Edith Stein rappresenta un personaggio chiave del Novecento. Ebrea d’origine, subì le persecuzioni razziali perpetrate dal regime nazista. Convertitasi al cattolicesimo, indossava gli abiti monastici nel momento in cui fu messa a morte. Apparteneva all’Ordine delle Carmelitane scalze, nota con il nome di Teresa Benedetta della Croce. Nel 1998 fu canonizzata come santa da papa Giovanni Paolo II.
Il suo lascito spirituale è considerevole: con la sua condotta di vita offrì uno straordinario esempio di fede religiosa e di fermezza morale, nonché una testimonianza di vocazione filosofica destinata ad essere accolta e tramandata da molti eredi del suo pensiero.
A seguire vi invitiamo alla lettura della Prefazione a cura di Antonio Livi e della Presentazione a cura di Marinella Pernice.
Di questa figura spirituale ed emblematica tratta il saggio Come il raggio rispetto alla luce (D’Ettoris editori, pp. 136, € 12,90). Esso costituisce l’ultima pubblicazione di Eliana Grande, laureatasi in Filosofia nel 2008 presso l’Università di Pisa e abilitatasi all’insegnamento di Filosofia e Storia presso l’Università della Calabria nel 2013.
La monografia evidenzia il percorso di vita della santa non solo dal punto di vista religioso – condusse un’adolescenza atea per poi avvicinarsi alla fede in un secondo momento – ma soprattutto dal punto di vista filosofico. La sua filosofia, difatti, è un connubio tra le elaborazioni scolastiche d’epoca medievale e il tomismo di S. Tommaso d’Aquino, che cerca di conciliare la fede cristiana con un sistema di pensiero razionale – soprattutto quello teorizzato nel mondo greco – e la Fenomenologia novecentesca di Edmund Husserl.
Bottega editoriale
Prefazione
1. La figura di Edith Stein
Indubbiamente, la figura di Edith Stein, così ben presentata da Eliana Grande in tutto il suo spessore, merita di essere riconsiderata oggi alla luce delle vicende ecclesiali, culturali e politiche degli ultimi decenni, quando la bibliografia sulla Santa si è arricchita di numerosi e qualificati contributi agiografici, storiografici, sociologici, filosofici e tecnologici. Il merito della Grande è di aver tenuto conto di tutta questa produzione documentaria e saggistica, aggiungendovi un’utilissima prospettiva unitaria, capace di rendere attuali, agli occhi del vasto pubblico italiano contemporaneo, tutti gli aspetti della personalità e della vicenda biografica di Edith Stein.
ln effetti, se Edith Stein è una figura importante per quanto riguarda la storia del pensiero filosofico del Novecento, ancora di più lo è per quanto riguarda la storia della civiltà europea e la storia della Chiesa. Sono certo che la personalità e la vicenda biografica di Edith Stein vadano oggi ripresentate all’attenzione dell’opinione pubblica italiana perché in esse è possibile intravedere la risposta giusta ai tanti problemi etici, politici e religiosi che agitano le coscienze di noi tutti e che inducono molti a pensare che non esistano persone o istituzioni capaci di farci uscire da quella che ormai da qualche anno viene chiamata “la crisi” per antonomasia, e che è economica, sociale e culturale allo stesso tempo: una crisi che è italiana solo perché è di tutto l’Occidente (un Occidente che produce con incosciente sicumera i processi di globalizzazione e ne subisce smarrito le inevitabili conseguenze in campo politico, soprattutto quanto alla perdita di controllo democratico sui centri di potere effettivi) e che non risparmia in tutto l’Occidente la Chiesa stessa, tanto che Benedetto XVI arrivò a parlare significativamente di «dittatura del relativismo» [1].
