Comuni sono le riflessioni in stile narrativo su tematiche quali il senso del tempo, la vacuità della vita, la decadenza di valori etici morali e sociali. Ma, affrontati in versi poetici, tali temi si arricchiscono di un pathos maggiore, scavando l’animo, smuovendo le coscienze, portando a una riflessione profonda e matura.
Ciò accade perché poesia è creazione, trasfigurazione, musicalità, potenziamento linguistico.
Il pensiero poetante inscenato da Emilio Del Rio in Va pensiero. Ricognizioni (La Vita Felice, pp. 152, € 14,50) è la summa di tali categorie. Nel suo percorso di pensiero all’interno di questa straordinaria raccolta di versi, l’autore, apprezzatissimo scrittore delle “scuderie” de la Bottega editoriale, affronta prima l’immagine drammatica del passato svuotato di senso che comporta uno svanire del tempo che annulla di conseguenza anche il presente.
Tra le ombre di tale agonia lottano il fervore e l’ardore della vita che vuole riemergere. È una lotta tra la luce della realtà e l’ombra che l’essere umano si procura per proteggersi dalla stessa, dal dolore che genera il senso di conoscenza della realtà. Ad ogni alba di pensiero, nell’animo dei più, è l’ombra a vincere.
Giunge così il pensiero di Del Rio a una ricognizione sulla scomparsa della dimensione umana, si profila un’Arcadia dominata dalla morte, dalla fame e dalla guerra. Disperazione e rinuncia sembrano prevalere, ma una linfa vitale ancora scorre nel poeta, che non viene mai completamente inghiottito dal baratro di ansia che tali riflessioni comportano.
Sul finire di questo percorso, il senso del nulla e il vuoto dell’esistenza portano il poeta ateo a riflettere anche sulla perdita del sacro, sulla «necessità labile della presenza di Dio avvertita come garanzia metafisica del primato dei valori e dello spirituale sulla banalizzazione della materialità e la dittatura del potere e del denaro. […] È fondamento della giustizia sociale e garanzia della bellezza della natura e dell’autenticità dell’essere umano».
Un’utile guida alla struttura dell’opera ci viene fornita dall’Introduzione di Roberto Mussapi, che mostra come l’incipit di Del Rio si concentri sul senso del tempo che è «la ragione del “triste divenire” del mondo classico […], ma anche del nostro perdurare oltre l’attimo, della nostra uscita dall’esperienza fenomenica per appercepire l’esperienza metafisica»; continua poi con il rapporto tra l’uomo e la natura e, infine, con la «percezione dell’incessanza». Lo scenario del mondo e dell’individuo è desolato, ma il poeta vi contrappone la resistenza della parola.
La Prefazione redatta da Renato Minore, che di seguito vi proponiamo, favorisce l’approccio e la critica nei confronti dei versi scritti da Del Rio, versi in cui la dimensione dell’immagine e della riflessione restano in costante interconnessione in una metrica che spesso oltrepassa il rigido schema classicista per sfociare in una prosa poetica e ritmata (simile a quella di Aloysius Bertrand); il linguaggio è messo al servizio della conoscenza, in modo tale che la dialettica possa aiutare a rivelare ed esprimere il reale come elemento esiziale.
la Bottega editoriale
Prefazione
Già dal suo titolo il libro di Del Rio Va pensiero. Ricognizioni, nei simboli, nelle citazioni e nella sua sillogistica interna, si inserisce in quel filone del pensiero poetante che di recente è stato codificato attraverso la focalizzazione di alcuni autori paradigmatici e che riprende in qualche modo l’ideale di una lirica capace di utilizzare non solo le immagini, ma anche la riflessione psicologica, esistenziale, metafisica come motivo di elaborazione poetica. E anche il raggiungimento di una consapevolezza della propria capacità intellettiva e sapienziale così come indicava Arthur Rimbaud nella sua lettera a Paul Demeny: «Il primo studio dell’uomo che voglia diventare poeta è la conoscenza di sé, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la tenta, l’apprende. Dal momento che la conosce, deve coltivarla».
Va pensiero. Ricognizioni è espressamente incentrato sul pensiero, sul significato dell’avvento del pensiero nell’animale uomo e nel mondo: «Cominciava la nostra stagione,/ la nostra precipua occorrenza,/ la nostra presenza quaggiù,/ la nostra comparsa cosciente./ Cominciava l’esercizio della riflessione,/ la facoltà della meditazione,/ la virtù dell’introspezione./ Cominciava la virtù dell’immaginazione,/ la facoltà dell’evasione, la potenzialità del sogno,/ dell’uscita da se stessi» (Pitecàntropo).
La connessione con il pensiero poetante si integra in Del Rio con un riferimento prevalente a due altre grandi tradizioni: quella del romanticismo tedesco a cominciare dalla sua scaturigine goethiana fino a Hölderlin e Novalis e quella dell’ermetismo fiorentino con Luzi, Parronchi e Bigongiari come maestri di una continua ricerca dei correlati oggettivi e naturalistici del pensiero poetante e come maestri dell’interrogazione più profonda che segna il passaggio dalla natura alla stessa materia poetica, al linguaggio.
Dentro questa integrazione si gioca la possibilità di conciliare la visionarietà romantica e il rigore classico dell’analisi, della verifica. Aumentando esponenzialmente le capacità di indagine del pensiero umano non ridotto alla sua mera componente razionalistica. «Ho lo spazio del pensiero,/ ho i suoi campi di osservazione,/ le sue zone di esercizio e di verifica,/ i suoi luoghi di ricerca e di crescita,/ ho le sue alte logge e le sue camere profonde./ Ho le sue concentrazioni, ho le sue espansioni». Così scrive Del Rio in Voce dalle fronde di un frassino dopo un incipit che richiama la rilevazione di una presenza, di una voce tra le fronde, tema che insieme a quello della realtà degli spiriti della natura si ricollega alla migliore poesia tedesca dell’Ottocento e alle liriche di Goethe.
