Contraddire la deriva nichilistica dei nostri giorni attraverso una ricca e documentata ricostruzione della storia del pensiero scientifico e filosofico, incentrando l’analisi proprio sulla dicotomia tra Scienza ed Etica. Questo l’intento dell’autore del volume, che per ogni contesto storico in cui è suddivisibile il percorso umano – classico, medievale, moderno e contemporaneo – si sofferma a cogliere come le concezioni scientifiche predominanti abbiano ripercussioni sull’Etica e sull’immagine di Dio di ogni data società. Alberto Donati non si limita a ricostruire il cammino storico del pensiero, entra piuttosto nel vivo del dibattito animandolo con interrogativi e domande che tentano di dare una scossa al nichilismo oggi imperante.
Alla luce del bisogno dell’autore di considerare le due culture, quella umanistica e quella scientifica, come due facce della stessa medaglia, Scienza della Natura ed Etica (Rubbettino, pp. 470, € 29,00) offre degli spiragli di riflessione e delle lucide e interessanti conclusioni. Proponiamo di seguito la Prefazione del saggio a cura di Tonino Perna, docente dell’Università di Messina, e la Postfazione di Fausto Cozzetto, docente dell’Università della Calabria.
Bottega editoriale
Prefazione di Tonino Perna
Alla ricerca della verità nel regno del Chaos
Chi si accinge a leggere questo testo deve dotarsi di un respiro profondo e lasciarsi andare verso un viaggio affascinante e faticoso che dalla filosofia greca ci porta fino alle ultime “visioni” della scienza e della filosofia contemporanee. La bibliografia, veramente sterminata, non inficia il ritmo della lettura, che viene agevolato dal fatto che molti concetti, categorie e Weltanschauungen vengono riproposte più volte in diversi contesti. La ripetizione, che in genere è considerata un difetto espositivo, in questo caso aiuta a non perdere, quasi a metabolizzare, le diverse “visioni” del mondo nel corso della storia della scienza e della filosofia.
È un libro che pone diverse domande o degli interrogativi sulla scienza e l’etica, ma soprattutto ci pone una sola domanda, la Domanda Eterna: il senso del nostro stare al mondo, il senso della vita nostra, del nostro pianeta e dell’Universo. Ma non si tratta della speculazione di un filosofo o dell’ultima profezia del guru di turno, bensì di un excursus storico attraverso l’evoluzione/involuzione della Scienza e le sue ripercussioni sull’Etica. Partendo da un assunto: una Scienza che vede nella Natura una trama razionale porta a pensare ad un Dio che è Summa Ratio, l’Ordinatore Universale. È il Dio di Aristotele, Platone, Keplero, Newton e tanti altri. Ne consegue che anche l’Etica si debba fondare sulla ragione. Di contro, se la Natura è dominata dal chaos, se non ci sono leggi razionali ed intellegibili che la guidano, allora si cade nel nichilismo etico oppure nella fede in un Dio come Summa Voluntas, che è il Dio dei Cristiani. Non a caso nel Pater Noster diciamo: “sia fatta la tua volontà come in Cielo così in Terra”. Cioè la Creazione continua, non è data per sempre, perché “sia in Cielo che in Terra” si deve ancora compiere pienamente.
Queste le coordinate dentro le quali si muove Donati in un faticoso cammino che lo porta dalla caverna di Platone fino alla teoria della relatività di Einstein. Ma non si tratta di una semplice storia del pensiero scientifico e dei suoi risvolti sul piano etico. L’Autore entra nel vivo del dibattito che ha animato le diverse visioni del mondo e che ci porta ancora oggi a domandarci: siamo noi, il nostro cervello, che dà una forma logica o probabilistica – secondo l’approccio di Einstein – alla Natura o invece con la nostra mente penetriamo nel mondo che ci circonda, che ha in sé una struttura razionale e comprensibile? Facciamo degli esempi concreti.
