sostiene che quella della condanna di Galileo è ormai una storia vecchia; che la scienza galileiana non ha più nemici e la sua vittoria è ormai definitiva.
Condividiamo in pieno la cautela dell’autore. Anche noi infatti nutriamo forti dubbi che le cose stiano come pensava Popper. Ne sono una riprova lampante, solo per fare un esempio, le accese discussioni che hanno caratterizzato, non solo in Italia, il dibattito filosofico sul realismo degli ultimi anni. Anzi, diciamo che il libro di Alberto Donati ci offre, indirettamente, qualcuna delle ragioni teoriche che stanno storicamente alla base della contrapposizione odierna tra realisti ed antirealisti. L’autore individua in Lutero (per la religione), Galileo (per la scienza della natura), Grozio (per la teoria politico-giuridica) e Cartesio (per la filosofia) le figure più rappresentative del cosiddetto secondo Rinascimento, vale a dire di un filone di pensiero che confluirà nell’Illuminismo. Ciò che accomuna questi pensatori nei rispettivi campi in cui operarono è la delegittimazione del Testo Sacro. Cartesio sosteneva che le verità prime, quelle che si manifestano a noi in modo chiaro e distinto, sono indubitabilmente certe anche se Dio non esistesse, e non possono essere respinte su basi teologiche. Analoga funzione svolge il diritto naturale di Grozio rispetto a quello “scritto” nei codici, perché è dictatum rectae rationis. L’uomo non è volto al male, come pretende l’antropologia cristiana, ma è capace di vivere secondo ragione/natura (ragione e natura essendo termini interscambiabili nella prospettiva giusnaturalistica). Galileo, da parte sua, dice che nelle discussioni naturali non bisogna partire dall’autorità di un testo (per quanto sacro), ma da “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”. Tutto questo contribuiva, per strade diverse, a delegittimare il Liber Scripturae e a rivalutare il Liber Naturae. Il sapere di Cartesio, di Galileo, di Newton, di Copernico è un sapere nuovo, fondato sul primato della ragione sulla fede. Questi autori sono “moderni” perché hanno presentato un’immagine del mondo radicalmente diversa rispetto a quelle del passato; hanno puntato sull’idea di “progresso”, ossia sull’idea di scoperta di verità non note, contrapposta all’assolutismo teologico medievale.
Certo, trasformare la natura in un “libro” rispondeva, come ha sottolineato Hans Blumenberg, al bisogno di una concettualità più familiare rispetto a quella “degli idiomi stranieri delle specializzazioni teoretiche”. Ma, al contempo, serviva anche “come immagine per illustrare processi strutturali della stessa teoria scientifica” [1]. E tali processi venivano “mostrati” e “dimostrati” in un “libro”, cioè su un piano paritario rispetto a quello in cui venivano esposte le enunciazioni teologiche nell’altro libro per eccellenza, ossia nella Bibbia.
La mossa di Galileo era audace, non c’è che dire. Spostare infatti il discorso dal piano empirico-fattuale a quello ermeneutico-testuale significava disinnescare potenziali armi contro la legittimità della ricerca scientifica, giacché non si trattava più di uno scontro tra parola di Dio e parola dell’uomo, ma della lettura ed interpretazione di due libri entrambi scritti dallo stesso Autore. Il discorso dei due libri, infatti, supponeva autorità equivalenti e non offriva criteri per decidere in anticipo su quale lato dovessero aver luogo le operazioni esegetiche. Il “trucco” però (che Bellarmino ed i teologi gesuiti fiutarono subito) stava nel fatto che solo uno dei due libri (quello delle Sacre Scritture) era un libro vero; l’altro (il Liber Naturae) era un libro “metaforico”. In realtà, si trattava della natura come totalità dei fenomeni fisici dalla cui osservazione e sperimentazione l’uomo “razionale” individua le leggi, ossia le “verità”. La conseguenza era, come sottolinea Alberto Donati, che la fonte del sapere e della verità non era più il Liber Scripturae. O meglio, Galileo sostiene che le fonti della conoscenza sono due: il Liber Scripturae per quanto riguarda le verità di fede; il Liber Naturae per quanto riguarda le verità scientifico-naturali. Ma siccome non ci può essere contrasto tra le due verità (essendo entrambe di origine divina), sarà compito dei teologi mettere d’accordo le evidenze naturali con i testi sacri. Sono dunque questi ultimi a doversi adeguare alle verità desunte dalla natura ogni volta che queste ultime sembrano contraddire i primi, non viceversa.