In Del Rio sembra che il passaggio dalla natura al linguaggio non venga compiuto in modo radicale generando una frattura tra i due sfondi dell’elaborazione lirica. La dimensione dell’immagine e quella della riflessione restano in continua interconnessione, è sempre tangibile la tensione alla metamorfosi del sillogismo e delle antitesi in un verso che spesso rompe gli argini di una metrica preordinata e soffocante e si apre alla forma aperta e ritmata della prosa poetica.
Uno sforzo di espansione che avviene, bisogna ricordarlo, senza che ne soffra l’impianto propriamente formale della composizione, ma che si svolge con una naturalezza ed una vitalità sorvegliate ma pur sempre esuberanti, piene di slancio.
Il linguaggio è messo a servizio della natura come correlato non solo del vissuto e del pensiero, ma anche e soprattutto come universo in cui sono presenti gli esseri viventi, gli attori animati o inanimati di una vicenda dentro cui essi sono immediatamente percepibili come qualcosa di più che non gli elementi di un sistema di cause fondato su una scaturigine ignota.
Gli esseri che popolano il regno del visibile sono sin da subito poeticamente percepiti come simboli, come pregnanze dotate di senso ulteriore. Sono «delle note vibranti, delle sillabe in volo,/ dei mondi armoniosi» per dirla con l’illuminante lessico della poesia Presso una sponda dell’Arno in cui Del Rio opera la compenetrazione fra pensiero e nostalgia, riflessione ed emozione ed elabora il rimpianto per un mondo petrarchesco in cui cuore ed anima, amore e spiritualità convivevano in una armonia indivisa fervida di tensione e di Streben.
Al di là della poetica interna a Presso una sponda dell’Arno le note, le sillabe e i mondi di cui parla Del Rio nella sequenza che consideriamo paradigmatica di un suo stile e di un suo contenuto, rimandano ad una più generale capacità di entrare in comunione con l’unità e le determinazioni della natura e dell’anima. Il rimpianto del mondo petrarchesco può essere letto all’interno della pratica della Erinnerung, il rimemorare rendendo presente per quanto si può l’oggetto della nostalgia. Memoria che implica il rimpianto secondo le dinamiche della Sehnsucht del romanticismo tedesco.
Questo rimemorare è spesso identico all’atto del vedere, dell’intus legere, all’azione della contemplazione.
La natura è metafisica già di per sé senza bisogno di una speculazione filosofica giustapposta, razionalistica ma diveniente in concorso con la contemplazione e la immersione dell’io poetico nelle trame e nelle forme del visibile. Il pensiero poetante di Del Rio si svolge così in un andamento ciclico e ricorrente di polarità in cui lo svelamento fa rima con il nascondimento del senso primigenio.
Se è vero che «tutto è arcano» la poesia può rispecchiare pienamente la dialettica sospesa e irrisolta dell’esistenza e visualizzarla in un processo conoscitivo che si sviluppa per illuminazioni e per ragionamenti, cercando con un linguaggio arcano di snidare l’arcano, accettando la sfida di una ricerca laica, che non conosce la consolazione di alcuna fede, ma che non disdegna di conoscere quasi misticamente per speculum in aenigmate, ex umbris ad veritatem, procedendo «dall’ombra alla luce di un’idea,/ al chiaro di una sfera» infine apparsa che ha tutto il prestigio del sole, ma che più oltre una nube può vanificare (In fuga dagli dèi). Ma all’alba, al momento «in cui luce e ombra si incontrano» così come dice la poesia Alba, «due pensieri volteggiano,/ si desta la guerra». L’alba non è metafora della verità e della luminosità della conoscenza, ma viene vista nella sua tristezza così come è cantata nella poesia ellenistica e in particolare nell’Antologia Palatina in quanto fine della soffice ovatta del buio dentro cui i corpi degli amanti si incontrano e vivono la loro unione. L’alba è la fine di una notte d’amore. E oggi, per Del Rio, ogni alba è diventata un’ora drammatica perché è il momento in cui quotidianamente apprendiamo la crisi della nostra epoca. Del Rio ha presente Dante che nel XIV canto del Paradiso ai versi 116 e 117 dice: «l’ombra che, per sua difesa,/ la gente con ingegno e arte acquista» ossia che l’uomo si procura l’ombra per sua difesa, cioè a dire per difendersi dalla luce del sole. Prendendo lo spunto da questi versi Del Rio vuole significare la tragicità del momento del risveglio all’alba di ogni giorno, nella lotta, nella guerra che si desta tra luce ed ombra, la luce e quindi il duolo, il dolore vince ogni difesa, ossia vince l’ombra che noi ci procuriamo per difenderci dalla luce del sole, dalla luce della realtà. Per cui l’alba è l’ora piena nel senso della conoscenza della realtà, è l’ora viva in cui ci si ritrova davanti ad essa, in cui il pensiero, allargandosi alla percezione di questa realtà raggiunge la sua piena latitudine, quella che abbraccia tutt’interi la verità e il dolore.