Molti anni fa, come è capitato a tanti, ho sperimentato la medicina omeopatica, nello specifico per curarmi un’ulcera gastrointestinale. La cura è andata bene e parlandone con i miei amici medici mi sono sentito rispondere: pura suggestione. Infatti, secondo la medicina ufficiale, allopatica, i farmaci omeopatici non contengono alcuna sostanza per via delle progressive diluizioni che subiscono. Anche se ci sono scienziati come il professor Tiezzi dell’Università di Siena, che una decina di anni fa pubblicò un articolo scientifico in cui si sosteneva che il passaggio nell’acqua di corpi estranei ne cambia la struttura cristallina. Difficile capire dove stia la verità, ma fatto sta che decine di milioni di persone usano farmaci omeopatici. Ancora di più si è diffusa in Occidente la pratica dell’agopuntura. Sicuramente questa tecnica ha avuto migliore accoglienza da parte della medicina occidentale, molti la praticano, pochissimi sanno che l’agopuntura è figlia di una visione del nostro corpo totalmente altra rispetto a quella della scienza medica occidentale. Per noi il corpo è una macchina chimico-fisica che funziona in modo complesso, ma comunque analizzabile attraverso una serie di indicatori. Per questo facciamo una quantità industriale di analisi del sangue, raggi, ecografie, eccetera. Per la medicina orientale, in particolare quella cinese, il nostro corpo è attraversato da fasci di energia che partono dal cervello e si diffondono ovunque. Per noi la malattia nasce da uno squilibrio chimico-fisico, per la medicina orientale da un blocco nei flussi di energia (che, attenzione, non coincidono con la descrizione del sistema nervoso dei nostri trattati di anatomia). La questione di fondo è: entrambi questi approcci portano a terapie che si dimostrano efficaci, come se il nostro corpo fosse leggibile con diverse modalità, alla stregua di una “tabula rasa” su cui possiamo inscrivere un sistema interpretativo coerente. Ovvero: esiste un dato oggettivo o siamo noi che, partendo da un “a priori” – come sosterrebbe Kant – interpretiamo il mondo e quindi anche il nostro corpo?
Possiamo dire che per la maggioranza della popolazione mondiale, almeno a livello di ceto medio che conta circa due miliardi e mezzo di persone, la soluzione al quesito passa attraverso il bricolage. E questo non riguarda solo l’uso promiscuo di più scuole di pensiero nel campo della medicina, ma anche della religione (il sincretismo) siamo un po’ atei e un po’ credenti, un po’ buddisti e un po’ cristiani, per non parlare dei brasiliani o dei nigeriani e di altri popoli dove le antiche pratiche magico-sacrali si sono mescolate con quelle della religione cristiana. Ed anche in politica è il bricolage a prevalere: siamo un po’ di sinistra per alcuni valori e, contemporaneamente, di destra per altri. Per esempio: possiamo essere molto aperti alle istanze del mondo gay, alla parità uomo-donna, ma guai a parlarci di Rom, li manderemmo tutti al rogo, oppure possiamo essere molto rivoluzionari sul piano sociale, dei diritti dei lavoratori, della lotta alla classe capitalista, ma guai a parlare di matrimonio gay o essere disponibili a svolgere mansioni domestiche (vale per i maschi).
Pertanto, viviamo in un tempo di etica debole, lungo una borderline che attraversa più visioni della vita, senza mai scegliere veramente e fino in fondo. Per Donati questo è il frutto di una Scienza che attraverso la relatività del tempo di Einstein, il principio d’indeterminazione di Heisenberg o i quanti di Plank legati ad un principio di probabilità, ci restituisce una Weltanschauung in cui non ci sono più certezze, tutto è relativo all’osservatore, il quale quando cerca di entrare nel mondo subatomico modifica con i suoi strumenti la realtà che vuole indagare. Per dirla con Monod: “L’antica alleanza è infranta, l’uomo sa di essere solo nell’immensità dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere come il suo destino non è scritto in nessun luogo” (vedi paragrafo 95).