Il libro di Eliana Grande fa comprendere molto bene quale sia l’esempio di amore appassionato della verità, di costante fermezza nella testimonianza della fede, di eroismo nel servizio del prossimo (la famiglia, i colleghi, il popolo ebraico dal quale proveniva, i membri della Chiesa cattolica che l’aveva ricevuta nel suo seno, le consorelle carmelitane con le quali visse la terribile esperienza della persecuzione nazista, fino al tragico epilogo dell’uccisione in odio alla fede). La lettura di questo testo consente di intravedere, per ciascuno di noi, una via d’uscita dal labirinto del dubbio sistematico e dell’incredulità ostinata che sembrano toglierci la possibilità di disobbedire agli stereotipi dominanti nella cultura di oggi, impedendoci di accogliere liberamente e consapevolmente la verità rivelata. Edith Stein, con il cuore pieno di amore sincero per il prossimo e la mente limpidamente orientata alla verità, ci insegna a uscire dal labirinto. Lei non chiuse gli occhi alle tragedie, apparentemente irreversibili, che sembravano far sprofondare nel male l’intera società europea, con la virulenza dell’odio razziale, con i crimini dei vari totalitarismi (quello sovietico, quello fascista, quello nazista), con la scristianizzazione, l’irreligiosità e il neopaganesimo ormai egemoni nella cultura delle élites intellettuali. Ma lei comprese che ognuno di noi può riuscire, alla fine, a capire di dover confidare sempre e solo nell’amore onnipotente di Dio, nostro Padre e Signore della storia, «giudice dei vivi e dei morti». L’unica e vera via d’uscita, per noi come per la Santa, è la “sapienza della Croce”, ossia la fede in Cristo che offre a ogni uomo di ogni tempo i frutti della sua Redenzione, la possibilità cioè di affrancarsi da ogni condizionamento esteriore e di seguire la propria coscienza, realizzando liberamente nella propria personale esistenza la volontà di Dio, «il quale vuole che ogni uomo sia salvato e giunga alla conoscenza della verità» (Prima lettera di Paolo a Timoteo, 2,3).
Analoghe considerazioni su Edith Stein si possono leggere nella monografia che Cornelio Fabro scrisse dopo che la pensatrice ebrea, divenuta suor Teresa Benedetta della Croce, era stata beatificata da Giovanni Paolo II, e prima che il medesimo Pontefice la dichiarasse santa come martire della fede. Il prezioso testo del grande filosofo italiano, religioso stimmatino e competente teologo, è stato pubblicato molti anni or sono nella rivista Aquinas e appare adesso in forma di volume nella collana “La filosofia cristiana nel XIX e nel XX secolo” presso la casa editrice romana “Leonardo da Vinci” [2]. Fabro tratta l’argomento da teologo, valutando soprattutto le pubblicazioni dell’allora beata dal punto di vista dell’ortodossia; aggiunge poi delle considerazioni anche dal punto di vista filosofico, ma restando sempre al di qua dei problemi strettamente epistemologici. A lui interessa mettere in luce, come ho fatto io all’inizio, la figura luminosa di questa grande intellettuale europea, che tanto ha da insegnarci su come affrontare le sfide della società moderna, bisognosa di Dio eppure così pronta a dimenticarlo, a “metterlo tra parentesi”, sostituendo ai valori eterni della verità e del bene gli interessi temporali del benessere materiale e del potere politico. Anche a Eliana Grande interessa di più, nel suo libro, l’insieme della vita e dell’opera di Edith Stein, mostrandone efficacemente l’esemplarità umana e cristiana. A me invece interessa ora accennare proprio alla filosofia della Stein, perché il discorso sui risultati contenutistici della sua ricerca teoretica non può e non deve essere il medesimo discorso che è doveroso fare sulle intenzioni e sui mezzi con cui ha perseguito quel fine.