Era il significato profondamente antiautoritario ed antidogmatico di queste posizioni che la Chiesa non poteva in nessun modo accettare. E questo rafforza l’interpretazione avanzata dall’autore secondo cui in ballo, nella controversia fra Galileo e la Chiesa, non c’era una semplice questione scientifica, ma un essenziale problema teologico-politico, riguardante la legittimità e l’autorità in ultima istanza della Chiesa stessa e la portata veritativa delle sue posizioni anche in materia cosmologica.
La Commissione pontificia sulla controversia tolemaico-copernicana istituita da Giovanni Paolo II nel 1981, infatti, riconobbe certamente, in via definitiva, l’erroneità della tesi geocentrica, ma minimizzò la questione riducendola ad una sorta di malinteso, di incomprensione, salvaguardando, comunque, la buona fede dei teologi dell’epoca che non si erano saputi ben districare tra problemi teologici e questioni cosmologiche. In fondo, la nuova scienza galileiana era troppo apertamente controintuitiva, in aperto contrasto con le evidenze empiriche del senso comune, per essere accettata. Dunque, il “problema Galileo” non ha implicazioni teologiche; è una questione del passato, senza ripercussioni sul presente.
Anche qui, l’autore manifesta forti dubbi in proposito; e noi con lui. Tanto per incominciare, i riconoscimenti odierni nei confronti delle teorie scientifiche galileiane confermano il diritto della Chiesa di sottoporre a giudizio le tesi ritenute eretiche, riproponendo, in tal modo, il dogma della sua infallibilità. In secondo luogo (e questo rimette in discussione l’argomento dell’errore scientifico e della buona fede dei teologi) il Cardinale Bellarmino non riteneva la tesi eliocentrica di per sé contraria alla fede; ma considerava grave il fatto che Galileo, sostenendola autonomamente, contraddicesse il Testo biblico. Questo era molto pericoloso per l’autorità della Chiesa. Perché comportava che chiunque, sulla base di verità di ragione, avrebbe potuto contestare qualunque altra parte del Testo biblico. Quale autorità potranno avere le Scritture qualora se ne evidenzi la falsità in più punti? In una lettera del 1615 al Padre calabrese Foscarini, Bellarmino mostra di comprendere la plausibilità ed il carattere “ipotetico” della teoria copernicana. Quello che non può accettare è il suo carattere “realistico”. Che il Sole stia fermo e la Terra si muova intorno ad esso spiega bene e “salva” le apparenze. Questo può essere accettato perché, dice il Cardinale, non rappresenta alcun pericolo per la Chiesa. Il pericolo derivava, invece, dal fatto che, dando alla teoria un significato “reale” e non meramente ipotetico, veniva messa in discussione la credibilità delle Sante Scritture. Questo la Chiesa non poteva permetterlo. Ed infatti, non lo permise. Come si diceva all’inizio, la sentenza di condanna nei confronti di Galileo non è stata affatto revocata e conserva, intatta, tutta la sua efficacia giuridica.
