Anno XXI, n. 231
maggio 2025
 
In primo piano
Un’intima raccolta di poesie al ritmo
di un leggero battito d’ali di farfalla
Un intenso viaggio lungo l’altalenante cammino dell’esistenza.
Maria Angela Palazzo lascia i suoi versi editi da La Vita Felice
di Salvatore Lo Bue
Versi scarni e diretti che raccontano i pensieri di una vita. Ogni poesia diventa un piccolo pezzo di cuore dell’autrice, attraverso cui narra la sua anima: l’anima di una farfalla, infine, tristemente e prematuramente volata via. Salvatore Lo Bue, docente di Poetica e retorica all’Università di Palermo, conosceva bene Maria Angela Palazzo, e sa quindi restituire, attraverso parole, che fanno da Prefazione alla raccolta, un’immagine dell’autrice che rapisce e spinge a voler conoscere la sua più intima essenza. Una volta terminato il ricordo di Lo Bue, non resta, infatti, che continuare il racconto.
Una giovinezza leggera, che lascia presto spazio a dei pensieri di sofferenza: i toni si incupiscono e gli accenti si spostano sulle celle che imprigionano l’anima della poetessa; ma nonostante il duro cammino da percorrere, lungo un deserto che alimenta le difficoltà, non manca mai la sete d’amore che segna l’intera esistenza della donna. Momenti lieti e momenti di sconforto, durante i quali lacrime lunari sono versate. Ma quando infine giunge l’ora del commiato, un’immagine di speranza viene lasciata dall’autrice, racchiusa in un seme.
Qui di seguito proponiamo la lettura della sopracitata Prefazione di Lo Bue nella quale è anche possibile leggere alcune poesie della raccolta de Il Volo della farfalla (La Vita Felice, pp. 88, € 12,00).

Bottega editoriale


Prefazione

1. Il Volo della Farfalla
Non ha tempo, per me, Maria Angela.
È.
È per sempre.
Di quel tempo lontano, della studentessa che tentai di formare, della splendida giovane che sopra ogni cosa amava intrecciar corone di parole, e dalla cui raffinatissima intelligenza fui incantato, conservo vivido il ricordo, che a volte si fa rimembranza. Volteggiava in un suo cielo proprio, accompagnava dolcemente i concetti al loro disvelamento, così come il pallone nel sempre raggiungibile canestro dell’amatissimo basket, organizzava il suo logos interiore così come sapeva tessere il gioco nelle indimenticate partite della sua squadra che lei amava, cui ho assistito per tante, tante, domeniche.
Era la giovinezza, Maria Angela, la giovinezza perfetta. Il suo sorriso era quanto di più simile si potesse immaginare al “confidente immaginar” dell’amatissimo Leopardi: brillava di una luce unica, matura e insieme innocente, di bambina e di donna, incapace di concepire altro che il bene e il bello. E se a volte i poeti sono assimilati, nelle forme e nel nome, ad animali (albatros, gabbiamo, aquila, ape), Maria Angela Palazzo fu (è) una farfalla: leggera, esile, colorata, fragile, tutta ali, sì da rendere difficile a se stessa e al suo cuore il volo sulla cruda terra della vita. Perché che cosa, più del volo della farfalla è leggero ma nello stesso tempo deciso: si posa di fiore in fiore, ma implacabilmente, e resiste al vento, a forze più grandi di lei, per il dono di ali forti, leggere, sottili. Simile al poeta vede Maria Angela quella farfalla che più di ogni altra immagine è figura della sua anima:

Farfalla sei sola
ma poco ti curi
del tempo che passa,
per te vale il cielo
e un fiore che sboccia
balbetti, profumi
d’un piccolo dono:
le ali.