2. Il passaggio dalla fenomenologia alla metafisica di Tommaso d’Aquino
Della Santa si dice che, analogamente ad altri discepoli di Husserl (quale ad esempio Dietrich von Hildebrand), ella ha saputo unire la fenomenologia con la metafisica classica cristiana, nel senso che, dopo la conversione al cristianesimo, la sua filosofia ha accolto i principi della metafisica di san Tommaso senza per questo venire meno al metodo insegnato da Husserl. Questo argomento chiama direttamente in causa l’opera filosofica di Karol Wojtyla (vicino alla scuola fenomenologica di Roman Ingarden negli anni in cui era professore di Etica a Lublino) e anche il suo successivo magistero teologico come papa Giovanni Paolo II, soprattutto per quanto riguarda l’enciclica Fides et ratio [3]. Giovanni Paolo II, il papa che beatificò e poi canonizzò Edith Stein, sembra aver percorso il medesimo itinerario, dalla fenomenologia husserliana alla metafisica di Tommaso d’Aquino. ln realtà, come ho più volte osservato [4], Karol Wojtyla non iniziò la sua formazione e il suo personale sviluppo filosofico in un ambiente culturale di stampo fenomenologico bensì come studente dell’Angelicum, l’ateneo dei padri domenicani che negli anni Quaranta, quando il giovane Karol studiava Filosofia e Teologia, erano fedeli al metodo tomistico. Wojtyla fece la sua tesi di dottorato sotto la guida di padre Reginald Garrigou-Lagrange, teologo domenicano di formazione tomistica, studiando il pensiero di san Giovanni della Croce, dottore della Chiesa per la teologia spirituale. E da Garrigou-Lagrange, autore del celeberrimo trattato sul senso comune e la filosofia dell’essere [5], Wojtyla apprese ad apprezzare i principi fondamentali della speculazione tomistica, basata sul realismo metafisico, che altro non è se non la formalizzazione scientifica del senso comune. Il magistero dottrinale di Giovanni Paolo II mostra la permanenza di tali principi in tutto l’arco dell’esistenza terrena di Karol Wojtyla, anche durante il periodo nel quale adottò gran parte del linguaggio e delle categorie speculative della fenomenologia, ma non certamente il suo metodo specifico, che è proprio il contrario del realismo metafisico [6]. Ne fanno fede opere come Amore e responsabilità e Persona e atto. Ben diverso è il caso di Edith Stein, che iniziò invece come allieva di Edmund Husserl e approdò al tomismo solo negli ultimi anni della sua breve esistenza terrena. E si può dire che, del realismo metafisico, la Santa prese certamente quanto era direttamente legato alla fede cristiana da lei abbracciata dopo una prima epoca di agnosticismo, ma non la dimensione propriamente scientifica. In altri termini, la Stein volle operare un passaggio metodologico dalla fenomenologia al tomismo, ma di fatto non poté realizzare compiutamente questo progetto come filosofa, perché non ebbe il tempo e la capacità di oltrepassare radicalmente l’ideale filosofico di Husserl (la filosofia «come scienza rigorosa») e il suo metodo (caratterizzato dalla Einklammerung, ossia dalla “messa tra parentesi” dell’esistenza reale delle cose, per concentrare la ricerca sui contenuti “puri” della coscienza), restando così in una fase di passaggio nella quale gli scopi del filosofare non sono più quelli di Husserl ma il metodo dell’indagine non è ancora quello di Tommaso d’Aquino. Ciò rende le opere dell’ultimo periodo della vita della Santa – si pensi a Akt und Potenz e soprattutto a Endliches und ewiges Sein, testo qui ampiamente commentato da Eliana Grande – ricche di suggestive intuizioni dialettiche e di importanti analisi concettuali, ma inevitabilmente incerte e ambigue dal punto di vista epistemologico, proprio per la mancanza di un unico e coerente metodo di ricerca. Si tenga presente, a questo proposito, che il metodo della filosofia sta tutto nella chiara determinazione del punto di partenza dell’argomentazione; ora, mentre la fenomenologia argomenta a partire dagli Erlebnisse e dalle idee come contenuti di coscienza (evidenziati attraverso la “riduzione eidetica”), il realismo metafisico argomenta a partire dall’esistenza delle cose (res sunt), come Étienne Gilson aveva già esaurientemente dimostrato nelle sue opere degli anni Trenta [7], ossia proprio quando la Stein