Apriamo il sipario di questo mese su una fantasiosa pièce teatrale, dai densi contenuti, che raggruppa al suo interno una trilogia: Gli ombrelli, Pugilatori e Sentenza, pubblicata in un unico volume a firma di Enzo Antonio Cicchino dal titolo Prima dello specchio (Edizioni la rondine, pp. 180, € 12,00).
Lo facciamo pubblicando qui di seguito la Prefazione della prof.ssa Giovanna Bruco.
Nel primo copione, Gli ombrelli (del 1987), quasi tutte le scenografie – e anche le musiche e gli “effetti sonori” – richiamano i componenti di Windows. La prima scena si apre con un finto sipario da cui si erge il desktop di un computer. Sullo sfondo un salone borghese con arredo in stile primonovecentesco dà l’impressione di mostrarsi come una tastiera in oblungo. Il testo presenta una bizzarra querelle che coinvolge i padroni di casa, Franco e Domizia, due coniugi invischiati ormai da tempo in una relazione stanca e dissipata dai tradimenti di lei e dalla gelosia soffocante di lui. A far da cornice alle scene i loro rispettivi ombrelli, protagonisti indiscussi e testimoni degli accadimenti all’interno della casa in cui si svelano segreti, passioni e rancori sommersi. Nel finale, Franco rimane intrappolato nel proprio labirinto di specchi, in cui vaga rimirandosi divertito; simbolo, questo, di un narcisismo spietato del quale egli stesso si ritrova vittima. L’uomo rimane imprigionato nella sua stessa immagine speculare: un volto appassito, i cui segni dell’usura vanno ben oltre la fisicità, che mette in risalto il marciume e gli orrori che ha commesso in passato. Il sipario si chiude con l’immensa esplosione del labirinto di specchi. Dall’alto cala un enorme desktop e la foto del salotto di Franco e Domizia con i rispettivi ombrelli al loro posto, i cui nomi vengono mostrati come icone di files. Al centro dello schermo campeggiano i tre tasti giganti Ctrl-Alt-Canc, cui fa seguito il rumore dello spegnimento del computer.
Il secondo testo, Pugilatori (del 1988) – in cui l’autore si ispira al cugino Minguccio – descrive la vicenda del pugile netturbino Buck, concentrato esclusivamente a raggiungere un’unica meta: la vittoria sul ring e la sconfitta del suo più temibile avversario, Roger, sogno di gloria che cova da anni. A fargli da supporto sulla scena, il caro amico e allenatore Smith, che lo sprona e lo incoraggia continuamente a raggiungere il traguardo. Nella conclusione il trionfo avrà un sapore caro e amaro per il campione: la vittoria sul ring ma anche l’abbandono della giovane moglie, Mary, desiderosa di avere un bambino e stanca ormai di dover attendere e di essere sempre messa in secondo piano per via dell’impegno agonistico del marito. L’ultima scena vede Buck solo e inginocchiato nella penombra, attorniato unicamente dagli oggetti e dalla musica della sua infanzia; lentamente, sulla scena, cala il buio della notte.
Sentenza, invece, è un monologo che racconta la drammatica e triste storia di Penelope, perito settore di 35 anni, costretta a sezionare il cadavere di un’anziana donna che scoprirà essere la madre affetta da schizofrenia e scomparsa tempo addietro da una casa di cura, quando Penelope era ancora adolescente. Il tutto si svolge all’interno di un tribunale, al cospetto di un giudice e di una giuria, dove la donna confesserà la triste scoperta, in un monologo in cui rigurgita sofferenze e dolori di un passato che ha lasciato il suo marchio indelebile. Sul calar del sipario si ode la voce sintetica ed elettronica della madre, la quale esprime tutto il suo amore e il rammarico per quella figlia che non ha visto crescere; poi un’esplosione, pianti e urla di Penelope che scemano solo con il sopraggiungere del buio sulla scena.
