I libri, talvolta, sono quelle maledette creature che ti costringono a entrare nella vita degli altri. Maledette, sì, perché quando si entra nell’intimità dell’altro diverso da noi, si finisce sempre con il fare i conti con se stessi. Se è vero quello che ha detto Roberto Benigni in qualche recente occasione – che ci accomuna il fatto di essere diversi – è altrettanto vero che ci somigliamo un po’ tutti quando soffriamo. Siamo esseri umani e la sofferenza ci mette a nudo: di quella nudità tanto stigmatizzata, quanto abusata, nella nostra cultura occidentale.
Nudità: un termine ormai spesso associato, appunto, alla sola sfera del corpo, dell’eros. È facile collegarla al semplice non essere vestiti, cioè coperti da indumenti. La parola, però, deriva dal latino nudus: disadorno, privo, spoglio. Sono esattamente questi gli stati dell’animo (ma per certi aspetti anche del corpo) che Terri Boemi condivide con il lettore di Nuda. Confidenze a mio padre (Falco editore, pp. 96, € 10,00).
Equilibri irrisolti
Sulla prima di copertina di questo libro campeggiano elementi che, a ben guardare, risultano posti in una quasi perfetta simmetria tra di loro e anticipano la carica emotiva racchiusa nelle pagine interne.
Innanzitutto, il nome e il cognome dell’autrice. Terri – a metà strada tra l’italiano e l’esotico – e Boemi, un cognome che sprigiona tutto il suo “peso” soprattutto quando associato al sottotitolo dell’opera: Confidenze a mio padre.
L’autrice, nata a Napoli e giornalista da un ventennio, è la figlia del noto imprenditore Tony Boemi: esperto di elettronica e ideatore di apparecchi audiovisivi, è stato pioniere nel settore dell’emittenza televisiva privata e fondatore di Telespazio Calabria, presentatasi al pubblico e agli addetti ai lavori come un vero e proprio fenomeno informativo e imprenditoriale.
Tra i due nomi che la copertina svela, un’immagine d’autore (dell’artista catanzarese Alessandro Marziano) che si presta a più “letture”. Protagonista è una giovane donna, presentata in due prospettive. La prima porge al lettore il profilo, seminascosto, e gli volge le spalle. La seconda gli mostra il volto, ma coperto da un elegante merletto e dai capelli disordinati che ne velano lo sguardo. Sembrerebbe quasi una rappresentazione allo specchio, in cui però l’immagine riflessa e quella che si riflette stranamente non coincidono, pur avendo alcuni elementi in comune: l’incapacità di mostrarsi totalmente e l’apparire senza vesti, sebbene ciò non sia chiaramente palese. Su questa immagine, combattuta tra intimità e pudore, si staglia, quasi ossimoricamente, il titolo del libro. Nuda.
Fotogrammi di una vita
Venticinque sono gli episodi che Terri Boemi condivide con il suo lettore. Racconti che non rappresentano un unicum nel loro distendersi: chi legge non deve aspettarsi una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. Né però le vicende sono poste, nel loro susseguirsi, alla rinfusa. Anzi. Permettono di “scorrere” persone, ricordi scolpiti nella coscienza, ferite, emozioni: momenti che l’autrice ripercorre con coraggiosa intensità come pagine di un diario segreto che è stato chiuso a chiave per lungo tempo e che adesso ha raggiunto la maturità per schiudersi agli altri.
È difficile definire chi sia il protagonista di queste pagine. Indubbiamente ruolo di rilievo è quello di Tony Boemi: l’imprenditore, il padre, l’uomo. In realtà, è piuttosto la sua assenza, vissuta dall’autrice come un’ingombrante presenza, a fare da padrona. Ed è quest’assenza – che adesso è anche fisica, data la scomparsa, avvenuta nel 2004, del fondatore di Telespazio – che scatena il flusso di coscienza dell’autrice e figlia.