Per te vale il cielo, canta la donna-farfalla innamorata della bellezza, e simile al cielo un fiore che sboccia, che del cielo è immagine viva, segno di apertura e di vita, di nascita e luce. Ma questo comporta un prezzo da pagare, per chi è nato in cuore poeta, come nacque Maria Angela in cuore: la solitudine. Che non è retaggio di inconsapevole lontananza, ma concreta condizione esistenziale di chi ha avuto in dono le ali. Quelle ali così prossime al dono della cecità del poeta, che è condizione della sua capacità di avere visioni, di guardare nel cuore dell’essere. Vale solo il cielo per il poeta, e il canto che sboccia dalla terra dell’anima.
Sì, la ricordo Maria Angela, come una farfalla. Il dono delle ali era visibile. La sua mente tracciava le coordinate dei suoi voli, ma leggera si posava a cogliere l’essenza di ogni cosa. E testimoni di questa verità sono, nella splendida raccolta che segue, i tanti haiku che ne raccontano lo splendore e la purezza: brevissime poesie dove tutto è armonia, dove ogni cosa è incanto, dove immagini semplici raccontano cosa è la Natura e quanto sia confortante abbandonarsi ad essa: che cada una stella («Ho sentito un piccolo sospiro / e un’allegria di intenti. Grazie, / stella cadente») o accada l’autunno («Anche l’autunno / è bello / circondato / da montagne / in lontananza, / abbracciato / da colline / dolci e forti / al freddo che verrà»); che racconti il colore del cielo («In questa notte / senza stelle / e senza luna / l’aria nera, pesante / sembra volerci forgiare / in statue di cera. / Ma tutti sappiamo / che il colore del cielo / è l’azzurro») o la danza di luci notturne («la stella che danza / con me / a volte perde il senso / del ritmo. / Ma da milioni di anni / ha brillato / anche per me. / Non lo dimentichiamo / né io né lei / o almeno / mi sembra che sia così»), il poeta conserva intatta la povertà dello spirito, la mitezza del dettato poetico, la purezza del cuore: percorrendo le beatitudini di un’anima in principio eletta forse al dolore, alla testimonianza di quanto sia difficile tollerare il peso delle ali, il rischio del volo.
E alla Natura, leopardianamente, si accompagna Amore, il germano di giovinezza, quell’amore che tante volte vidi struggente e vivo e intatto e radioso nei suoi occhi di giovinezza, nei suoi sguardi di ragazza. Un amore che ha bisogno di parole, che accompagna le parole, che vola con le parole, come le canzoni stilnoviste scritte perché il vento le portasse tra le mani dell’amata («Parola / corri da lui / sbrigati, / zoppica / incespica / ma non ti fermare. / Ti prego / corri da lui / vola a riportare / fra di noi / il ricordo / del tuo suono pieno»). In Maria Angela il “confidente immaginar” suo “primo” è tessuto di un sogno d’amore tutto interiore, quasi mistico: lei, poeta, gli parla, a quest’amore che è la sua stessa anima, gli parla come a un amico, gli dice di smettere «di guardare / il cielo», lo invita a farsi piccolo, gli chiede di guardare gli intricati cespugli della sua mente, e ancora che le parli, perché «il giorno / non è ancora / cominciato, / e le ombre degli ippocastani / lasciano intravedere / soltanto spine».
E le spine verranno presto, per Maria Angela. Verranno troppo presto le spine. Ma in questa prima fase della sua esistenza terrena, quando la vita le arrise e per qualche anno insieme abbiamo percorso le vie della ricerca (prima con l’esame di maturità, in seguito con studi specifici sui testi classici della sua Facoltà, perché per tre anni ebbi l’onore di esserle maestro e lei discepola perfetta), è bellissimo ricordare la sua felicità interiore, la leggerezza del volo di farfalla, le intuizioni prodigiose, la speranza, i palpiti, il sorriso, i suoi canestri fantastici, le vittorie sul campo di basket, l’amore incondizionato delle sue compagne, l’ammirazione delle amiche, l’allegria oltre ogni tormento, la certezza che nessuno e niente può spezzare quel filo d’amore che è, in una metafora bellissima tra le tante, «primo inchino / alla vita»:

Il filo dell’amore
non si spezza,
si può logorare
può essere odiato
vilipeso
dimenticato
può andare
per discariche
e rivoli
può diventare
accanito
e scontento,
rimane il nostro
a volte disatteso
primo inchino
alla vita.