Ma perché il saggio, come si accennava prima, richiama le recenti discussioni su realismo ed antirealismo? Le richiama perché nella vicenda di Galileo si profila un contrasto insanabile tra libro e mondo, scrittura e natura. E si fa strada la convinzione che le verità del libro (cioè le interpretazioni) siano di gran lunga superiori alle verità del mondo (cioè ai fatti). Anzi, che le verità “vere” siano solo quelle depositate nella Bibbia, e quelle del mondo siano solo verità apparenti. La verità autentica è, insomma, quella scritta ed interpretata da chi ritiene di possederne l’autorità; mentre le verità del mondo, ossia le verità della scienza della natura, sono sempre parziali, mutevoli ed inaffidabili, data la limitatezza degli strumenti intellettivi umani e la precarietà dell’esperienza in cui i fenomeni accadono. Come scrive ancora Blumenberg, in questo periodo tra i libri e la realtà sorge un’insanabile inimicizia. Lo scritto si è sostituito alla realtà, allo scopo di renderla superflua. “La tradizione scritta, e infine stampata, si è costantemente risolta in un indebolimento dell’autenticità dell’esperienza” [2]. È in questo quadro che prende corpo l’idea galileiana del Libro della Natura come tentativo di attestarsi su un piano paritario rispetto a quello sul quale si muovevano i suoi avversari. Ma il tentativo, come è noto, non ebbe molto successo. E comunque, il privilegio attribuito al testo scritto come luogo della verità che si consegue mediante l’interpretazione, dunque senza passare per la contingenza del mondo sensibile, è l’antecedente logico-storico della sentenza postmoderna (ed antirealistica) secondo cui non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Il Liber Naturae studia direttamente i fenomeni, e le sue fonti sono i “fatti”; il Liber Scripturae ha come fonti solo le sue “parole” (e le “interpretazioni” costruibili con le parole).
Che le posizioni di Bellarmino, e, in generale, del pensiero controriformistico ed antigalileiano, siano assimilabili a quelle degli odierni antirealisti è dimostrato dalla simpateticità con cui le sue posizioni epistemologiche vengono oggi rivalutate da esponenti di spicco del pensiero antirealista. Ha incominciato Pierre Duhem, in un libro del 1908 [3], a rivalutare la posizione “ipoteticista” del Cardinale gesuita come brillante anticipazione delle moderne concezioni strumentalistiche e convenzionalistiche nella scienza. Secondo Duhem, Bellarmino, a differenza di Galileo, avrebbe mostrato una corretta comprensione della logica della scoperta scientifica, ed avrebbe impartito, lui teologo, allo scienziato Galileo una lezione di sano metodo scientifico [4]. Al seguito di Duhem, James Brodrick, Giorgio de Santillana ed altri entusiasti bellarminiani sostengono esplicitamente la superiorità di Bellarmino su Galileo. “Che Galileo avesse torto riguardo al metodo, e avesse invece ragione Bellarmino – ha scritto di recente Remigio Presenti – è evidente soprattutto oggi che gran parte dei fisici e degli scienziati, come attesta Popper, hanno adottato proprio la teoria ‘strumentalistica’ di origine bellarminiana” [5]. Si sorvola allegramente sul fatto che, al fondo delle posizioni di Bellarmino, circola non un reale atteggiamento scientifico, ma un sostanziale scetticismo circa le pretese veritative della scienza sperimentale. Gli uomini, senza il soccorso divino, non giungeranno mai ad una sicura conoscenza della reale struttura dell’universo. È questa sostanziale sfiducia nei confronti della scienza che orientava il Cardinale verso un’interpretazione letterale della Bibbia. Pertanto, il suo invito a parlare ex suppositione, e non realiter, è motivato da ragioni teologiche che non hanno nulla a che vedere con l’epistemologia e la metodologia della ricerca scientifica.
Per completare il quadro, alla schiera degli odierni seguaci di Bellarmino bisogna aggiungere il nome di un eccellente antirealista contemporaneo: quello di Paul K. Feyerabend, il quale, in uno scritto molto famoso della metà degli anni Settanta (che si intitolava Contro il metodo), sosteneva che le teorie scientifiche che variamente si confrontano (e si scontrano) sono diverse versioni del mondo in parte incommensurabili. Per cui non è detto che Galilei avesse ragione contro Bellarmino. Anzi, quest’ultimo ha fatto bene a condannare come eretica la posizione di Galileo, la quale avrebbe avuto ripercussioni negative sugli assetti complessivi di una società che vedeva nella Chiesa un principio d’ordine e di stabilizzazione sociale. Naturalmente, Feyerabend intendeva opporsi ad una concezione positivistica della fisica e delle scienze della natura in genere, secondo cui il sapere è una mera collezione di dati non bisognosi di schemi concettuali, cioè di interpretazione. Però, come ha ricordato Maurizio Ferraris [6], il risultato fu che, venti anni dopo, l’argomento di Feyerabend fu utilizzato da Papa Benedetto XVI per dire che gli stessi epistemologi sostengono che Galileo non aveva poi ragione in ultima istanza contro la teologia cattolica; e che il sapere umano spesso si avvita in antinomie e contraddizioni che possono risolversi solo in una ragione superiore: quella teologica.