In questo modo Del Rio non ci rende liberi dalla dialettica che tempesta con la sua oscillazione la totalità del reale e che il suo libro esibisce senza l’inganno di scorci o visuali privilegiate e consolatorie. E per questo nonostante la sua luminosità lirica, la sua freschezza immaginativa la poesia Alba rimane uno dei momenti più drammatici del libro. Del Rio ha come fine poetica la fedeltà alla contraddizione del reale. Contraddizione continuamente sanzionata ma irrefutabile. Il suo testo segreto è la guerra dei contrari, il polemos di Eraclito, la poetica dell’ossimoro lasciato nella sua orgiastica e irrefrenabile sospensione. Non risolto, ma contemplato nel suo divenire incostante, nella caoticità: «mi calo in ogni fibra, in ogni vena/ m’immergo fino in fondo,/ mi stempero e mi scindo,/ mi scompartisco e mi riassembro,/ come flebile canna, come ramo spezzato,/ come penna caduta da un nido veleggio,/ come cane errabondo, come animale smarrito/ annuso il vento» (In fuga dagli dèi).
Così accade in tutte le tre parti in cui è diviso il volume. La natura è oggetto e luogo di un ragionamento lirico. Ma non assorbe l’autore in un vortice ingenuamente panteistico nel senso di Goethe o panico alla d’Annunzio, anche se non mancano momenti tipici di questa comunione quasi estatica con la natura e l’amore che in essa trova luogo.
Abbiamo invece la padronanza del flusso, un guardare attraverso, un non volersi porre all’esterno come l’occhio di Dio, ma uno stare all’interno affidando spesso alla parola, al discorso, al ragionamento la sfida del conoscere, accettandone anche con una ironia sopita i limiti e le barriere. Di fronte ai quali Del Rio innesca una concatenazione affollata e crescente di esseri viventi, immagini, stati mentali, eventi su cui proietta la propria superiore consapevolezza, il dominio dell’uomo poetico che detiene il potere di denominare le cose e fissarne l’essenza nonostante la disarmonia e il caos.
Così la poetica esistenziale compiuta e definita lascia il posto al gioco linguistico, a veri e propri divertissement filosofici, che potrebbero sembrare frutto di mero sperimentalismo da avanguardia se non sapessimo quanto alta è l’ambizione linguistico-sapienziale della poesia di Del Rio.
Si pensi a quanto sia fondamentale il gioco linguistico in un componimento fondamentale per la poetica del libro come Et in Arcadia ego. In cui la ritmica martellante, continua, esponenziale si serve come leva di un incassamento modulare ricorsivo di aggettivi di colore: «Qualcosa di vivo, di vero, di nuovo, di bello. Di rosso o di giallo? Di verde o di bruno? Di rosso di giallo di verde di bruno in uno sguardo abbracciare, uno sguardo spazioso, circolare, onnicomprensivo, come solo il cielo potrebbe». Gioco linguistico che fa da motore formale della struttura della poesia in cui i colori, come vedremo, hanno un ruolo evocativo e simbolico ben superiore della semplice strumentalità musicale della loro descrizione.
Si può richiamare la ritmica estatica e malinconica di E tu dove tra i riflessi e le ombreggiature di un viale, tra pini ed erba un pensiero, con tocco inconsueto, bussa al cuore:
Un ardore si turba.
Un ardore si vela.
Un ardore s’oscura.
Un ardore riaffiora,
risorge,
deterso riarde,
recede, riaffonda, risale,
combatte,
arretra e avanza,
smorzato riemerge,
minuscolo insorge,
sommerso si riprofila.
Un ardore riarde.
Un ardore s’oscura.
Entri anche tu nell’ombra
– e tu e tu –
con ogni mio sussulto,
nell’ombra unificante.
Si potrebbe parlare a lungo di questa immagine metafisica così arcana ed esemplare dell’ombra unificante. Quella succeduta all’oscurarsi dell’ardore, che si oscura restando pur sempre ardore e quindi pronto a riaccendersi, a risorgere. Una condizione dentro cui si ritrovano l’Io e il Tu della esistenza, l’Altro cui sempre ci rapportiamo mentre tentiamo di riassumere noi stessi, l’Altro con cui ci rimuoviamo uniti in questo dinamismo misterioso dello spegnersi e dell’oscurarsi di qualcosa di vivo e di fiammeggiante che rimane pulsante dentro l’ombra unificante. Assai diversa dall’ombra di Bigongiari, vissuta come limite incombente: «Un’ombra ancora, un’ombra che non scompare/ come un disco pieno di propositi,/ e questo cielo senza vittoria per nessuno,/ le mani calde, la bocca amara d’amare.// Inutile parlarvi, miei morti sconosciuti» (A labbra serrate).
In Del Rio l’ombra unificante è un orizzonte di senso, anche se non possiede il carattere di risoluzione, «la formula che mondi possa aprirti». E lo è anche quando questa coincide con La morte. Del Rio conferisce una originale intelligibilità al tema della onnipotenza tremenda della Morte in una intima connessione che lega inscindibilmente Et in Arcadia ego con il poema La morte che chiude la prima delle tre parti del volume, quella dedicata alla prospettiva più esistenziale.
Non solo il momento fisico dell’abbandono della vita, ma la morte spirituale vissuta lungo l’arco di un mattino dove l’autore compie il suo breve, decisivo periplo in una passeggiata che lo conduce da casa nuovamente a casa camminando per una strada cittadina e passeggiando in un giardino pubblico che diviene luogo di una ricognizione nel regno della natura matrigna, vista come dominio assoluto del meccanismo biologico.