tentava di recuperare la metafisica di Tommaso d’Aquino restando fedele al metodo fenomenologico. So che quello che sto qui dicendo non corrisponde al parere di molti studiosi del pensiero di Edith Stein, come ad esempio Angela Ales Bello, i quali sono convinti che l’indagine fenomenologica della Stein, pur differendo nel metodo dal realismo del senso comune, condivide con esso l’assunto dell’esistenza di un soggetto che conosce il mondo e di enti ontologicamente extra-soggettivi quale base ontologica e criterio di verità. Bisogna tener presente però che la verità per la fenomenologia è sempre in relazione al soggetto, in quanto non avrebbe senso parlare di verità se non ci fosse colui che comprende il “senso” dei fenomeni. La stessa Stein scrive: «C’è un vissuto che la scuola fenomenologica però ritiene in un certo qual modo il più vicino e originario al proprio essere, e questo è riconducibile alla percezione che il soggetto ha del proprio io come un io-vivente. [...] Il dato di fatto primo e più semplice, del quale siamo immediatamente certi, è quello del nostro essere. […] Questa certezza d’essere precede tutte le conoscenze. […] La certezza d’essere è certezza irriflessa che precede tutte le conoscenze razionali» [8]. Husserl prima e la Stein dopo cercano di distinguere il loro punto di partenza da quello cartesiano, sostenendo che il soggetto non viene ricavato o dedotto, come sembra indicare la formula cartesiana «cogito, ergo sum», ma si trova nella coscienza in modo immediato: io, pensando, sentendo e volendo “sono” e non posso non essere consapevole di questo mio essere. Comunque, per la fenomenologia la certezza del proprio essere è la conoscenza più originaria: non è la prima nell’ordine temporale (poiché l’«atteggiamento naturale» del soggetto è rivolto innanzi tutto al mondo esterno, alle cose, e solo in un secondo momento egli trova finalmente se stesso), e non lo è nemmeno nel senso di un principio da cui si possono dedurre logicamente tutte le verità o in base al quale commisurare tutte le altre, come pretendeva Cartesio, ma lo è nel senso di ciò che mi è più vicino, che è da me inseparabile e perciò come punto di partenza al di là del quale non si può andare. Come scrive la Stein, «questa certezza d’essere è certezza non riflessa, si pone prima di ogni altro pensiero riflesso, volto all’indietro, con cui lo spirito, per considerare se stesso, esce dall’originario atteggiamento della propria vita, diretto verso gli oggetti» [9]. Il metodo fenomenologico non può prescindere dalla centralità del soggetto, mentre per il realismo la centralità sta nell’esistenza delle cose. Certo, per la fenomenologia l’oggetto è sempre in riferimento al soggetto perché senza quest’ultimo quale fondamento epistemologico non avrebbe senso, appunto, parlare di oggetti (fenomeni) e, conseguentemente del valore di verità/falsità. Ma nel momento in cui il soggetto epistemico attraverso la sua certezza di vivere, e di vivere-qualcosa, coglie il “senso” dei fenomeni, comprende che tali fenomeni, prima ancora di avere-senso-per-noi, devono esistere per se stessi. Questa – secondo molti interpreti – sarebbe la svolta operata dalla Stein, dal “trascendentale moderno” (il pensiero) al “trascendentale classico” (l’essere). lo invece sostengo che le affermazioni di certa fenomenologia, come quella elaborata dalla Stein, sono di per sé giuste, ma la loro giustificazione epistemica è debolissima, perché il metodo husserliano parte dal presupposto che l’esistenza del mondo va messa tra parentesi, per poi eventualmente recuperarlo. E dunque una logica pragmatica, non aletica. Non dice da quale verità “data” si deve partire per costruire un sistema di verità, ma dice quale “evidenza” viene scelta in base a un metodo a priori.
Antonio Livi
[1] - F. CORALLUZZO, Oltre il relativismo. Comprendere e oltrepassare le ragioni di Nietzsche, Heidegger e Vattimo, prefazione di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013.
[2] - Cfr C. FABRO, Edith Stein. Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013.
[3] - GIOVANNI PAOLO II, Fede e ricerca. L’enciclica “Fides et ratio”. Testo integrale italiano e commento epistemologico di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013.