Il cerchio, così, si chiude (se mai sia stato aperto), e, dopo tanto discorrere di strumentalismo, fenomenismo, relativismo; dopo tanta contrizione per i dolori patiti da Galileo; dopo le mezze ammissioni di errori e di confusioni (ma in perfetta buona fede, si intende!), la Chiesa celebra la superiorità conciliante e totalizzante della propria ragione illuminata dalla fede riutilizzando il vecchio, ma collaudatissimo ed efficientissimo, passe-partout fornito dalla dialettica hegeliana!
Riepilogando, e per concludere: la “colpa” di Galileo è stata quella di aver sfidato il vincolo fideistico che informava l’epistemologia teologica della Controriforma. L’eliocentrismo viene condannato non già in quanto scientificamente infondato, ma in quanto dottrinariamente eretico. La sentenza del 1633 colpiva Galileo in quanto teorizzava l’esigenza di tenere rigorosamente distinte ricerca scientifica e meditazione religiosa, problemi naturali e questioni morali. Egli aveva avuto, agli occhi dell’Inquisizione, l’ardire di sostenere, nell’ambito della ricerca scientifico-naturale, la priorità cognitiva dei riscontri empirici e delle determinazioni razionali sulle assunzioni di fede. Era davvero troppo per le sublimi certezze dei Padri inquisitori. Da questo punto di vista (e questo è sicuramente il significato politico-culturale del volume di Alberto Donati), si può dire che la sentenza del giugno 1633 non colpiva solo la persona di Galileo, ma, più in generale, l’idea secondo cui indagine scientifica e convinzione religiosa potessero “liberamente” ed “autonomamente” perseguire le loro distinte finalità, che è una delle conquiste più importanti dello spirito di tolleranza e del pensiero laico della modernità.

Romeo Bufalo
Università della Calabria, giugno 2014

[1] Blumenberg H., La leggibilità del mondo, edizione it. a cura di R. Bodei, il Mulino, Bologna, 1984, p. 37.
[2] Ivi, p. 35.
[3] Duhem P., Sozein tà phainoména. Essai sur la notion de théorie physique de Platon à Galiée, Vrin, Paris, 1908.
[4] Camerota M., Galileo Galilei e la cultura scientifica nell’età della Controriforma, Salerno Editrice, Roma, 2004.
[5] Presenti R., Galileo e Bellarmino. Lettura moderna di una disputa antica, Le Balze, Montepulciano, 2001, p. 70; in M. Camerota, Galileo Galilei…, cit., p. 286.
[6] Ferraris M., Manifesto per un nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 19-20.


Prefazione
La verità filosofico-teologica del processo a Galilei
Alberto Donati prosegue la sua opera quarantennale di indagine scientifica proponendo a un pubblico di uomini di cultura libri che riprendono temi tra i più coinvolgenti del mondo contemporaneo.
È ben chiaro che anche il libro attuale, Le motivazioni teologiche della condanna di Galileo Galilei, si inserisce nell’alveo delle tematiche trattate nel volume precedente (Scienza della Natura ed Etica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014), anzi ne costituisce un capitolo essenziale. Un Abstract, curato dallo stesso Alberto Donati, del libro di cui si parla, definisce in maniera indubbia le conclusioni a cui egli giunge, e proprio da queste, a mio parere, conviene prendere l’avvio, soddisfacendo l’incarico di prefatore che cortesemente mi è stato offerto.
“È convincimento diffuso – scrive Donati – che la condanna di Galileo Galilei, da parte della Chiesa cattolica, sia stata il prodotto di un errore. La realtà è ben diversa. Essa non fu motivata ex parte obiecti, vale a dire, non ebbe ad oggetto la tesi eliocentrica, la cui superiorità su quella geocentrica era riconosciuta dal Cardinale Roberto Bellarmino; la censura, invece, fu motivata ex parte dicentis, vale a dire, con essa si è inteso riprovare, in maniera categorica, la facoltà di contraddire il magistero pontificio. In altri termini, Galileo fu punito per avere fatto venire meno l’unicità della fonte del sapere, costituita dal Liber Scripturae, introducendo l’autorità del Liber Naturae, la preminenza di questo su quello, implicando, così, una serie di valori incompatibili con la teologia cattolica. Donde, nonostante le scuse, la mancata revoca della sentenza di condanna, donde la sua perdurante vigenza”.