Tutte le immagini si concatenano l’una con l’altra in un ritmo incalzante, senza respiro. Un rintoccare simile all’affanno dell’agonia, elegia alla vita che declina, «alla morte che vive» direbbe il Montale di Notizie dell’Amiata. Un morire ribollente di oggetti, di memorie, di metafore; riassunto dell’ordine e del disordine del mondo, del brulichio universale, del frullo assiduo e contorto del reale. E il poema che ne viene fuori è, nelle intenzioni dell’autore, irredimibilmente nichilistico, pervaso da un vitalismo della morte, contrario, rigoglioso e sovrabbondante. È il tripudio dell’epifania del nulla, del male, è l’apparire e il trionfo del non essere, dell’inesistenza.
Per questo la morte è «sussulto che coglie la cima delle piante», «brivido presente nelle vaste contrade», «trasparente mattino d’una nuova primavera, d’un’altra fiorente primavera che tutte le corona e le rispecchia quando il suo tempo è nel pieno» in cui riecheggia l’incipit famoso de La Terra Desolata di Eliot: «Aprile è il più crudele dei mesi», è «una sfera ardente a cui manca qualcosa del suo fuoco, in cui tace/ una fiamma del suo nucleo, difetta un luccichio, langue un raggio della/ sua luce», «la sfera ben rotonda del sole», «una pianta in fiore che avvince a prima vista» è «strana apparizione: una ragazza viva e cupa, amabile e inquietante, chiara e duplice, distinta e indefinita», «una ragazza inconsueta che un giorno s’incontra, che scruti, che interroghi, che ascolti attentamente, che/ amabilmente e acerbamente ti risponde, che umanamente e amaramente/ ti parla; e da cui nessuno e nulla potrà più allontanarti». Nel parco diventa «quantità considerevole di sorprese: di sobbalzi, di palpiti, di fremiti, di arresti». È «la brezza che spira amabilmente, che accarezza la punta delle fronde», «un sorriso innumerevole», «un granello che si dibatte in aria», «vento che aleggia, che spira, che circola, sfreccia, scorazza per il verde pelago, serpeggia lungo le sporgenze e le rientranze, le rette e i gomiti, le anse e le sinuosità, le giravolte e le torsioni della fitta vegetazione, percorre intrichi di rami, resse d’erbe, grovigli di verzure».
In questo poema che riflette sulla morte Del Rio offre un inno eroico alla oggettività del nullificarsi della vita, raccoglie tutto il fervore dinamico e generatore che la natura possiede e svela nelle sue forme ma per catalizzarlo assurdamente verso il suo nulla. E con le forme canta la fine di ogni cosa come il proliferare più intrinseco della vita medesima, incantando lo spettro della morte con un tripudio chiaro, trasparente, mai ingolfato, mai eccessivo, mai posticcio di immagini naturali e allegorie lussureggianti. Che però rimangono sempre drammaticamente nichiliste. Lo accertano, per contrasto, i tre momenti di respiro non negativo, o di pausa palingenetica, intravisti dal poeta dentro il magma dell’energia distruttiva della morte. Momenti che non eliminano affatto la temperie nichilistica del poema, ma ne sono l’elegiaco, seducente contrappunto. Il primo è quando, dopo il brano che definisce la vita umana come «una stagione che irrompe s’innalza e svetta», vivida di molte linfe, tra cui anche quella intrinseca e sostanziale, ossia la linfa alimentare che sfigura ogni suo volto, influenza patologicamente ogni tratto della sua fisionomia, nel brano seguente si dice che la vita «È un volto suggestivo, è un leggiadro aspetto», passando di slancio dal volto menomato della vita umana al volto di quello che in una zona del parco sembra configurare un locus amoenus che trasporta Del Rio felicemente nel regno della poesia con tutte le caratteristiche che la connotano. Ma questa pausa palingenetica dura solo lo spazio di qualche riga.
Il secondo momento affermativo è racchiuso nei versi: «È un vento illuminato, è un vento ombrato», «È un vento […] che cerca nell’ombra […] un verde vivo nell’oscurità del verde, nell’ombra soppesa frastagli di luce». Il verde vivo cercato è costituito, per dirla con Luzi, da una discesa nell’orto, da un archetipo vegano di matrice orfica che non risolve positivamente il meccanismo biologico, ma che indubbiamente lo alleggerisce sul piano della coscienza. Un terzo momento di pausa è quasi alla fine della prima parte con la sua punteggiatura continua atta ad esprimere quel qualcosa di indicibile che è un momento di serenità.
Differentemente da Mario Luzi la meditazione sulla morte non avviene per allusioni che rimangono indecifrabili nella loro assunzione, ma si esplica, si svolge, ha una sua narrazione. Differentemente da Piero Bigongiari questo svolgimento, questa proceduralità poetica non si chiude nel criptico, nell’autoreferenzialità di un linguaggio ingombrante in cui il poeta sembra parlare più a se stesso per se stesso.
Ma di Bigongiari attua una delle linee programmatiche o conclusive della sua poesia: «né più oltre/ né qui dove con me voi siete nate/ per non morire, se la vita è andare/ più oltre della morte, e ferire/ forse anche la morte, per udire/ nella parola estrema il nuovo inizio». Del Rio riesce proprio in questo intento: ferire la morte nella parola estrema. Ma in lui la parola estrema si sviluppa in discorso invincibile. Alla intensità della parola ermetica lui oppone l’evoluzione ascensionale del ragionamento e della descrizione. E in lui riluce una qualità di visione e di comunicazione del pensiero poetante. E la lettura di questo poema non potrà che accendere l’animo di sussulti e contagiare energie positive, vitali contravvenendo paradossalmente alla missione investigatrice indicata dal titolo.