In fondo questa è la stessa immagine del mondo che ci hanno lasciato, duemilacinquecento anni fa, Democrito e gli atomisti, ma anche Protagora col suo relativismo assoluto. Sembra impossibile, ma è così, anche se la maggior parte della gente non lo sa. Il fatto è che gli abitanti di questo pianeta scambiano spesso la Scienza con la Tecnologia. Quest’ultima ha fatto straordinari progressi che costituiscono una comune esperienza quotidiana. Quando accendiamo il computer o usiamo uno smartphone non sappiamo nulla su come funzionano, su come agiscono gli elettroni, le onde elettromagnetiche, i campi… ma li usiamo volentieri perché ci sono utili. Pensiamo che essi siano il frutto della Scienza, per cui crediamo a tutto quello che gli scienziati ci raccontano. Anche quando sono solo ipotesi, o favole, come il big bang che segna l’origine dell’Universo, o quando ci dicono che ci sono molti universi. Chiariamoci: sicuramente se siamo capaci di mandare una navicella spaziale sulla luna è perché la Fisica classica, quella di Newton e Keplero, ci ha regalato le leggi che governano i corpi nello spazio. Così come la Chimica ci ha dato la possibilità di creare dei nuovi materiali, qualche volta utili e non di rado inquinanti, che hanno cambiato la nostra vita quotidiana. Ma è di fronte alle domande ultime, all’origine della vita e dell’Universo che la Scienza contemporanea non va oltre le intuizioni dei filosofi del mondo greco antico. Pensiamo solo al fatto che gli ultimi studi di cosmologia ci dicono che l’Universo è composto, si regge e funziona, grazie ad una “materia oscura” che ne costituisce il 55%! Cioè non sappiamo spiegarci cosa fa sì che l’Universo non esploda o imploda ed allora ricorriamo alla materia/energia oscura, come i filosofi greci, a partire da Aristotele, ci parlavano di un quinto elemento – l’etere – per spiegare quello che la combinazione dei quattro elementi – terra, acqua, aria e fuoco – non riusciva a fare rispetto alla vita ed all’ordine del Cosmo.
Il risultato è che la Scienza contemporanea, scartando qualunque causa iniziale o finale dell’Universo e della vita su questo pianeta, ha sostituito Dio con il caso, con la triste legge delle probabilità che determinano i fenomeni. La Filosofia non ha fatto altro che prendere dalla Scienza questi principî – indeterminazione, casualità, probabilità, relatività – per tradurli in una visione nichilista della realtà, dove niente ha un senso al di fuori dei nostri bisogni e dei nostri istinti (per dirla con Nietzsche).
Questo è il punto di arrivo, ma anche di ripartenza di questo volume, in quanto Donati, indossando le lenti marxiane nella visione della storia, mostra una forte correlazione tra il relativismo etico e il predominio del capitale finanziario, del turbocapitalismo che non tollera ostacoli di sorta al suo cammino. Un’Etica forte e chiara, infatti, pone dei limiti nello sfruttamento dell’uomo e della Natura, nell’asservimento/trasformazione di tutto l’esistente in merce. Ma è proprio dall’Etica che si è staccata l’economia politica – quella di Smith, Ricardo, Marx e Stuart Mill – da quando ha tentato di imitare le scienze “dure” trasformandosi in econometria, fondata su assiomi indimostrabili, ma utili per rinsaldare un’ideologia mercatistica della società umana.
In effetti, è ormai chiaro a molti che il mondo in cui viviamo è retto dal “pensiero unico” che vede nell’accumulazione capitalistica, nella crescita del Pil, l’unico scopo della vita e delle attività dell’uomo. Un sistema economico che ormai ci ha resi prigionieri, che ci costringe ad indebitarci per mantenere in vita questa macchina produttiva che procede come un aereo impazzito privo di pilota. Lo abbiamo capito con estrema chiarezza durante questi anni di “lunga recessione”. Un’occasione storica per cambiare il nostro modello di consumi forsennati e di distruzione degli ecosistemi si è tradotta in un panico generale in cui l’unica cosa che conta è la Crescita, il vero dio del nostro tempo. Così ci affanniamo per riprendere il cammino interrotto, con una ostinazione che rasenta la follia.