Le osservazioni conclusive di Alberto Donati presuppongono un breve riassunto della vicenda storica che ha determinato in lui il riesame del processo a Galileo Galilei, sul quale esiste una letteratura vastissima, in particolare da parte della storiografia sull’età moderna. Le tesi scientifiche e le riflessioni galileiane, da un lato, verificavano sperimentalmente la teoria copernicana; dall’altro, scioglievano molto per tempo (1613) il contrasto conseguente tra la teoria eliocentrica e alcune affermazioni presenti nella Bibbia sulla centralità della Terra. Nella sua lettera a Don Benedetto Castelli, Galilei sosteneva che il gran Libro della Fede, cioè la Bibbia, non può essere considerato e letto come un complesso di dogmi scientifici, in particolare la centralità della Terra nell’universo creato da Dio, poiché Dio parla all’uomo sia con le verità di fede, presenti nella Bibbia, sia con le verità testimoniate dal “gran Libro della Natura”, cioè con l’insieme di leggi, dettate da Dio, che ne governano l’esistenza e che all’uomo è dato ad intendere attraverso la “sensata esperienza e le dimostrazioni necessarie”, cioè attraverso la scienza sperimentale che si fonda sui modelli matematici.
Giuseppe Galasso ha sottolineato come Galilei non arrivò da solo al suo processo: “Alla ‘repubblica delle lettere’ che da epoca assai più antica caratterizzava, al di là delle differenze di lingua e di pensiero, la vita attività artistica e letteraria, filosofica e filologica, si accompagnò ora una ideale ed equivalente ‘accademia delle scienze’, ossia l’unificazione degli scienziati in una comunità di ricerca e di studio legata a una progressiva e, infine, completa identità di metodi e di linguaggi, di problematiche e di definizioni disciplinari, con un nuova e più ampia unità culturale dell’Europa. Del resto qualsiasi sforzo di attenuazione di tale profonda novità non può cedere dinanzi al ricordo di un evento, a sua volta così profondamente simbolico, come fu il processo a Galilei. La condanna ecclesiastica dello scienziato pisano voleva essere una riprovazione religiosa e morale. Non fu, invece, che la quasi notarile (in realtà drammatica) constatazione di un divorzio fatale, iscritto potenzialmente fin dagli inizi della storia del pensiero europeo: il divorzio tra il principio di autorità e il principio della ricerca” [2].
Nel documento di abiura di Galilei, firmato nel 1663, i riferimenti sono semplici: egli ammette di avere sostenuto che il Sole e non la Terra era il centro del mondo – in realtà egli aveva dimostrato la falsità della tesi tolemaico-aristotelica sulla centralità della Terra – e riconosce che quelle erano credenze eretiche, poiché ben sa che sul geocentrismo si fonda la sostanza, non tanto scientifica quanto teologica, della predicazione e dell’autorità della Chiesa. Riconosciuto il primato dell’autorità religiosa sugli esiti della scienza, si impegna ad abiurare per sempre a queste sue convinzioni eretiche; non solo, ma si impegna anche a denunciare quanti ne sostenessero di simili o di altro tipo.
Il problema posto al centro dell’indagine da Alberto Donati non sono le carte del processo a Galilei. Tutta una prima parte del volume è dedicata all’emergere nella parte settentrionale dell’Europa di un movimento rinascimentale che ha come avversario dialettico quello che l’autore definisce il “feudalesimo cattolico” e che trova la sua affermazione nel “rinascimento religioso”: vale a dire i processi di riforma religiosa che si realizzano per opera di Lutero, di Calvino e di tutta la schiera di innovatori che sedimentano il movimento stesso in gran parte dell’Europa settentrionale. La seconda corrente di pensiero, nel cui alveo si situa l’opera galileiana, è quello che Alberto Donati definisce “rinascimento illuministico”.