La vera protagonista è lei: le sue paure, i suoi complessi, adolescenziali e non, i suoi errori, le sue gioie e i suoi immensi dolori, il suo desiderio di riscatto, la sua dipendenza affettiva e la conseguente necessità di emancipazione, le sue aspettative, quelle attese e quelle – soprattutto – tradite. La sua essenzialità, le sue privazioni, il suo costante senso di inadeguatezza. In una parola: la sua nudità.
Quello che emerge da questo “diario aperto” è una bambina diventata donna, probabilmente troppo precocemente; una donna diventata madre, anche quando ha negato – paradossalmente per amore – questa natura; una madre diventata figlia. Sì, quasi in un innaturale percorso al contrario, sembra che l’autrice, nel raccontare il suo complicato quanto intenso rapporto con il padre, riesca ad accettare la sua condizione di figlia (e per di più figlia di quel genitore) solo quando ha acquisito quella maturità che non è “filiale” – «Ho desiderato così tanto essere amata, che ho finito per sbranare l’amore stesso», afferma l’autrice – ma che sola è capace di riportare alla luce primitive sensazioni, rielaborandole per dare loro nuova forza e consapevolezza. E anche il coraggio di affrontarle con la necessaria lucidità.
Non è un caso se la pubblicazione si chiude, a coronamento delle “confidenze” dell’autrice, con una fotografia di quest’ultima da bambina abbracciata (e si tratta di un abbraccio poderoso, forte, protettivo, quasi possessivo) da suo padre: l’istantanea di un momento che, forse, per tanto tempo, entrambi hanno desiderato si fermasse per sempre. Scrive l’autrice: «A volte sfoglio l’album dei ricordi. Ero sempre tra le tue braccia. Quelle tue mani larghe e tozze, mi avvolgevano interamente. Le mani, le nostre mani, così simili. Dio quant’ero piccola tra le tue mani. E quanta amorevole protezione c’era nel tuo stringermi».
L’amore, prima e dopo di tutto
Il filo conduttore della toccante pubblicazione è, in fin dei conti, l’amore. Non quello banalmente declinato, ma l’amore inteso come progetto di vita, anche quando non raggiunge la piena completezza nel suo svilupparsi.
Terri Boemi scrive parole di un’intensità sconcertante sull’amore; parole sontuose, ma discrete e pudiche, che si caricano di tutti i significati che lei stessa ha sperimentato sulla sua pelle: «Amore si può invocare in diverse circostanze. Perché è facile confonderlo. Ma l’amore usa un linguaggio chiaro, semplice. Inconfutabile. […] È una scelta libera ma sensata. L’amore è un progetto, il più importante. […] Esso si rigenera continuamente, si nutre di se stesso. […] L’amore inonda con il suo silenzioso fragore tutto ciò che gli vive attorno. L’amore non accetta compromessi. Non ammette bugie e sotterfugi. Rifiuta le bassezze, la derisione, la sordità. L’amore è mutamento, trasformazione, evoluzione. […] È percepirsi a distanza. È sentirsi nonostante la distanza. Fisica. […] L’amore è una libera appartenenza. […] È l’unica eternità concessa al limite umano. […] L’amore non ha scadenza».
Esiste, allora, un tempo giusto per realizzare nella vita la progettualità cui tende inesorabile l’amore? L’autrice risponde a questa domanda nell’epilogo della sua opera, nell’ultimo brano, il ventiseiesimo, che intitola – e che chiosa con la dedica al genitore – Mio padre.
Siamo alla resa dei conti, ammesso che si possa – viste le premesse – parlare in questi termini. Finora l’autrice ha raccontato di sé, e di alcuni momenti clou della sua esistenza, sottendendo sempre una sorta di rimprovero e disapprovazione nei confronti del suo papà, seppur snodandosi attraverso espressioni che mai per un istante perdono il senso del rispetto e dell’ammirazione.
Adesso, la situazione si capovolge, quasi come l’immagine “semispeculare” della copertina. A parlare non è più Terri, ma Tony Boemi, che si lascia andare a una sorta di monologo-lettera rivolta alla figlia in cui quest’ultima si dà – la “finzione letteraria” permette anche questo: potere catartico della scrittura! – le risposte che ha cercato per tutto il suo faticoso percorso. L’omerico nostos, cioè il “ritorno (impegnativo e doloroso) alle origini”, è ciò che meglio riassume l’excursus di Terri Boemi.