Ma cosa potrà mai salvarci se non c’è un Dio, un senso forte della vita e dello stare a questo mondo? Se la Natura non è altro che un pozzo dove attingere materie prime o geni da riutilizzare e ricombinare per aumentare la produttività e tagliare i costi del lavoro? Non è un caso che la maggiore resistenza a questo scempio della Natura sia venuta in questi ultimi decenni dai popoli indigeni dell’America Latina in cui persisteva una visione della Natura come Pachamama (madre terra), come è scritto nella nuova Costituzione della Bolivia.
Si può dire, per concludere, che bisogna ricominciare a fare i conti con le domande di senso, uscire dal vortice in cui siamo precipitati, andare a riscoprire la sacralità della vita in tutte le sue forme. In fondo, l’hanno detto in tanti: questa crisi che stiamo vivendo, che è economica, sociale, istituzionale, ma soprattutto etica, ci offre anche delle opportunità inaspettate se sapremo vederle e perseguirle.
In questo cammino, questo libro può essere un buon compagno di viaggio, di cui si possono condividere o meno diversi punti di vista, ma non si può ignorare la tensione verso la ricerca della Verità che lo anima. Perché come diceva l’Apostolo Paolo “la Verità vi renderà liberi”.
Forse l’autore è preso da un eccesso di nostalgia per un mondo, quello della Fisica classica, in cui predominavano le certezze e l’Universo appariva come un grande orologio regolato dal Creatore. Diversamente, a mio modesto avviso, credo che il nichilismo predominante possa essere superato se sapremo modificare questo modello sociale iniquo e perverso, e liberare la nostra immaginazione, ascoltare la nostra anima che non è un insieme di particelle al silicio che giocano tra loro, come vorrebbe farci credere la neuroscienza imperante.
Tonino Perna
Docente dell’Università di Messina
Postfazione di Fausto Cozzetto
Non è semplice operare alcune riflessioni di insieme su un testo così complesso come quello redatto da Alberto Donati, Scienza della Natura ed Etica, le cui dimensioni tematiche appaiono visivamente all’attenzione del lettore con le svariate centinaia di pagine che lo compongono e con un numero di note che superano ampiamente il migliaio, e di citazioni di autori che è arduo quantificare. Tali dimensioni, peraltro, sono assolutamente giustificate dalla complessità degli argomenti che lo studioso esamina sulla base di una formazione scientifica di forte impatto enciclopedico, quando però si definisca questo aggettivo nella sua migliore formulazione, quella, per intenderci, che ha come riferimento quel monumento alla cultura del suo tempo e di ogni tempo che fu la prima Enciclopedia dell’illuminismo francese.
Il prof. Tonino Perna nella sua, peraltro, pregevole introduzione, ha già dato atto a Donati del possesso di un apparato critico a dir poco inusuale, in virtù del quale ha perseguito, con rara efficacia esplicativa, e con i risultati che ogni lettore, singolarmente – stavo per scrivere in solitudine, perché lo studio è solitudine – viene chiamato, con discrezione e umiltà, ad accettare o a respingere il suo progetto e la sua tesi di lettura unitaria del rapporto tra scienza della natura e dimensione morale. Occorre a questa osservazione aggiungere quanto lo stesso autore evidenzia nell’introduzione alla sua trattazione. Il presente saggio, oltre a porre in evidenza questa correlazione tra scienza ed etica, quale si è sviluppata in non più di duemilacinquecento anni della storia dell’Occidente, tende a delegittimare la “‘separazione delle due culture’ vale a dire, la considerazione disgiunta della cultura umanistica e della cultura scientifica, ad evidenziare come esse non siano che il dritto ed il rovescio di una medesima medaglia, vale a dire, della filosofia dell’esistente”.