Alberto Donati non è uno storico di professione e le sue specificità scientifiche certamente gli danno il diritto di utilizzare categorie concettuali legate ai grandi fenomeni dell’Europa moderna che ritiene più opportune. Tra di esse egli individua il “feudalesimo cattolico” che, mi pare, egli faccia coincidere con la teoria “omnis potestas a Deo”, secondo la quale il potere è di origine divina, e con il fatto che, nel corso del Medioevo, tale teoria è coincisa con quella, offerta dalla “tesi petrologica”, per cui Cristo ha delegato solo a San Pietro e alla Chiesa da lui creata a Roma il “potere di legare e di sciogliere, di salvare o di dannare”. Di conseguenza il potere è legittimo solo quando è cattolico. In questo senso l’avvio della messa in discussione dell’autorità cattolica, anche nella sua dimensione politica, si realizza con l’emergere dei movimenti protestanti e, soprattutto, di un potere religioso che non riconosce affatto l’identità tra potere e Cattolicesimo romano. Altra cosa è la giustificazione dell’origine divina del potere, concetto che non ha una declinazione specificamente cattolica e, come è noto, lo stesso Lutero non ha alcuna difficoltà, nella lotta contro la rivoluzione contadina in Germania, a rivolgersi ai signori feudali tedeschi. La giustificazione di Lutero rispetto al potere del principe si colloca nel concetto di chiamata divina del principe stesso a questo compito; presto però il problema del potere politico, per opera del calvinismo a Ginevra e più tardi nell’Europa settentrionale, assumerà un’ulteriore declinazione, affermando che la coscienza civile e morale del popolo di Dio non può non esercitare il suo controllo sui delegati alla guida della comunità.
Alberto Donati, avviando il suo discorso sui rinascimenti del nord dell’Europa, scrive di tralasciare “per brevità, di considerare i prodromi riscontrabili nell’Umanesimo e nel Rinascimento italiani”. Prodromi, è essenziale riconoscerlo, che trovano tra i suoi protagonisti Leonardo, con il concetto che la natura parla il linguaggio della matematica, e chi non conosce questo linguaggio non può indagarla. Poi però la nuova scienza spazia verso il settentrione d’Europa e un paio di decenni più tardi si propone l’opera di Niccolò Copernico, Intorno alle rivoluzioni delle orbite celesti, che porta una Prefazione di Osiander, un collaboratore di Lutero che tende a ridimensionare il valore della teoria, presentandola come una delle tante che mirano a chiarire i movimenti dei corpi celesti; mentre l’opera di Giovanni Keplero offrirà un fondamento matematico alla rotazione delle orbite ellittiche dei pianeti nel sistema solare. Si verifica poi l’emergere, proprio nel Mezzogiorno d’Italia, di una filosofia della natura, con Telesio e le sue ambiguità sensistiche e teologiche sul concetto dell’anima sopraggiunta, a salvare l’autorità morale della Chiesa; nonché la straordinaria adesione di Giordano Bruno all’universo infinito di Copernico, che pone con forza il concetto in un mondo infinito e il problema di quale ruolo in questo mondo dovrebbe svolgere l’essere umano, destrutturato dalla comoda posizione geocentrica e omocentrica.
Galilei giunge a questo punto. Le sue già citate affermazioni sul gran Libro della Natura che è scritto secondo il linguaggio delle dimostrazioni necessarie, cioè della matematica, si collegano altrettanto rigidamente alla “sensata esperienza”, cioè all’indagine scientifica frutto della ragione umana, che riconosce perciò il primato della ragione su ogni altra autorità. Ha ragione Alberto Donati nel non dare eccessivo peso, nella condanna di Galilei, alle questioni puramente descrittive dell’ordine cosmico. Il Cardinale Bellarmino e il Santo Uffizio, allora, come Papa Giovanni Paolo II e la Chiesa cattolica oggi, dichiarano la piena disponibilità a riconoscere l’errore cosmologico, ma riaffermano invece la condanna per una ragione umana che, guidata dal proprio primato, non legittima altra autorità che se stessa, rigettando quella del magistero cattolico e il suo fondamento divino.