Come abbiamo già detto la poetica di Del Rio si muove dentro i confini polarizzanti dell’ossimoro visto nella sua sospensione, della dialettica senza risoluzione. Anche la chiusa del poema sulla morte rilancia, nonostante il suo vitalismo, la sostanza incancellabile e palpitante della contraddizione:
È l’apparizione di un mondo confuso, spaesato, impedito, oscurato da un barlume. Di un mondo vivo, fervido, pulsante, vivo delle sue più vive componenti e fuggente da sé, e schivo, e inetto ad accogliere la propria dimensione, la propria situazione, la propria condizione, incapace di venire a termini con il proprio assetto, con il proprio sostanziale equilibrio, con la propria discorde armonia, con la propria sorprendente geometria, di convivere logicamente con la propria logica ragion d’essere.
È l’apparizione di un mondo vario, molteplice, screziato.
Come si vede Del Rio da questo punto di vista non segue la logica dello smarrimento nichilistico, trova la chiusura del cerchio nella sequela della stessa circolarità della condizione umana, sospesa fra due polarità opposte. Attraverso lo sguardo onnicomprensivo di cui è esplicitazione la lirica manifesto Et in Arcadia ego. Con una dialettica rigorosa e tenera, riflessiva ed empatica l’autore scalza lo smarrimento del visibile, del percepito e incalza il presentimento del non dimostrabile, del non argomentabile.
Del Rio non ha alcuna fede da proporre, ma in Perdono a un tratto i giorni si presenta come homo viator che conosce quanto la perdita dei valori spirituali e in particolare di quelli cristiani abbia reso ancora più cocente e lacerante il tentativo di fornire un senso al reale tramite l’arte poetica. Un evangelismo alla Tolstoj anima pienamente la sua meditazione sulla società contemporanea, ma la sua poesia non indulge mai al didascalico deliberato o all’inquinante attitudine moralistica. C’è solo la generale convinzione che la società sia vittima di un processo di autodistruzione dove la minaccia della tragicità della condizione umana e dei conflitti sociali e internazionali si fa sempre più pericolosa e difficile da respingere o neutralizzare.
Del Rio rifugge da ogni salto verso un assoluto illusorio e dal contraccolpo del suo rimando negativo. Non fa propria l’ebbrezza dell’Hölderlin dell’Iperione: «Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo».
Di Hölderlin vivrà solo l’andirivieni continuo tra le polarità della natura e del divino, del visibile e dell’invisibile, dell’immanente e del trascendente, dell’esaltazione conoscitiva e contemplativa e della melanconia autocosciente, del trasalimento e del ripiegamento.
Rispetto all’abbraccio solenne con tutte le cose Del Rio sceglie una prospettiva insieme antica e post-moderna, presocratica e illuministica. Come se il Deus sive Natura di Spinoza e di Goethe fosse totalmente ripreso da Del Rio ma svuotato e decostruito, problematizzato, declinato diversamente in quanto Natura sive Deus, come se la natura stessa fosse luogo paradigmatico di senso che si esprime attraverso gli elementi e i cicli della natura e della vita. E al nostro autore piace molto anche immergersi nel suo contesto: «Natura dinamica… Natura fantasiosa!/ La tua leggiadria, il nostro stupore!/ Il pregio dei luoghi, la virtù dei paesaggi,/ la forza delle immagini ci vince».
C’è in un certo senso un profondo ritorno ad una ispirazione originaria, greca che coglie il metafisico nello stesso gioco di trasformazioni, generazioni, corruzioni, rigenerazioni della natura e delle sue cause fisiche primordiali.
È una poesia che negli elementi coglie di continuo la quinta essenza, quel principio vitale, avvolgente, panico che Jan Amos Komensky segnalava come perno di tutte le metamorfosi della natura e della ricerca dell’alchimia nel suo Labirinto del mondo e paradiso del cuore del 1631.
Non v’è immagine del mondo o successione di elementi naturali che in Del Rio non rimandi alla percezione di una energia originaria presente nelle cose rispecchiata pienamente dal linguaggio poetico capace di coglierne di continuo il carattere contraddittorio, dialettico ma senza la tensione titanica ad una risoluzione di tutte le aporie e di tutti gli inciampi. Il fine della dialettica lirica non è il superamento sistematico delle antinomie alla Hegel, ma un lasciare esprimere la potenzialità del reale in modo da raggiungere il massimo che sia consentito al linguaggio umano di rivelare seguendo la linea dell’Heidegger della svolta metafisica secondo il quale è vero che «Quel che rimane lo istituiscono i poeti» (Hölderlin).
Per Heidegger «l’essenza dell’arte è la Poesia. Ma l’essenza della Poesia è l’instaurazione [Stiftung] della verità».
La poesia dovrebbe riuscire a contemplare talvolta una accensione svelatrice, un kairòs positivo, una disclosure situation. Vi sono tuttavia i momenti felici in cui l’anima si abbandona alla contemplazione e cede alla tentazione di una estasi benefica o della rimozione suggestiva alla Attilio Bertolucci. Come in molte liriche compiute della terza parte del libro. Il battito gemello e la sua esclamazione finale: «Mi rimane l’idea d’una sera felice,/ d’un’intesa ulteriore, d’un approdo speciale./ Mi rimane il barlume d’un incontro armonioso/ quando il cuore si volge a un tuo segno lucente,/ a un tuo cenno lontano, quando torni nei sogni/ a tentarmi, con argomenti non diversi,/ con suggestioni comuni». Brezza e i suoi versi: «ora fiorita/ dai candidi germogli/ dai bisbiglianti aerei petali/ felicità del tempo/ clima ideale/ magica atmosfera cui basta/ un alito per regnare, un tocco/ lieve a far partecipi di sé,/ e un soffio di più per cadere». E ancora in Alle pendici del Monte Bianco, Brume, Presso una sponda dell’Arno in cui Del Rio si rivolge a Petrarca denunciando l’impossibilità attuale di comporre poesie d’amore a causa dell’universale fallimento dei valori affettivi umani, della decadenza del cuore e ricercando la presenza di un dio Amore superstite nell’anima, più che mai presente, causa efficiente della creazione poetica e di questo volume in particolare.