[4] - Cfr A. LIVI, «Il destino dell’uomo in Karol Wojtyla», in Studi cattolici, 23 (1979), pp. 603-610; Idem, «Come Kierkegaard e Wojtyla rispondono a Kant», in L’Osservatore Romano, 25-26 luglio 2011, p. 4.
[5] - Cfr R. GARRIGOU-LAGRANGE, Il senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche (1992), ed. it. a cura di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013.
[6] - Cfr A. LIVI (ed.), L’io e il suo mondo: la fenomenologia di Husserl e di Merleau Ponty (“Grande Enciclopedia Epistemologica”, n. 80), Edizioni Romane di Cultura, Roma 1990; Idem, Perché la formula “res sunt” è l’unica adeguata a esprimere la verità assolutamente prima in un sistema di logica aletica, in M. Mesolella (ed.), Realismo e Fenomenologia, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012, pp. 45-58.
[7] - Cfr É. GILSON, Le Réalisme méthodique (1935); ed. it. a cura di Antonio Livi: Il realismo, metodo della filosofia, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2008; Idem, Réalisme thomiste et critique de la connaissance (1939); ed. it. a cura di Massimo Borghesi: Realismo tomista e critica della conoscenza, Edizioni Studium, Roma 2012.
[8] - E. STEIN, Potenz Und Akt, Studien zu einer Philosophie des Seins (1931); ed. it. a cura di Angela Ales Bello: Potenza e atto: Studi per una filosofia dell’essere, Città nuova, Roma 2003, p. 58.
[9] - E. STEIN, Endliches und ewiges Sein, 1937; trad. it.: Essere finito ed essere eterno. Per un’elevazione al senso dell’essere, Roma, Città nuova 1988, p. 73.
Presentazione
Questo saggio di Eliana Grande trasmette con puntualità e determinazione, attraverso una cornice di lettura, quella corrente di pensiero, maturata in ambito prevalentemente tedesco, inerente allo sviluppo della fenomenologia di Husserl. Ciò è espresso attraverso riferimenti ad altre correnti di pensiero evolutesi in ambiti culturali differenti, che spaziano attraverso Agostino, Tommaso, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Heidegger, Maritain, fino alla loro recezione nel pensiero di una filosofa ebrea ormai convertita al cattolicesimo, Edith Stein.
Il saggio è suddiviso in quattro parti principali. ln esse l’autrice, attraverso un percorso diacronico, descrive l’evoluzione del percorso filosofico ed umano della Stein. La prima parte, Prima di Essere Finito e Essere Eterno, mostra come, a partire da alcune considerazioni sul concetto di empatia, il pensiero dell’allora giovane allieva di Husserl si sia indirizzato già nell’immediato «verso sviluppi successivi». Sviluppi nei quali, evidenzia Eliana Grande, la Stein propone un suo tentativo di conciliazione tra il pensiero filosofico tomistico e quello fenomenologico, pur rimanendo ancorata, come il suo maestro Husserl, ad una ricerca rigorosa di verità, data dall’onestà intellettuale propria della sua speculazione filosofica. In questa prima parte viene inoltre evidenziato il confronto della filosofa con il pensiero del gesuita Przywara attraverso l’opera di quest’ultimo Analogia Entis. Przywara riconobbe – come si sa – l’importanza dello studio steiniano a riguardo del confronto tra la tomistica e la fenomenologia.
Nella seconda parte del saggio, Il Senso dell’essere, vengono prese in considerazione alcune figure di pensatori che hanno influenzato, attraverso le loro riflessioni, la ricerca della Stein. Eliana Grande, partendo da considerazioni tomistiche della nostra filosofa, accompagna il lettore alla comprensione del “problema dell’essere” mutuato da Aristotele e poi da Tommaso, attraverso lo sviluppo di concetti ignoti al filosofo greco, come quello di creazione e di un Dio Trinitario la cui seconda persona si è fatta carne, ha cioè preso pienamente la natura umana.