L’autore, successivamente, affronta l’altro dei temi che gli preme esaminare, quello costituito dall’ammissione di Papa Giovanni Paolo II, espressa nel 1992, che la Chiesa aveva errato nel condannare Galilei. Occorre ricordare l’epoca in cui l’evento si produsse, anche se la Commissione pontificia incaricata dello studio del processo a Galilei e del suo oggetto (la controversia tolemaico-copernicana sviluppatasi nei secoli XVI e XVII) era stata istituita da Giovanni Paolo II il 3 luglio 1981. Il mondo, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, non dimentica il ruolo essenziale che Giovanni Paolo II ha avuto nella preparazione alla resistenza antisovietica dell’Europa orientale, e in particolare della sua Polonia, e nella sollecitazione della disgregazione del modello di società comunista realizzatosi nell’anno delle meraviglie, il 1989.
In questo contesto Giovanni Paolo II e la Chiesa cattolica ammettono l’errore compiuto nella condanna all’abiura di Galilei, riconoscono di avergli imposto sofferenze tanto più vili quanto più avanzata e debole era stata la sua resistenza contro l’ingiusta oppressione. Chi scrive, nel ripercorrere nei suoi corsi di Storia i grandi eventi dell’affermarsi della modernità nella vicenda europea, leggeva e commentava come modello ineguagliabile del consolidarsi dello spirito scientifico la Lettera a D. Benedetto Castelli. Nel 1992 i miei allievi si trovavano di fronte al riconoscimento pieno della massima autorità del mondo cattolico che la coscienza morale di Galilei aveva subito ingiuste sofferenze da parte di una delle più grandi potenze di tutti i tempi, quella della Chiesa cattolica: così come era avvenuto per le vittime dell’Unione Sovietica, per quelle della Germania orientale e del Muro di Berlino, come per i dittatori militari dell’America Latina e dell’Africa sub-sahariana. E su un altro elemento si fondava il valore etico della dichiarazione del Papa. Essa veniva all’indomani di un importante riconoscimento della Chiesa cattolica nei confronti di quello che per più di cinque secoli era stato considerato come il monaco agostiniano che aveva tradito l’unità della Chiesa, spinto, esclusivamente, o quasi, dalle sue brame sessuali nei confronti di una suora che aveva impegnato la sua esistenza come sposa di Cristo, come sottolineava nel 1965 Giorgio Spini nella sua classica Storia dell’Età Moderna. Si trattava, naturalmente, di Martin Lutero. Ora per la prima volta la massima guida del Cattolicesimo riconosceva, pur nel disaccordo permanente nei riguardi delle sue tesi teologiche, che Lutero aveva rappresentato una alternativa, moralmente elevata, di vivere il Cristianesimo e che nei suoi confronti non erano più consentite, da parte di esponenti della Chiesa cattolica, la teoria e la pratica del dileggio morale.
Alberto Donati, naturalmente, va in profondità, nel suo volume, nel cogliere lo spessore degli argomenti con cui la Commissione pontificia, dopo ben undici anni di indagine, pronunciava la sua risposta all’incarico affidatole dal Papa polacco, come rileva l’autore: “riconoscendo, definitivamente, l’erroneità della tesi geocentrica: ‘la rilettura dei documenti d’archivio – si legge nella conclusione – lo dimostra ancora una volta: tutti gli attori di un processo, senza eccezioni, hanno diritto al beneficio della buona fede, in assenza di documenti extraprocessuali contrari. […] i giudici di Galileo, incapaci di dissociare la fede da una cosmologia millenaria credettero a torto che l’adozione della rivoluzione copernicana, peraltro non ancora definitivamente provata, fosse tale da far vacillare la tradizione cattolica e che era loro dovere il proibirne l’insegnamento. Questo errore soggettivo di giudizio, così chiaro per noi oggi, li condusse ad adottare un provvedimento disciplinare di cui Galileo ‘ebbe molto a soffrire’. […] Per questa via, la controversia viene ridotta ad una quaestio facti: ‘La maggioranza dei teologi non percepiva la distinzione formale tra la Santa Scrittura e la sua interpretazione, il che li condusse a trasportare indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica’; ‘La nuova scienza galileiana, basata su modelli matematici, era in contraddizione troppo aperta con l’evidenza dei sensi per essere facilmente accettata’. Il contrasto, dunque, non avrebbe coinvolto, e non coinvolgerebbe neppure nel presente, questioni teologiche. Il caso Galilei non avrebbe avuto, e non avrebbe, alcuna rilevanza sul piano dei rapporti tra scienza e fede, vale a dire, tra scienza e magistero pontificio, talché ‘Le chiarificazioni apportate dai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso malinteso appartiene al passato’”.