L’opera: significati e inserimento nel panorama letterario
I tre testi, sebbene diversi nel loro genere, sono legati da un comune fil rouge, in cui si palesa la visione di un presente asettico, torbido, allucinato, sempre lì pronto a disfarsi sull’orlo di un precipizio. L’autore lascia sempre in bilico i suoi scritti, che si concludono in modo brusco: l’obiettivo precipuo è quello di spostare l’attenzione del pubblico e di coinvolgerlo nella vivisezione dei sentimenti dei personaggi, in un viaggio d’obbligo nei labirinti dell’anima.
Lo stile dell’autore è immediato e semplice. Tale caratteristica lo porta a rappresentare in modo vivido e realistico l’atto esistenziale.
Specialmente in Sentenza, risaltano alla lettura dettagli minuziosi del corpo vivisezionato della madre della protagonista. Come afferma Lino Zanca nella Postfazione: «Enzo Antonio Cicchino distrugge il corpo perché vuol andare oltre il suo confine, che è la pelle, che è la carne, che è la spazio-temporalità che si identifica con la corporeità. Lo scrittore, in effetti, ce l’ha con se stesso, col suo essere uomo: vuol superare il limite della conoscenza legata a triplo nodo con la carnalità pensante che è l’uomo». Ed è quell’essenza pensante dell’essere umano che Cicchino vuole cogliere spasmodicamente in ogni suo scritto rendendo partecipe il lettore che facilmente si lascia coinvolgere in questa sua corsa incessante e insofferente alla ricerca della verità che altro non è che la voglia di svelare «la propria identità di figlio dell’universo».
L’epilogo di ogni suo testo, dunque, è l’individuo costretto sempre a riconoscere come un inizio il tanto atteso e sospirato finale. In tal modo si configura il protrarsi di un gioco in cui il gusto della scoperta e il sapore della ricerca sono, ogni volta, ineludibili.
La Redazione di Direfarescrivere
Prefazione
Oltre la fonte di Narciso
Sui quotidiani c’è sempre un gran dire su “il Male”. Così il cardinal Bagnasco da “La Stampa”: «Il male e il peccato sono realtà molto concrete per tutti gli uomini, credenti o non credenti, laici o ecclesiastici… Il male esiste nel cuore degli uomini… Non dobbiamo occultare il male». Così Remo Bodei da “Il Sole 24 Ore”: «La mediocrità del male: Il diavolo opera nella quotidianità, induce l’obbedienza cieca e acritica all’autorità, il conformismo e il perseguimento opportunistico dei piani di vita individuali». E ancora Federico Tulli: «Satana alla riscossa. Almeno 500mila persone in Italia sono convinte di essere possedute dal demonio. Un business per gli esorcisti e la Chiesa».
Solo Pietro Greco sembra offrirci su “l’Unità” un respiro diverso. Citando il biologo evoluzionista Frans de Waal che sostiene che gli scimpanzé bonobo hanno slanci solidaristici titola: Non siamo scimmie «assassine». Nuove teorie sull’origine della violenza: «L’uomo è naturalmente buono». De Waal conferma quanto da tempo sostenuto dalla nostra Rita Levi Montalcini, ovvero che l’aggressività inaudita e gratuita sarebbe una costruzione culturale perché in passato, nel dibattito intellettuale, si era imposta l’idea di una natura cattiva della specie umana. Prima del neolitico non ci sono state guerre. Anche altri neuroscienziati italiani, già negli anni ’90 avevano parlato di “neuroni specchio” che producono crisi empatiche.
Ma che cosa c’entra quanto appena citato con questa trilogia di Cicchino?
Per i nessi culturali che gli autori di spessore costringono a fare proviamo a spiegarlo.
Il protagonista del primo pezzo teatrale, che ha come titolo Gli ombrelli, è un certo Franco. Padrone di casa e, pagina dopo pagina, padrone delle vite degli altri. Protagonista che resta nell’ombra fino alla fine, quando dopo le peripezie degli altri personaggi, costretti a rapporti ambigui dai quali non riescono a districarsi perché da lui sapientemente gestiti, si fa esplodere nel suo stesso labirinto di specchi trascinando con sé gli imprigionati senza scampo. È solo allora che scopriamo il segreto che nascondeva, e di cui tutti parlavano senza mai svelarcelo: quello di essere “stato” un carnefice nazista.