2. Lacrime Lunari
Fu allora che le sue ali di farfalla le impedirono di camminare. Come le grandi ali dell’albatros. Ma anche le piccole ali di una farfalla non sono fatte per questa terra… La vidi un ultimo giorno, prima che partisse verso il suo destino. Parlava sempre d’amore, ma non la compresi, non vidi che era troppo lontana dalla banalità del mondo per potersi accontentare, che era troppo lontana dalla semplicità per lei insopportabile della vita per potere vivere davvero. Cominciò a isolarsi da tutto e da tutti, consapevole che non c’è un solo tempo per gli uomini, ma un tempo doppio, quello dell’anima, dove tutto è, e quello della vita, dove ogni cosa può non essere. La foglia desiderò allora staccarsi dal ramo, l’amica abbandonò le amiche, desiderosa di un misticismo interiore che rendesse quieto il suo male di vivere.
Cominciò, Maria Angela, a piangere le sue lacrime lunari:

Fra i denti
trattengo
un rumore sordo
di pianto
che non vuol fuggire
che non si lascia carpire,
si raccoglie
in lacrime lunari.

Che cosa, chi è il poeta se non un Pierrot lunaire? Un giocoliere del cuore le cui lacrime sono disegnate eternamente sul volto? Cominciò, la giovane donna dalle ali di farfalla e dal cuore di poeta, a versare le sue lacrime lunari, perché come carpire il mistero del dolore, come trattenere il rumore sordo del pianto eterno sul nulla della vita se non abbandonandosi all’abbandono? Se non divenendo lei stessa nulla, per potere sentire davvero, davvero sapere, davvero cantare?
Così fece di se stessa il sacrificio. Il sacrificio di chi è nata con ali difficili in un mondo senza voli. Il sacrificio di chi ha assistito alla fine delle illusioni e illude se stessa. Il sacrificio di chi ha creduto nell’amore e ha saputo che è stato crocifisso in ogni angolo della terra. Il sacrificio di chi, nella malinconia, piange lacrime bianche. Le lacrime della luna.
Le immagini che il poeta usa per dire della sua nuova condizione, del male di vivere per eccesso di coscienza, sono di una struggente bellezza e insieme di una disarmante semplicità. Tre poesie (tra le più belle non solo della raccolta, ma della recente produzione italiana) ne sono esempio evidente. In esse le metafore raggiungono esiti davvero sorprendenti a tal punto da mutarsi in perfette immagini della condizione tragica dell’uomo. Cominciamo dalla prima:

Il lenzuolo di lino bianco
tessuto
da mani sapienti
s’è strappato
proprio oggi
che sembrava
si potesse
stendere al sole
brulicante
di pensieri nuovi.

Colpiscono violentemente al cuore e non si dimenticano più questi versi purissimi, splendenti di quel bagliore che solo la vera poesia sa donare. Cosa immaginare per rendere evidente il tragico? L’irrompere improvviso del dolore nella vita? La lesione dello spirito? Solo un poeta vero può pensare al semplice e terribile lenzuolo di lino bianco del testo che, tessuto da mani pazienti per tutta una vita (il lenzuolo è l’anima, ogni anima) e steso al sole della speranza perché possa rinnovarsi e brulicare di nuovi pensieri, d’improvviso è strappato, lacerato, perduto, inutile a tutto, per sempre. L’agghiacciante simmetria tra anima e lenzuolo di lino basterebbe, sola, a rendere Maria Angela Palazzo una delle anime poetiche più vive della sua generazione. Ma altre metafore concepisce per esprimere il segno della mutazione di un cuore che tanto ha sperato, pensato, vissuto e tanto è stato provato dal male di vivere che ogni poeta conosce. Continuiamo con la seconda poesia:

Non ho più uno spicciolo
di cuore,
dov’è il salvadanaio
del mio tesoro avaro?
Voglio romperlo,
salvarne solo un pezzo
in ricordo della mia miseria.