È difficile dare torto a Donati in questa sua prima conclusione, dato il presupposto della sua tesi, portata avanti fino alla conclusione finale, che cioè sia esistita ed esista una compenetrazione tra fisica, considerata secondo tradizione aristotelica per definizione la scienza della natura, ed etica, considerata altrettanto tradizionalmente nella storia del pensiero occidentale come il nodo che restringe l’essenza universale della norma del comportamento umano con l’esistenza della divinità che ne sanziona l’essere. Perciò, le conseguenze della sua tesi non possono che condurlo alla negazione di una estraneità della cultura umanistica e della cultura scientifica sulla quale si è molto discusso a partire dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando l’intellettuale e scienziato inglese Charles Percy Snow pubblicò un libretto in cui ampliava il testo di una conferenza, tenuta a Cambridge, sul tema The Two Cultures and the Scientific Devolution, offrendone qualche anno dopo una redazione rivista e più ampia. Lo studioso inglese commetteva da parte sua una non piccola imprecisione storica quando affermava che tra cultura scientifica e cultura umanistica nel secolo XIX si era prodotta una frattura profonda che aveva avuto conseguenze incalcolabili non soltanto sul piano dei rapporti tra le scienze, quanto soprattutto sul piano di un pericoloso vuoto che si era aperto nella politica mondiale, nella quale i paesi ricchi non sfruttavano a sufficienza le conseguenze positive della rivoluzione scientifica e dei progressi da essa indotti per aiutare e favorire lo sviluppo dei paesi poveri. La distinzione fra le due culture non era stata, infatti, specificamente il prodotto della rivoluzione scientifica ottocentesca, ma era già chiaramente delineata in un filosofo medievale come Ruggero Bacone, il quale sosteneva l’esistenza di una scienza in grado di certificare tutte le altre scienze e la individuava nella “scienza sperimentale che tralascia le argomentazioni, non probanti anche quando sono forti, a meno che allo stesso tempo non vi sia una sperimentazione conclusiva […]. E questa scienza certifica tutte le cose sia naturali che artificiali”. Dunque Bacone fissava chiaramente il primato della scienza sperimentale su tutte le altre scienze. All’opposto, nello stesso suo tempo, una personalità notevole della cultura europea ed italiana del tempo come Petrarca sottolineava nel suo De sui et multorum ignorantia come lo scienziato “molte cose sa delle belve, degli uccelli e dei pesci” ma lo stesso nulla sa dell’uomo in quanto uomo e soggiunge, altresì, che se tutti gli argomenti sostenuti dagli scienziati e tutte le loro tesi si fossero dimostrate vere, nessuna importanza tali conoscenze avrebbero assunto per la vita morale e la felicità dell’uomo.
Quindi, la divaricazione esisteva da tempo e se mai Snow ne coglieva le conseguenze sul piano dei rapporti tra il “Nord sviluppato” e il “Sud sottosviluppato” tra i popoli del mondo contemporaneo dell’Ottocento e del Novecento, come conseguenza della rivoluzione scientifica e di quella industriale e del vuoto che avrebbe aperto tra i paesi ricchi e i paesi poveri. Ma anche in questo lo scienziato inglese commetteva una considerevole imprecisione storica, perché avrebbe potuto chiedersi come le scoperte scientifiche e geografiche del Quattrocento e del Cinquecento si erano riflesse sul “nuovo” continente americano e sulla strage oggettiva delle popolazioni precolombiane, e sull’asservimento della “Madre Nera”, l’Africa dei secoli XVI-XIX, alle esigenze del Mondo unito in versione europea. Ancora i miei allievi dei corsi universitari si chiedono come sia stato possibile che Thomas Jefferson, l’autore della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, cioè di uno dei documenti fondamentali che hanno universalizzato i diritti di libertà degli individui, fosse un virginiano proprietario di schiavi che, come tanti “conquistadores” dell’età di Colombo, considerava i negri come sub-uomini, a cui perciò, anche nel secolo dei Lumi, non si applicavano i principî della Dichiarazione.