È in queste pagine finali che “l’uomo pubblico” rivela un aspetto di se stesso forse sconosciuto ai più, quello, cioè, meramente umano, fatto di “carne e sangue”, e quindi di vulnerabilità e debolezze: «Sono inciampato in errori umani che non rinnego, non rimuovo, che ho imparato ad incorporare. Mi appartengono. Io sono anche quelli».
È sempre in queste pagine che egli spiega la sua lontananza: «L’amore, a volte, preferisce l’assenza. E riesce a far male e a farti piangere. Quante cose non ti ho detto. Quante cose di me ti ho taciuto. […] Ho sofferto per te. Ho sofferto con te. Ho pianto per te e con te. Perché non potevo intervenire. Perché dovevo lasciare che tu scegliessi. Perché non potevo più proteggerti se volevo salvarti. Dovevo fare in modo che tu cadessi. Che tu conoscessi le miserie umane. Che le provassi sulla tua pelle e imparassi a difenderti. A rialzarti. […] volevo fossi l’ultima degli ultimi. Ma soprattutto volevo che tu imparassi ad amare. Te». In queste parole si concretizza quella libertà nella quale, secondo l’autrice, si realizza l’amore. Una libertà che è contemporaneamente appartenenza, anche quando passa attraverso la distanza. Padre e figlia, a questo punto della storia, sono l’uno di fronte all’altra, ma la “simmetria” si è ribaltata: adesso è il primo che ha qualcosa da dire alla seconda, che ha qualcosa da rimproverarle. La sua rigidità, la sua inflessibilità, la sua incapacità di accettare che un padre – che un tempo è stato anche un figlio, il che non è un dettaglio – è, prima e nonostante tutto, un uomo: «Accetta le mie incongruenze. Le mie contraddizioni. Le mie paure. Non sono immune da esse. Non lo sono mai stato. Impara a vivermi così come sono».
È con questo messaggio che l’autrice saluta definitivamente suo padre. Lo restituisce al silenzio della vita non terrena, questa volta consapevole di quella reciprocità tanto agognata e con la serenità di chi ha trovato il coraggio di liberarsi dalla distruttività del rancore.
Un rilevante apparato prefativo e postfativo
Il libro di Terri Boemi si arricchisce di contributi prefativi e postfativi di rilievo, non solo per l’importanza delle “firme” di questi testi, ma anche e soprattutto per la loro capacità di accompagnare il racconto intimistico a cui l’autrice si lascia andare dotandolo di quel necessario punto di vista esterno in grado di filtrare le vicende. Un punto di vista che però non risulta freddo e asettico perché gli autori di tali contributi sono tutti persone che con la famiglia Boemi hanno avuto e hanno ancor oggi un rapporto importante.
Penetranti le parole con cui Adriana Faranda presenta il volume nella sua Prefazione sin dalle prime righe: «la voce di Terri taglia come un bisturi la pelle di plastica dell’apparenza». Non c’è spazio per i mezzi termini, non può esserci perché è la natura del racconto a impedirlo. Non meno privi di sfumature gli altri testi che compongono la Parte seconda del volume, intitolata Postfazioni. Quella di Rita Commisso, che ricorda del suo incontro con Tony Boemi mentre questi era ingiustamente in carcere; quella di Mariella Cosentino, che mette in luce l’essenzialità delle parole dell’autrice e la necessità di accostarsi a esse con discrezione perché il rapporto tra un padre che non c’è più e una figlia è un vincolo sacro e inviolabile. E ancora, la Postfazione di Simona dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto, amico di Tony Boemi, la quale proprio a Telespazio cominciò la sua carriera e che narra con rammarico un episodio che la vede direttamente coinvolta. Chiudono il libro la Conversazione con Quirino Ledda in ricordo di Tony Boemi a firma di Bruno Gemelli e la breve Biografia di Tony Boemi scritta da Gerardo Gambardella.
Cecilia Rutigliano
(direfarescrivere, anno IX, n. 94, ottobre 2013)
|