Quante lacrime lunari hai pianto, dolce Maria Angela, per raccontare chi sei! Quanto ti furono di peso le ali! Quanto la vita ha perduto perdendoti! Ma dinanzi al salvadanaio che è il tuo cuore tremiamo di compassione, viviamo, tremanti della tua stessa passione. Ti vedo ora, mentre trascorri le tue silenziose giornate, messaggera di un universo che non appartiene a questo mondo, tu piccola Maria visitata dall’angelo crudele che ti ha condannato ad essere nell’anima poeta, ma alla stessa poesia non legata da vincoli di obbligazione. Così, quasi non volendo, doni a noi che leggiamo metafore sorprendenti della condizione tragica di noi tutti mortali, che nelle tue parole di poesia leggiamo il nostro stesso destino. Perché a chi non accade di rompere il salvadanaio del cuore per trovare ancora qualche spicciolo di sentimento? A chi non accade di tentare di conservare, rompendolo, almeno un pezzo di sé? E tutti noi sappiamo che hai ragione tu, che prima o poi, nel lungo percorso verso il Nulla, i nostri giorni diverranno «di cemento», ma tu sapendolo non hai voluto illuderti, sprezzante di verità e fragilissima in cuore:

Il mio dolore di oggi
saltella piano
sotto le ombre grigie
di un mattino
opaco, invernale,
tra il caffè amaro
e le sigarette dense.
Comincia il giorno
di cemento
con l’addio alle ultime stelle.

È l’inizio di un giorno, forse uno dei tanti, nella vita di Maria Angela. Chiusa nella cella della sua anima, intenta a vedere l’abisso del nulla che è la vita stessa, il poeta vede il suo dolore saltellare, come fosse una creatura viva, intorno a lei, mentre il mattino d’inverno, dalle ombre grigie e di luce, opaco sorge su chi non si avvede di altro che dell’istante, di quel caffè amaro e delle dense sigarette che succedono. Sembra solo un giorno malinconico, come tanti in inverno, ma la metafora che il poeta usa è terribile: giorno di cemento, a indicare insieme costruzione e tomba, vita e morte, trappola e casa. Le lacrime lunari della poesia continuano a scendere sulle sue guance di donna che ha rinunciato alla vita per eccesso di anima.

3. La Disciplina del Cuore
Ma le ali non consentono di perdersi nel nulla. Non lo permette l’anima meravigliosamente sensibile di Maria Angela. Che sente ancora vivo il suo sogno d’amore, che ancora conserva i semi raccolti nella sua giovinezza. Perché lunari possono essere solo le lacrime che nascono dalla disciplina del cuore, che sono versate in nome della verità e non del rimpianto, che sono lacrime non sulla propria misera condizione, ma sulla misera condizione di tutti gli esseri viventi.
Il poeta rivela che è rimasto intatto quel frammento irripetibile, quel kafkiano nocciolo di luce che è la sua anima («Sotto la sabbia del fondo / senza alcun luccichio, / solo un bagliore opaco, / nata da un frammento irripetibile, / accolto ogni sedimento, / sono preziosa»), sa che per questo è preziosa dinanzi al cielo e dinanzi a chi ama; e pur sapendo quanto il tempo sappia oltraggiare («e così / passano i giorni / senza niente / dire / con la menzogna / del vivere quieto / parlare / senza sapere / quando / finirà l’estate»), non è questa specie di tempo che chiede e visita con le parole. Perché c’è un tempo altro che di ogni tempo è tempo, ed è il rincorrersi dei moti del cuore che impone la disciplina interiore pretesa dalla poesia:

Così, senza preavviso
mi trovo
a rincorrere
la disciplina del cuore,
mi perdo e mi ritrovo
in mezz’ora,
affondo i passi
che non sono ancor
leggeri
ma, vanno, vanno
uno dietro l’altro
temendo
desiderando
andare avanti.

Lo sguardo freddo della sapienza. Questo indica Maria Angela Palazzo, nella sua identità di poeta. Il perdersi e ritrovarsi in mezz’ora. La disciplina del cuore, e questo è possibile solo a chi ha vissuto il Nulla, a chi tutto ha perduto tranne se stessa, a chi ha traversato il deserto ritornando da esso con sete ulteriore d’amore e di bene. E i passi che lei descrive hanno la cadenza di chi questo deserto ha davvero traversato, passi lenti che temono e che desiderano di andare avanti, che vanno, vanno e non sanno se davvero mai porterà da qualche parte il camminare.
Oltre il Nulla allora appare il suo volto luminoso di donna che ha conosciuto ogni cosa, il fuoco che brucia e il fuoco che riscalda, l’acqua che annega e l’acqua che purifica, il vento che annuncia e il vento che stermina, mai perdendo, nella sua corsa, la prima felicità, il primigenio amore di giovinezza:

Claudicante il cuore
batte il tempo
sotto la luna
di questo clamoroso
accampamento
dove aspettiamo
di imparare
ad amare ancora.