In altri termini, conclude, come si è visto, Alberto Donati, “Galileo fu punito per avere fatto venire meno l’unicità della fonte del sapere, costituita dal Liber Scripturae, introducendo l’autorità del Liber Naturae, la preminenza di questo su quello, implicando, così, una serie di valori incompatibili con la teologia cattolica”.
Ma l’autore non si ferma qui. Egli sottolinea come in realtà le ragioni del processo a Galilei presumevano e presumono ben altra questione: precisamente la rivendicazione di un primato del Liber Naturae sul Liber Scripturae, ove il termine “primato” è, in realtà un eufemismo. Le concezioni che emergevano nel Sidereus Nuncius facevano crollare la fisica aristotelica e, inoltre, mettevano inesorabilmente in discussione il geocentrismo della Bibbia. Non solo gli altri corpi celesti erano fatti come la Terra e quelli del sistema solare giravano attorno al Sole, ma il ruolo privilegiato che il libro della Genesi riconosce alla Terra, il fatto che Dio abbia scelto la Terra come luogo della sua incarnazione, etc., fanno intendere come quanto si apprende dal Libro della Natura può creare seri problemi al Libro della Scrittura. Ed è proprio per questo che si giustifica, in realtà, la condanna di Galilei. La Chiesa fondata sulla “tesi petrologica” non è una semplice custode della Scrittura; è anche la sua unica e legittima interprete; colui il quale nega questa identità tra Chiesa e Scrittura, tra Chiesa e Cristianesimo quale è stato fondato dai Padri della Chiesa e dai Dottori della Chiesa, è un eretico e quindi va condannato.
Poi Alberto Donati elabora la sua indagine sugli inevitabili sviluppi deistici delle soluzioni galileiane; in particolare se il gran Libro della Natura è scritto in caratteri matematici, la matematica, che è uno strumento della ragione umana, rende l’uomo simile a Dio. L’evoluzione delle concezioni sei-settecentesche sull’universo-macchina e sull’uomo-macchina si collegano alla generale acquisizione del carattere infinito dello spazio, fondato sulla nuova fisica di Isacco Newton. Da qui uno spazio infinito retto da forze la cui composizione giustifica i movimenti dei sistemi che fanno parte di questo stesso spazio infinito. Kant – nella Critica della ragion pura, con i suoi giudizi sintetici a priori, proposizioni scientifiche fondate sulle intuizioni sensibili del tempo (aritmetica) e del dello spazio (geometria) sulle quali si esercitano le categorie a priori dell’intelletto, tra cui la legge di causalità – è l’ultimo garante della scientificità indubitabile del gran Libro della Natura. Un paio di generazioni più tardi le geometrie non euclidee, a partire dalla critica del quinto postulato dell’euclidea, metteranno progressivamente in crisi l’universo-macchina governato da leggi indubitabili perché a carattere matematico.
È stato altresì notato come “la filosofia moderna avrebbe, poi, invalidato e dissolto i presupposti oggettivistici e realistici sui quali queste basi erano state elaborate e avrebbe messo in luce la soggettività, la problematicità, la storicità della conoscenza umana, chiarendone ulteriormente la portata e la natura e ciò avrebbe, ovviamente, coinvolto pienamente e innanzitutto la scienza stessa nella sua fisionomia galileiana e newtoniana”.
Ma non si potrebbe proprio sostenere come senza questa fisionomia galileiana e newtoniana, manifestatasi con forza nonostante la umanamente irresistibile condanna del Santo Uffizio, avrebbe avuto gli esiti di cui l’umanità usufruisce.

Fausto Cozzetto
Università della Calabria, maggio 2014

[1] Galasso G., Storia d’Europa in Età moderna, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 184.
[2] Ivi, p. 182.

(direfarescrivere, anno X, n. 106, ottobre 2014)
 
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