Dunque per tornare ai nessi, essendo il nazismo imparentato con Heidegger – che, come si deduce da quanto scritto recentemente da Emmanuel Faye nel suo Heidegger: introduzione del nazismo nella filosofia, non ha influenzato il nazismo, ma al nazismo ha dato linfa col suo pensiero – ed essendo il fondamentalismo cattolico di questo filosofo legato a “l’essere per la morte”, è impossibile non collegare i crimini nazisti al pensiero di chi crede nel Diavolo come Incarnazione inevitabile del Male, che ci ricorda che siamo tutti figli di Caino e quindi destinati ad uccidere. Pensiero distorto, che ancora oggi incontra quello diffuso di chi considera Heidegger un grande pensatore, se Armando Torno titola su “Il corriere della sera”: Heidegger genio razzista impenitente. Ma è lecito, si è chiesto qualcuno, mettere accanto alla parola razzista la parola genio?
Il finale tragico di questo primo testo, Gli ombrelli, ricalca in modo tagliente la freddezza di chi eseguiva i crimini sotto comando meccanico di menti malate. Ce ne accorgiamo mentre viene proiettato sul sipario che si chiude la figura di un enorme computer. Congegno manovrato a distanza che spegnendosi con un “clic” ricorda qualcosa di agghiacciante. Una disumanità storica roboante di disfacimento mentale per una esecuzione che qui evocata sembra rendere le tragedie dei classici greci, cui era stato fatto cenno nelle pagine precedenti, quasi favole fantasiose, rispetto alla programmazione della distruzione di una razza. Che non poteva esistere perché nella specie umana esistono solo esseri umani simili a se stessi.
Per quanto inesperti in materia teatrale, ci accorgiamo che l’incedere manierato con cui Gli ombrelli è stato costruito – assai diverso da quello usato da Cicchino nei suoi romanzi dove le pagine suscitano continue emozioni – ci costringe a immaginare una regia che sappia poderosamente agganciare lo spettatore per trasportarlo dal calcolo preciso della criminalità nazista – che mirava ad attaccare con ragione lucida le caratteristiche umane – a un contrapposto che incontri la verità più vera sull’uomo.
Verità che non avendo niente a che fare coi comportamenti predeterminati degli animali – che continuano a migrare nello stesso luogo anche dopo un disastro ecologico – è protesa verso il desiderio di libertà. Libertà che in Cicchino si è presa il lusso di rappresentare gli uomini fatti saltare in aria dal loro carnefice come ombrelli. Un calcolo letterario certo inconscio. Memoria derivata dalla trasformazione della percezione cosciente che l’autore ebbe di ombrelli di forgia diversa, lavorati a mano, che gli erano rimasti impressi, come ci ha detto in una intervista, fin dall’infanzia. Oggetti inanimati che hanno un senso solo nelle mani dell’uomo, perché sua costruzione nell’intento di proteggersi dalla natura. Qualcuno ha mai visto un animale con un ombrello? No. Perché l’ombrello è una invenzione umana.
E a noi è venuto fatto di pensare che l’autore abbia voluto ricordarci non solo che il nazismo ha trattato gli esseri umani come oggetti, ma rappresentandoli con un oggetto speciale di loro invenzione, e non ad esempio con pezzi di roccia trasformati dalla natura, abbia voluto sottolineare come i nazisti fossero stupidamente convinti di poter distruggere usanze e storia di un popolo attraverso l’eliminazione dei corpi. Come se questi “contenessero” una diversità di pensiero che era minaccia per l’esistenza di una razza ariana.
E ancora il tema mente-corpo, dove la mente è alle prese con la ricerca di sé nel doppio, ritroviamo nel secondo pezzo, Pugilatori. Dove il male sembra essere più umano e meno diabolico.