Donati certo non sbaglia nell’individuare la prima età in cui fisica e vita morale si sono identificate, ancora una volta, non è inutile ripeterlo, nella storia della cultura occidentale. Il testo che stiamo commentando in riferimento all’indagine prodotta sul rapporto tra fisica ed etica nel mondo antico individua come la vera scienza fosse quella in grado di penetrare in profondità nelle più segrete cose di Dio e della natura e quindi, come si esprime Donati, nella fisica e nell’etica. Un storico come Giuseppe Galasso, ricordava qualche anno fa, come nel mondo greco del IV secolo a.C. si sia espresso “un sapere che non avverte divaricazioni sostanziali fra le sue articolazioni disciplinari, come mostra, con ogni evidenza, proprio il corpus delle numerosissime opere di Aristotele, a lungo ritenuto ancora nell’età moderna una vera enciclopedia del sapere dell’antichità e di sempre; un sapere per il quale come in Epicuro o in Lucrezio tra poesia e filosofia o scienza non si fa alcuna differenza di dignità e di materia” (Galasso, 2009). Donati, alla stessa stregua, conclude: “La visione complessiva è nel senso che non si dà la separazione delle ‘due culture’ poiché identica è la gnoseologia che presiede allo studio della fisica e della meta-fisica, essendo, tale gnoseologia, fondata: sul criterio dell’adeguazione dell’intelletto alla cosa; sulla determinazione delle ‘verità prime’, da preporre allo svolgimento del ragionamento speculativo; sulla logica, sui suoi tre principî ordinanti, il principio di identità (A è A), di non contraddizione (A non è, al tempo stesso, non-A) e del terzo escluso (tra A e non-A, tra ente e non ente, non si dànno posizioni intermedie, tertium non datur). Identica, inoltre, è la causa finalis del mondo fisico e dello svolgimento storico umano essendo, essa, costituita da Dio. Diverse, tuttavia, sono le modalità del ritorno, essendo esso costituito dalla risalita della digressione causale per quanto riguarda la natura fisica, dalle virtù etiche e dianoetiche per quanto riguarda l’essere umano”.
Tutto perciò diventa semplice: il mondo fisico è ordinato poiché esso si identifica con la fisica delle qualità, cioè delle finalità che ogni elemento persegue: in ogni elemento generato è impresso il perseguimento del proprio scopo, la causa finale e lo studio delle sostanze, delle cause finali, ed è questo il compito della vera conoscenza (la metafisica), che è conoscenza della finalità ultima, della perfezione che ogni elemento è chiamato a realizzare e che coincide con il bene.
Ciò vale anche per il mondo dell’uomo: in ogni essere umano, nel momento in cui è generato, Dio ha posto i principî del diritto naturale, cioè “tutto ciò che è destinato a renderci migliori e felici […]. Il primum verum da cui tale speculazione si diparte è, infatti, costituito dal ‘neminem laedere’ (‘non ledere alcuno’). La correlazione dei precetti di diritto naturale ai fatti segue lo schema del sillogismo talché, nella premessa maggiore, è posto il precetto di diritto naturale; nella premessa minore, il fatto; la conclusione, necessaria, rivela la sua liceità o la sua illiceità”.
Tanto la natura fisica e biologica che il diritto scritto nell’animo umano da Dio formano, dunque, oggetto di scienza: le due culture non subiscono alcuna divaricazione.