Retaggio segreto confermato pienamente dalla splendida Amico mio, in cui la misura di Del Rio elude il piano del pensiero poetante per dirigersi verso il livello del colloquio nostalgico, colmo di empatia e di rispecchiamenti riusciti verso la vita e le vicissitudini dell’amico sognante la cui meta è cangiante, la cui dimora è instabile, per il quale il poeta resta in attesa di saperlo «alla Mecca in una qualche città,/ là dove insieme pulsano le Rome/ e le Parigi che in te sempre s’inseguono».
Ma a vincere non è questa poetica del varco, dell’«egro spiraglio», di «ariste appena sfrangiate per i colli» per dirla con Zanzotto. E non è neppure per un altro verso quel residuo di speranza che infine rimane vivo davanti alla distruzione dei valori dell’umanità e che incoraggia a credere, nonostante tutto, a un possibile miglioramento dell’uomo, miglioramento possibile e sempre contraddetto, continuamente nullificato dall’umano comportamento dei più. E ciò è particolarmente significato nella poesia Quel filo che preme, là dove il filo della vita umana viene commisurato a un filo d’erba mosso dal vento.
In essa le prime tre strofe costituiscono un climax metafisico. La prima strofa rappresenta il filo della vita sulla terra, della vita di tutti gli esseri che spunta come un filo d’erba, filo arcano che irrompe nella realtà in molteplici forme e dimensioni. Nella seconda strofa il filo della vita umana che alligna dentro lo svolgimento del filo di tutti gli esseri emerge lentamente e poi svetta, ha il suo sviluppo nella terza strofa dove accanto alla positività della vita si fanno tuttavia presenti anche gli aspetti negativi dell’esistenza. E così pure nella quinta strofa l’uomo è visto in senso duplice come «quel filo che balza, che trasale/ al tocco della luce, che si schiara/ come per una fiamma che vi passi,/ quel filo vivo, fervido, ardente, impareggiabile…/ che si stacca dall’ombra all’improvviso,/ come mosso da un fremito e subito/ ripreso da un’ombra intensa». Nella sesta strofa sulla scorta di un residuo di speranza si dice «Ma sei anche quel filo che si avviva/ di tutto il suo fervore, quel filo tutto proteso/ in avanti, […] volto alla ricerca/ di tutto il possibile chiarore». Filo che sempre si protende verso il fine del miglioramento ma che malauguratamente si perde come goccia in un mare nella universale fattispecie del «filo che va e viene, che arretra/ quanto avanza, che sale e mai/ s’espande, mai muta veramente».
Da questa tensione Del Rio estrae uno slancio patetico e riflessivo che lo porta a fare una ricognizione lirica di varie filosofie e utopie che cercano di ridestare e migliorare l’essere umano. Dice a se stesso: sei «quel filo più alto che rifulge [il filo dell’uomo cristiano]/ su quel filo infinito che scompare» perché tutti gli altri esseri, tutti gli altri fili della vita diversi dall’uomo secondo le concezioni cristiane gli sono completamente asserviti, ossia sono totalmente strumentali per l’uomo; «sei quel filo più ardito che veleggia/ nella verde ebbrezza» (il filo degli stoici, che continuano imperterriti a navigare come se nulla fosse avvenuto); «sei quel filo flessuoso/ che si tuffa nello scuro flutto» (il filo dei nichilisti, quelli totali).
Del Rio e l’essere umano che gli è sintonico, simpatetico si ritrovano ad essere quel filo esiguo, tremulo (vacillante), madido (lacrimoso), perduto in una selva d’erba (la selva statica costituita dai soggetti precedenti: il cristiano, lo stoico, il nichilista).
Nella sua sintesi Del Rio ha già introiettato l’elemento dell’apertura nella vita ribollente, in un procedere avvolgente in cui il reale si «riascolta in ogni sua fibra e vena» in cui le varie facce del prisma sono già previste da un unico sguardo anticipatore, dalla premessa della totalità più volte esplicitata da Del Rio sia ne La morte sia in Et in Arcadia ego dove leggiamo questo incipit: «in uno sguardo abbracciare, uno sguardo spazioso, circolare, onnicomprensivo, come solo il cielo potrebbe… Come neppure il cielo… Uno sguardo circolare, esauriente, unificante».
Così come leggiamo in una strofa del poemetto La morte:
È un mattino in cui la terra è più viva, la natura più vicina, la vita più intensa. In cui il respiro, il pensiero, lo sguardo si risvegliano, si rinnovano e si espandono, crescono e si riconfigurano, in cui la vita tutta nel suo ridestarsi, nel suo riaffluire e risollevarsi, nel suo ricolmarsi e rieffondersi si volge e si cerca da ogni parte, si esplora e si riavverte per intero, ovunque si riosserva e si riascolta in ogni sua fibra e vena.