Il rapporto che vige tra i protagonisti Buck e Smith, ma che può essere esteso anche alle due figure femminili Mary ed Ann, ci mette in relazione con un tutt’uno che sembra stato costruito, e solo poi diviso, per evidenziare conflitti irrisolti posti nel tentativo di abbattere i limiti dell’uomo e quelli del suo rapporto con la donna. Qui i protagonisti non muoiono. Cambiano solo le situazioni. Chi doveva essere vincitore perde, e quello che era dato perdente vince. In un gioco delle parti che cambia le carte in tavola. Ciascuno è costretto ad andare per una propria strada nuova e diversa liberando i protagonisti da quel limite che talvolta l’altro impone. Le realizzazioni sono legate a separazioni dove il doppio evapora lasciando l’altro e l’altra soli. Ma in una solitudine che può non essere fallimento se sono scomparsi quelli che avevano cercato di impedire la vita che ciascuno ha il diritto di scegliersi.
Il legame dei pugni del pugile Buck col suo trauma di ragazzino, quando si allenava a tirarli contro il materasso in attesa di scagliarsi contro i preti per difendersi dalle loro incursioni notturne nei letti di collegio per soli maschi, ci ha fatto fare un nesso con un libro di Federico Tulli: Chiesa e Pedofilia, al quale è seguito un nostro pensiero che incontra opinioni sempre più diffuse, sul fatto che alla Chiesa conviene parlare del Male, per non mettere in discussione la depravazione mentale dei suoi rappresentanti che certo ha contribuito al gesto epocale delle dimissioni di un pontefice.
Nel terzo pezzo, Sentenza, i “misteri” della mente vengono cercati dalla protagonista negli organi interni del corpo devastato di una vecchia, che alla fine si scopre essere la madre assassina. Storia che ci è ben nota dal momento che sappiamo che solo dal 1976 la specializzazione in psichiatria è stata disgiunta da neurologia che cercava la malattia mentale nelle fettine del cervello. Ovviamente senza trovarla. Ed è interessante come Cicchino metta a fuoco, certo partendo da una introspezione intimistica inconscia, questo tema di grande attualità scientifica che vede dura a morire la psichiatria organicista in combutta con le case farmaceutiche. La protagonista Penelope, una figlia che in veste metaforica di medico legale è costretta a vivisezionare davanti alla corte il cadavere della propria madre come si farebbe con un animale a scopo di studio, è la rappresentazione calzante di chi non ha compreso che quando l’organismo non è più vivente la mente, che è pensiero e non cervello, non esiste più.
Prima di essere cadavere, la vecchia madre pazza non si è limitata a vendicarsi distruggendo la casa della figlia, ma ha fatto esplodere assieme a quella anche le case del vicinato. Gesto violento dove la politica palesemente non c’entra. Come è stato nella strage di Breivik che era solo un malato di mente. Perché la malattia mentale esiste. Non è il Diavolo ma un disturbo del pensiero. E dunque non si cura con l’acqua santa ma con la nuova scienza psichiatrica, che non ha niente a che fare con l’esorcismo.
Che con questa madre assassina l’autore abbia voluto rappresentare l’adulta madre società? Specie, ahinoi, quella alleata col pensiero cattolico? Società che quando colpevolizza le figlie femmine dice sempre di farlo per amore, a cominciare dall’accusa di omicidio per un aborto, quando è risaputo che il feto non ha nessuna possibilità di vita se non supera i sei o sette mesi di gravidanza?
Dunque temi culturali decisamente attuali questi toccati dalla trilogia di Cicchino. Affrontati con lo stile di chi muove l’immaginazione su una sua base reale. Temi ricondotti al dramma come ricerca provocatoria di risposte nuove che tolgano a violenza e fallimenti la credenza sulla loro ineluttabilità. Il tormento che percorre certe pagine, legato al dubbio ossessivo sull’origine della colpa, sembra indirizzato verso un riscatto estremo che apra le porte a spiragli di speranza. A quella che è la realtà più vera dell’uomo che sappia rivelare il dramma per quello che è: accidente ed errore. E non natura umana. Errore che una volta smascherato non metta più “in ginocchio al telescopio” per rimirarci nelle irraggiungibili stelle a cui dover affidare i nostri impossibili sogni.