E tuttavia la tesi di fondo di Donati non appare completamente soddisfatta nella fisica e nell’etica dell’età classica. Tanto che a proposito del concetto di materia egli scrive che “La materia non è uguale all’artefice del mondo, non la materialità del mondo fisico è immagine di Dio, ma l’ordine in cui esso è disposto, ciò che ha luogo ad opera delle sostanze, generate non create, da Dio”. C’è una parte dunque refrattaria, individuabile con la materia, con il mondo del non essere, ma la contraddizione fondamentale, e che si presenta come irrisolvibile, è che il mondo generato dall’azione divina è un mondo perfetto che non ha bisogno di nulla, non presuppone l’infinito che si presenterebbe come mancanza e quindi imperfezione. Il mondo è invece universo: uno, solo, finito e perfetto.
Il fatto è che tale perfezione, come mi pare ritenga Donati, non trae le sue origini nel mondo classico, quello per intenderci di Platone e di Aristotele, in una visione monistica della divinità. Avere trasformato Platone in un preannunciatore del cristianesimo è tema della cultura filosofica ben noto a Donati, così come gli è ben nota l’operazione compiuta da Tommaso d’Aquino su Aristotele. Il fatto è che il mondo classico è irriducibilmente politeista. Già la più antica riflessione cosmogonica, quella di un poeta come Esiodo, circa tre secoli prima di Aristotele, lo metteva in luce: “primissimo fu il caos, poi la terra dall’ampio seno, infine l’amore che eccelle tra gli dèi immortali [Esiodo, Cosmogonia]”. Ed è del tutto evidente che la forza regolatrice e ordinatrice dell’amore è opera degli dei. Erano le divinità che segnavano con la loro forza ordinatrice i confini del reale, cioè dell’essere che emergeva dalla materia inerte (il caos), prima come istanza ordinatrice, poi come vigorosa spinta etica.
Donati si addentra poi con efficacia nel creazionismo cristiano che è la seconda tappa della sua ricostruzione. La sua visione del cristianesimo nella sua versione cattolica è negativa: il mondo cristiano ha in Dio il suo creatore dal nulla, perciò nessuna regola creatrice è presente nella sua attività che si presenta come assolutamente spontanea e che peraltro definisce i due poli estremi dell’atto creativo. Da una parte la nascita della natura e dell’uomo, dall’altra la fine inevitabile di essa, frutto anch’essa di un atto assolutamente libero e imprevedibile. In quanto frutto di un atto creatore ogni realtà della storia del mondo è una sostanza irripetibile (nell’uomo, quell’anima e quel corpo creati e uniti da Dio che non casualmente risorgeranno alla fine dei tempi). La fisica e la metafisica (quindi l’etica) diventano realtà prive di significato: nella prima perché l’atto creatore può in ogni istante modificare le regole della natura (il miracolo, ma anche la provvidenza divina); nell’etica lo sconvolgimento che il perdono divino introduce nell’ordine introdotto dal “decalogo”: la Lucia di Manzoni interpretava perfettamente questa coscienza con il suo “Dio perdona tante cose per un atto di misericordia!”. Tralasciando altri aspetti sui quali Donati si sofferma, come l’addebitare all’etica cattolica le responsabilità dell’età feudale, sui quali si dovrebbero esprimere molte riserve in termini di correttezza storica, così come su vicende importanti sulle quali egli non si sofferma (tra essi cinque secoli della sconfitta che il cristianesimo infligge alla cultura e alla scienza classica), l’autore vede la rinascita di una prospettiva unitaria tra le due culture nella scienza rinascimentale: Copernico, Keplero e soprattutto Galilei che trae le fila della scienza sperimentale di cui la matematica è diventata la nuova e invincibile protagonista con un universo che si scopre infinito nello spazio e nel tempo e che si identifica con l’entità creatrice quanto ordinatrice. Così Galilei in una famosa lettera, rivendicando l’essenzialità di una lettura etica e cristiana della Bibbia, con cui il Dio cristiano parla alla fede dei credenti; e di una lettura non meno cristiana del mondo della natura con il quale Dio parla agli scienziati con i principî della scienza sperimentale, che non hanno il carattere di leggi eterne, alla maniera della fisica antica, ma