La terza metafora, ancora più struggente! Che cosa è la vita se non un clamoroso accampamento dove si rifugia il cuore che la vita ha reso claudicante? Siamo tutti lì, senza difesa, mentre la luna assiste alle nostre metamorfosi, indifferente alla lotta, ai nostri dolori. E claudicante perché il cuore che batte sotto la luna del nostro fugace soggiorno? Tutti la vita costringe all’impedimento, a tutti i viventi taglia le gambe, ma restiamo dove la corrente ci ha portato, in attesa. In attesa di combattere? In attesa del nemico? Verrà la morte, e avrà tanti occhi, diversi quanto diversi tutti, e l’ultimo combattimento non sarà possibile evitare. Ma colei che ha vissuto i suoi giorni di cemento, il poeta che così profondamente ha rivelato a cosa conduca l’eccesso di coscienza, quanto sia devastante il dono delle ali, il poeta-farfalla che ha pianto lacrime lunari e ha imparato la disciplina del cuore, non si arrende al banale sconforto, non accetta il volgare disamore. Perché sente, pensa e rivela che per l’Amore siamo nati, che nell’accampamento della vita un solo dovere vige: imparare ad amare ancora, seppure claudicanti, seppure disfatti dal tempo, seppure vinti dal male di vivere. Imparare ad amare ancora e sempre. «Per te vale il cielo / e il fiore che sboccia», lei farfalla dalle tenere ali non si smentisce, e le ali la sollevano sul tempo, oltre il dolore, oltre tutto, deponendo la sua anima tra le braccia di Dio, perché solo il volo mistico conosce il poeta. E con una chiusa degna di Omar Kayan, Maria Angela alla fine della sua vita si incontra con il grande Mugnaio e con la briciola di lievito che è rimasta impastano insieme il Pane della Vita e ne mangiano insieme, lei e Dio, il poeta e Dio, e il seme della speranza è piantato nel Regno, e il calore dei sogni torna nell’altrove luminoso:

Ho solo una briciola
di lievito
sbocconcellata,
chissà da dove.
Cercami, Mugnaio.
Prego perché la tua ombra
mi raggiunga presto.
Insieme
il nostro pane inforneremo
in un recondito angolo
e ne mangeremo
in segreto.
Da qui il seme della speranza
e il calore dei sogni.

Ha vinto, la mia cara, indimenticata, discepola. È ritornata ad essere bambina giunta alla meta, ha conservato la povertà di spirito nel crogiolo del dolore, la fede nell’esperienza del nulla, la speranza nel deserto del tempo. Ha scritto il suo Canto, ha attinto alla sorgente della verità l’acqua delle sue parole essenziali. Continua a vivere non soltanto in coloro che l’hanno amata e la amano, ma nella sua poesia. Il suo ultimo viaggio è stato l’inizio della sua luce, allo stesso modo di una stella che diventa luce nel momento stesso in cui non è più. Le sue parole sono diventate lievito, la sua vita il pane misterioso che la passione che ha vissuto le ha consentito di impastare con Dio. Sul suo universo splende ora il giallo della Ginestra, lei fiore del suo deserto, lei eco perfetta dell’Amore. E torna a volare dopo i pesi terreni, perché tanti fiori ha il paradiso, ma ben poche farfalle. E una di esse è colei che nel suo nome addensa il mistero dell’angelo e dell’annunciazione, cui ogni poeta è destinato. Maria Angela ha detto di sì alla Parola, e, privata di tutto, ha accolto, come ogni poeta, il logos. Il resto è Amore.

Salvatore Lo Bue

(direfarescrivere, anno X, n. 99, marzo 2014)
 
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