Nell’aiuto dell’“indeterminato infinito” noi non crediamo. E sospettiamo che non ci creda neanche l’autore. Che in cuor suo sogna di separarsi da una “vita quadrata racchiusa dalle corde sul ring”, per condurre su nuovi passi il “fratello ritrovato che fu salvato dalle macerie” e recuperare la “musica dell’infanzia” uscendo dal quel “cerchio chiuso”, dove il treno fa sempre lo stesso percorso, girando attorno al ring dove lo aspetta l’eterno conflitto con il doppio. Perché il “buio della notte” (finale di Pugilatori) è solo assenza di luce esterna. Nei sogni umani c’è il pensiero che illumina la mente e trasforma il dubbio in conoscenza.
Nel finale di Sentenza, a proiettare sullo schermo il messaggio ingrandito di un telefonino porgendoci la voce asettica di chi lo legge è di nuovo un meccanico “clic”. È il messaggio della madre suicida assassina interrotto dall’esplosione e dal rumore di altre macerie che cadono. Sono parole che senza il gesto folle avrebbero potuto essere parole d’amore. E che invece la voce elettronica che legge smaschera come pazzia.
Perché – e sembra che dobbiamo sempre scontrarci con Zanca, di cui questa volta abbiamo letto la Postfazione a Sentenza – nella chiusa, dove riferendosi al monologo dell’autore (ovvero la protagonista Penelope) alle prese con il proprio cadavere, Zanca interpreta che «Il risultato dell’autopsia è l’incapacità di conoscere pienamente e con certezza la verità» – dimenticandosi di aggiungere, “sull’uomo” – a nostro avviso non è stato colto che la fantasia dell’autore, invece, distingue assai bene l’amore dalla pazzia che nella perdita degli affetti amore non può essere.
Altrimenti questi drammi non li avrebbe scritti.
Oggi a questo pensiero debole, che è rimasto confuso sul concetto di verità e ci riporta a un vecchio odore di bruciato, si contrappongono filosofi, come ad esempio Maurizio Ferraris, che sostengono fortemente che la verità esiste eccome! Anche se negli artisti è intuizione prima di essere conoscenza.
Dunque non siamo d’accordo sull’affermazione che «la verità è una creazione artistica che si inventa». Non rende giustizia al testo che esprime l’esatto contrario: ovvero che è la creazione artistica, quando è in grado di puntare il dito sugli affetti malati che hanno perso la sanità originaria della nascita, a dimostrare l’esistenza di una verità non inventata ma scoperta. Come dalle recenti teorizzazioni dello psichiatra Massimo Fagioli.
Concludiamo con una riflessione sul titolo: Prima dello specchio. Qualcuno ha mai visto un cane riconoscersi allo specchio? No. Perché il cane non ha l’immagine interna che è specie specifica degli esseri umani. Immagine che insorge al momento della nascita quando la retina viene stimolata dalla luce. Dunque prima dello specchio che c’è? C’è una memoria fantasia che ricrea una certezza di vita come rapporto derivata dal contatto col liquido amniotico che fu possibilità di reagire allo stimolo.
Certezza che lo scrittore Cicchino ha qui ricreato nella linea della scrittura porgendocela come un doppio che non è specchio. Perché non riflette la scissione mente-corpo di Narciso, che prima era uno e poi si divide tra quello in carne ed ossa e quello riflesso nella fonte nella quale non si può riconoscere. Perché la scrittura, che arriva alla mano prima ancora che nella testa come pensiero cosciente, conduce il doppio di sé a ricomporsi dal conflitto in una rappresentazione che non può svanire.
Giovanna Bruco
(direfarescrivere, anno IX, n. 95, novembre 2013) |