solo la capacità di risolvere problemi posti dalla mente umana alla natura. Allo stesso tempo Donati riconosce il valore di una posizione etica come quella emersa dalle teologie protestanti che portano in primo piano il principio della responsabilità individuale nel fondamento della vita morale e il riconoscimento che sopravviene in termini di “illuminismo giuridico” con i valori dell’eguaglianza tra gli individui e nel riconoscimento del valore lavoro e proprietà personale in una dimensione sociale aperta verso nuove stratificazioni sociali. Intanto quello che Donati giustamente aveva individuato come il fattore distruttivo introdotto dal Libro cristiano nelle capacità che il mondo antico aveva riconosciuto all’uomo (si può conoscere solo ciò che si crea e quindi la conoscenza è solo di Dio che ha creato il mondo, all’uomo spetta solo la fede nel Libro e nel suo legittimo interprete, la Chiesa cattolica) diventa l’artefice di una nuova importante avventura dello spirito umano. Come sottolinea l’autore, Vico conferma che se conoscere è “scire per causas” allora anche l’uomo conosce perché crea: la sua creazione è la matematica, lo strumento principe per raccogliere le fila della conoscenza della natura; per la verità era un concetto già espresso da altri, ma Vico è personalità ben più salda. Di più un altro campo egli dispiega alla conoscenza umana, la “Scienza Nuova”, quella della conoscenza storica che diviene conoscenza piena dell’agire umano, sottratta ad ogni subalternità che non sia quella delle “degnità” umane, che lancia le dimensioni delle scienze sociali e umane verso un riconoscimento mai prima così complesso e così rilevante e, nello stesso tempo, mai così criticamente fondate, perché storicamente fondate. E c’è chi non dimentica come proprio in Vico vi sia l’avvio a una forma di evoluzionismo nella storia umana che troverà non pochi seguaci nell’Ottocento (da Hegel e Marx, alla sociologia positivistica). Contemporaneamente, dalle scienze umane emergerà il dinamismo che traduce il monumento alla scienza moderna, realizzata dall’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert anziché in un punto di arrivo, in un punto di partenza. Kant, che aveva inverato nella sua Critica della Ragion Pura una scienza della natura fondata su giudizi sintetici a priori, resi innovativi dalle categorie assolute dello spazio e del tempo, vede stralciata la sua geometria euclidea da una critica sempre più efficace del quinto postulato euclideo di cui si danno nuove e diverse versioni; la fisica costruisce nuovi monumenti rispetto alle Newtoniane, forza centripeta e forza centrifuga e principio di inerzia, in grado di spiegare quantitativamente la vita dell’universo, con una espressione che assume valenze sempre diverse, “l’energia” nelle sempre più complesse scienze della natura; la chimica costruisce un modello di rappresentazione degli elementi che porteranno alla teoria atomica novecentesca e ai principî della fisica einsteiniana e post-einsteiniana; le scienze biologiche dalla settecentesca teoria delle catastrofi faranno emergere progressivamente l’evoluzionismo darwiniano, che dal mondo degli esseri viventi terrestri coinvolgerà inevitabilmente l’universo. E qui giustamente Donati fissa la sua conclusione finale assolutamente problematica: “La considerazione della causalità involutiva e di quella evolutiva, correlata alla rilevazione di una analoga duplicità nella cultura umana nei termini della contrapposizione dell’intellettualismo e del volontarismo, non consentono più la riconduzione all’unità, non permettono l’affermazione della presenza di un solo Principio attivo, ma di due Principî attivi”. Rispetto a questa conclusione si può forse aggiungere, e non è poco, che le due culture, pur aderendo a diversi principî, nelle miriadi dei molti ambiti disciplinari che le caratterizzano, con i connessi molteplici sviluppi, hanno al loro interno una enorme complessità di acquisizioni scientifiche di grande utilità per la specie umana e non solo, che in quella dispersione di conoscenze si vanno positivamente acquisendo.
Fausto Cozzetto
Docente dell’Università della Calabria
(direfarescrivere, anno X, n. 101, maggio 2014) |