È un riappressarsi di luci e ombre, è un affiancarsi delle immagini, un rincorrersi di suoni e voci, è un fitto succedersi di aspetti. È un coesistere, un implicarsi, un apparire delle cose da più lati.
O ancora nei versi di Presso una sponda dell’Arno:
Ma il moto ridestato, ma l’eco vivamente rinnovato
un battito soltanto replicò.
Emblematico a questo proposito Et in Arcadia ego, vasto poema che segna la seconda parte del volume che ci presenta una visione inedita dello scenario teocriteo riprendendo il senso originario di questo verso, presente nella lirica Resignation di Schiller ed epigrafe del Viaggio in Italia di Goethe. La scritta è presente in un dipinto del Guercino del 1618 dove la Morte appare sotto forma di teschio a due pastori che fino a quel momento vivevano nel disincanto ininterrotto della felice terra d’Arcadia. Appare anche come iscrizione della tomba attorno a cui si ritrovano I pastori dell’Arcadia di Nicolas Poussin. Nell’accezione greco-latina Paradiso terrestre, Eden pastorale, mondo idilliaco dove l’uomo si ritrova a vivere nella pienezza le sue prerogative più genuine e naturali. Nell’accezione più moderna invece Paradiso perduto, età dell’oro irreversibilmente compromessa come viene intesa nel poema Arcadia di Jacopo Sannazaro che vede nell’Arcadia il mondo scomparso della felicità perfetta che solo l’arte può far rivivere come una memoria lontana, come una nostalgia enigmatica ed elusiva del presente.
Ma cosa vuol dire Et in Arcadia ego? La frase è un vero e proprio mistero di cui Del Rio ha compreso il significato occulto, iniziatico. A prima vista sembrerebbe indicare l’appartenenza al mondo perduto. Suonerebbe come una esclamazione del tipo «Anche io abitavo l’Arcadia», anche io ero parte di quel mondo fatato di cigni e di ninfe. Ma in realtà suona come una allusione alla Morte incombente, onnipotente, vittorioso sterminatore dell’Arcadia. In realtà la frase non esprime solo un sospiro di nostalgia, ma una condizione irreversibile dell’esistenza. Non dice che la persona era parte dell’Arcadia e ora appartiene al mondo dell’Ade, ma dice, più in generale, che l’essere umano non appartiene più ad un Paradiso perduto del quale non si ha più memoria e notizia. Non è un semplice memento mori, un epitaffio funebre. È una sentenza sulla realtà metafisica dell’uomo.
Lasciamo stare in questa sede la teoria elaborata nel libro The Tomb of God da Richard Andrews e Paul Schellenberger secondo cui Et in Arcadia ego sum sarebbe anagramma di Arcam Dei Tango Iesu, che dovrebbe significare “Io tocco la tomba di Dio-gesù”. Una versione in cui la filologia si mischia a scenari noir alla Dan Brown il quale, non a caso, utilizza la seconda versione del dipinto di Poussin nel Codice da Vinci.
Per Del Rio la tematica dell’Arcadia riflette una temperie metafisica rinascimentale più che greco-latina. Anche il Canto di Dafni e il Canto di Menalca ripropongono i motivi teocritei per svilupparli in una maniera assolutamente moderna.
Il lungo componimento Et in Arcadia Ego costituisce da solo tutta la seconda parte di Va pensiero. Ricognizioni.
Del Rio vi riversa tutta la sua riflessione sulla crisi della nostra epoca.
Soprattutto la constatazione della decadenza del cuore di cui abbiamo parlato e della mercificazione dei rapporti affettivi, della caduta dei valori relazionali con la concomitante riduzione dell’amore a qualcosa di più basso dello stesso eros cioè al rapporto fisico-sessuale. In questa prospettiva ha un valore simbolico la scelta del singolo colore e delle sequenze ad esso dedicate. Il “giallo” richiama un passo di Plutarco e la sua sequenza contiene un velato riferimento all’orgasmo sessuale. Soprattutto nel suo ritmo incalzante sostenuto dalla figura dell’elenco di elementi del regno vegetale dalla primula veris all’euforbia, dall’elicriso all’iris pseudacorus, al verbascum olimpicum, al ranuncolo di prato. Vasta campata sinfonica, questo intermezzo si realizza ad imitazione del Bolero di Ravel, con il suo continuo tambureggiare e le sue ripetizioni dislocate in un graduale crescendo. Mimesi di un amplesso naturalistico e metaforico riecheggiante i contenuti panici della poesia dannunziana. Capace di superare la trattazione lirica del tema sessuale, con slanci che vanno verso una comprensione del duplice opposto movimento di godimento e di ritorno all’amarezza dell’uomo che esperimenta l’amplesso.
«O fervido senso del bello, come nudo a un tratto ti mostri, come ristai disincantato, come ti collochi indefinito alla luce di un momento di riflessione!» esclama il poeta prima di cantare la tristezza e la melanconia dell’«omne animal triste post coitum».
Si passa poi al colore “rosso” simbolo di ciò che resta genuino nei rapporti amorosi. Autenticità di cui l’Arcadia è luogo e simbolo per eccellenza. Il rosso è «il sole ineguagliato […] il sole incontrastato, è il sole immacolato, senza nubi né foschia», «il sole della sera quando tutto riappare per incanto, quando Tutto… ritorna sui colli ombrosi d’Arcadia in un istante d’insolita gaiezza, di straordinaria animazione, d’ineffabile totalità».