In questa seconda parte del saggio viene inoltre posto un confronto tra Przywara e Conrad-Martius. Quest’ultima condivide con Edith Stein una comune formazione fenomenologica. Si evidenzia altresì la riflessione di Conrad-Martius sulla natura e sul processo evolutivo teso verso nuove formazioni genetiche, così come il concetto di creazione è da questa inteso come un evento che costantemente si ripropone nella storia dell’umanità.
Si apre poi una visione prospettica sull’opera teresiana del Castello interiore, attraverso la quale, secondo la Stein, è possibile in maniera analogica far luce sulla struttura stessa della persona umana.
La terza parte del saggio dà il titolo al libro: Come il raggio rispetto alla luce. ln essa, attraverso la riflessione filosofica sull’analogia entis, viene posta l’attenzione sul rapporto fra l’Essere divino e la molteplicità degli esseri creati. Come il raggio rispetto alla luce riflette un’immagine, ma non è la luce, tutti gli esseri creati si “rivolgono” al creatore quale archetipo in cui essi si rispecchiano. Si evidenzia qui il concetto di “rispecchiamento” quale legame di dipendenza del creato nei confronti di un creatore. Creato che “come il raggio rispetto alla luce”, non possiede un’esistenza autonoma, ma riceve la sua possibilità d’esistere da un’altra fonte, la luce appunto. Da qui segue poi una riflessione ascensionale che gradualmente si direziona dagli esseri corporei inanimati verso l’Essere supremo.
La quarta ed ultima parte, L’immagine di Dio nella creazione, prende le mosse – come la stessa Eliana Grande ci invita a considerare – dal titolo del settimo capitolo del testo steiniano. Spostando l’interesse dal problema sul senso dell’essere a quello della persona, ed entrando pertanto in un ambito che potremmo ben definire di relazione o pericoresi trinitaria, tra Padre, Figlio e Spirito Santo, si accede qui in un contesto specifico, quello della teologia trinitaria, ambito in cui la Stein si rifà direttamente ai testi canonici della dottrina cristiana: il Catechismus Catholicus di Pio X e tutta la teologia trinitaria di impostazione patristico-tomistica, attraverso un percorso storico-filosofico e teologico.
Concludendo, come ogni testo interpretativo che mira, attraverso una coerente ermeneutica, a far entrare il lettore nel pensiero dell’autore, è necessario partire sempre dal testo di base, per capire le intenzioni dell’autore primario. La stessa Stein, nella sua Prefazione ad Essere Finito e Essere Eterno, ci dice già che questo testo è stato scritto «da un discente per i suoi compagni di studio […] ad un’età in cui altri possono pretendere il titolo di maestro». Sono delle indicazioni di destinazione molto precise, in cui aggiunge di aver maturato questa intenzione – quella di redigere il testo, peraltro già da tempo elaborato – solo dopo aver ricevuto il permesso dalla sua Congregazione religiosa, quella delle Carmelitane Scalze, in cui era entrata qualche anno dopo la sua conversione.
Nel testo di Eliana Grande è ben evidenziato quest’assunto ermeneutico, con una precisa attenzione ai lemmi steiniani in riferimento soprattutto alla filosofia tomistica, in stretto raccordo fra la concezione dell’intenzionalità come caratteristica fondamentale della coscienza e la filosofia scolastica. Attraverso la sua impostazione esso costituisce, quindi, un contributo originale su un tema noto agli addetti ai lavori.
L’autrice possiede un pieno dominio delle fonti letterarie, anche per la letteratura secondaria sulla Stein, nonché una spiccata sensibilità per la questione filosofico-teologica di Edith Stein, donna – come lei stessa osserva – «dotata di una visione profondamente olistica che I’ha resa un’intellettuale all’avanguardia in relazione al suo tempo».
Se dunque, da una parte, la lettura di questo testo necessita di una conoscenza previa dell’universo steiniano, del suo “Sitz im Leben” e di tutto ciò che gira intorno alla sua formazione culturale, dall’altra essa ci introduce ad una visione d’insieme e a un’interpretazione di Essere Finito e Essere Eterno, stimolandoci a ricercare di più.
Marinella Pernice
(direfarescrivere, anno X, n. 97, gennaio 2014) |