La parte centrale di Et in Arcadia ego, intitolata Qualcosa di verde o di bruno?, si ambienta in una antica foresta, allusione alla selva oscura dantesca, in cui le piante sono riprese come archetipi della forma umana sulla falsariga dell’analogia di Platone. Vari sono i riferimenti ad un paesaggio naturale di caratura metafisica dove «talora un murmure percorre la foresta» e «talaltra, nel silenzio, uno zirlo dall’alto/ delle piante, garrulo, argentino, inneggiante all’Arcadia e al suo dio».
Lo zirlo è il verso del tordo, ossia del grasso poeta che inneggia all’Arcadia e al suo dio.
Del Rio riferisce un duplice piano della significazione di questa parte centrale del poema. Il riferimento secondo, ma cruciale sarebbe al dio denaro rappresentato dal dio dell’Arcadia Mercurio. E le «piante ampie e folte» che crescono nel bosco sono una allegoria delle multinazionali viste naturalisticamente come «masse egemoni» dalle «compagini soverchianti». E anche il colore rosso si presterebbe ad un rovesciamento simbolico. Dalla connotazione della dimensione autentica e spirituale a quella dell’aberrazione politica delle dittature comuniste.
Da qui un richiamo filantropico alle masse di popolazione povera vittime del sistema globale e l’inizio di un sentiero, quello tracciato dalla figura “leggendaria” di Gesù Cristo, «un sentiero del tutto speciale» perché intravisto e percorso da un non credente, che sulla scia di Tolstoj, Gandhi, Albert Schweitzer, Dorothy Day, Dag Hammarskjöld, non può restare indifferente ai contenuti del Vangelo, in particolare al Sermone della Montagna, alla opzione per la giustizia e l’amore universali.
Del Rio poetizza sia l’avvento che la caduta del cristianesimo. Il primo è richiamato biblicamente riprendendo il primo Libro dei Re da «un soffio leggero, un dolce sussurro, un vento carezzevole». Poi «la brezza s’acquieta». Il poeta deve tematizzare il crollo delle certezze, la morte di Dio.
E in questo sembra fare suo il mandato arcano attribuito alla poesia dal destino fallimentare del pensiero e della fede razionalmente fondati. Sembra di sentire riecheggiare lo Heidegger della svolta metafisica: «e perché i poeti nel tempo della povertà?», chiede l’elegia di Hölderlin Pane e vino. Oggi comprendiamo a stento la domanda. Come potremo intendere la risposta che Hölderlin dà? «Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla “mancanza di Dio”. […] La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora.
Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero».
In Del Rio l’assenza di Dio è rielaborata in modo totalmente diverso da Hölderlin. Ne è prova la lirica Alle pendici dell’Everest definita da Del Rio «un appello a Dio, a quel Dio presente anche negli atei (come il sottoscritto), a quel Dio di giustizia che tutti gli uomini portano con sé nella propria coscienza, affinché non abbassi mai la guardia».
Per il non credente Del Rio il pensiero poetante riesce a portare alla considerazione di una necessità labile della presenza di Dio avvertita come garanzia metafisica del primato dei valori e dello spirituale sulla banalizzazione della materialità e la dittatura del potere e del denaro. È un Dio che emerge nella crisi della polis e non solo dai bisogni romantici della contemplazione. È fondamento della giustizia sociale e garanzia della bellezza della natura e della autenticità dell’essere umano.
Ma, come in Heidegger, il sentiero speciale verso Dio, il sentiero di cristo è un Holzweg, sentiero interrotto. Al termine di questo percorso la foresta richiama il poeta. Lo sospinge nella parte più fitta della foresta, nel luogo cupo e cieco dove si prefigura una profetica paura del poeta.
L’incombenza della deflagrazione, del flagello della guerra. Un timore che appartiene alla contingenza, ma che in generale è una costante di una poesia in cui la dimensione della opposizione e dell’ossimoro è vista come costitutiva della realtà.
Ma con la stessa possibilità di condurre all’armonia e al caos.
Una paura che è sintomo di un’ansia metafisica laconicamente descritta nei versi di un breve, ma paradigmatico e prefigurale componimento. Il pescatore simboleggia la figura di cristo di cui Del Rio subisce laicamente il fascino. Come abbiamo detto si tratta di una folgorazione tolstojana e gandhiana per la componente umana in senso pieno del Profeta della Palestina. Umanità in senso pieno, filantropia universale che è per Del Rio un valore irrinunciabile della civiltà e di cui egli ha cantato melanconicamente la crisi nel poema sulla morte.
La poesia è uno scrigno piccolo ma pregno di simboli preziosi. La barca ha vele pretenziose, sproporzionate allo scafo come le aspirazioni e i valori del Messia. La fenditura sul lato sinistro richiama la lacerazione del cuore in cui viene riassunta tutta la dottrina cristocentrica dell’amore. In quella ferita si vede penetrare il flusso di un altro avvento, di un’altra civiltà, un’altra temperie. Del Rio è consapevole che l’altissimo profilo dell’annuncio cristiano ha posto l’umanità davanti allo scenario tragico di una amara consapevolezza, contribuendo ad un processo di sensibilizzazione dell’uomo verso la miseria e la tristezza della condizione del mondo. Come se, per contrasto, l’esemplarità del Messia abbia reso ancora più spinosa la realtà dentro cui ci ritroviamo «gettati» per dirla con Heidegger. La nobiltà dell’annuncio cristiano ha reso ancora più cocente lo stato della nostra deiezione nella cieca dimensione dell’immanenza:
Il pescatore aveva grandi mire
e un punto scoperto, la barca
vele maestose e una fenditura
sul lato sinistro. Da quella falla
entrò il mare.
Renato Minore
(direfarescrivere, anno IX, n. 92, agosto 2013) |