La lettura a ritroso di un albero genealogico è un processo tutt’altro che facile. E a volte persino doloroso, specie quando un ramo si spezza, scalfito dagli anni e dal peso di un’esistenza fatta di silenzi e sacrifici. I cerchi concentrici del vecchio tronco rivelano le sofferenze dell’età, ma al contempo formano un disegno a spirale che richiama l’infinito: dimensione senza tempo in cui tutto gravita sospeso e due persone, madre e figlia, possono intraprendere un dialogo mai iniziato.
«Le storie di famiglia vanno recuperate e narrate perché non si perdano nell’anonimato, per comprendere meglio il nostro oggi di donne, per rivolgere al futuro uno sguardo profondo e consapevole». Parole di Ida Nucera, che nel suo libro autobiografico, La casa dell’assenza (Città del sole, pp. 104, € 12,00), traspone con intensità la propria storia di figlia alla ricerca di una madre perduta e mai conosciuta a fondo, ma ritrovata nell’atto terapeutico della scrittura.
Riscrivere la propria identità di figlia rileggendo il passato
L’autrice, giornalista pubblicista attenta alle questioni spirituali, intraprende con sincerità e coraggio una conversazione con colei che l’ha generata. L’impresa porterà alla luce angosce, paure e desideri sedimentati e mai venuti a galla, ma sarà l’unico rimedio per aprire uno spiraglio risolutivo su un tormentato rapporto familiare.
La scoperta postuma di alcune lettere, scritte dalla madre, proietta l’autrice in un cosmo interiore tutto da scandagliare, in cui orbitano come satelliti varie figure femminili, tasselli fondamentali per la costruzione della propria identità. E allora scrivere si rivela la migliore risposta a quella madre che, per pudore o sorprendente lungimiranza, ha voluto che quella busta gialla fosse aperta solo alla sua morte.
Alle radici dei conflitti familiari
Protagonista del libro è il femminile, che risalta con potenza in ogni sua sfaccettatura. Ne è un simbolo Marcella, la madre dell’autrice, donna fragile e forte al tempo stesso: una breve decadenza consumata con lucidità, una diagnosi di Alzheimer smentita dal tempo, ma soprattutto un’altra figlia, Giusi, da proteggere dai mali del mondo poiché down. Le lettere riecheggiano la preoccupazione per il destino della secondogenita con la quale ha instaurato una simbiosi unica e viscerale. «Ci sono alfabeti segreti tra una madre e un figlio che neanche sappiamo immaginare, che tracciano relazioni straordinarie, intessute di sentimenti, emozioni, sguardi e aprono a scelte coraggiose».
L’autrice rilegge anche il rapporto tra Marcella e sua madre, la nonna di Ida. Un rapporto complice, minato però dal fantasma del non detto, frutto di un certo perbenismo dell’epoca. Vittima di un padre autoritario e di una società repressiva, Marcella ha trasmesso i suoi timori anche a Ida, diventando iperprotettiva e rischiando di soffocarla. Proprio per questo il rapporto tra l’autrice e la madre è stato perennemente segnato da incomprensioni. Diverse per carattere e stile di vita, la frattura definitiva è avvenuta dopo l’adolescenza, quando Ida è andata via di casa, affetta dalla «sindrome del figliol prodigo». La scrittrice ammette: «Dovevo distinguermi da te per trovare me stessa. Per provare che ero diversa. Poco importa se si parte per un viaggio lunghissimo dentro se stessi, dissipando l’eredità ricevuta, per poi ritrovarsi al punto di salvezza a fare i conti, con l’altra parte di sé, il fratello che, per paura, era rimasto a casa».
Questo senso di distacco dalla figura materna trova la sua origine in un conflitto primordiale, un trauma avvenuto in culla. La sensazione di abbandono continuerà a tormentare Ida fino a quando non farà pace con la sua “mamma” interiore, accogliendola in se stessa. Arriverà così a scoprire, tra le righe dell’ultima lettera, una verità liberatoria: Marcella l’ha sempre amata per quella che era e ha sempre creduto in lei, al punto da affidarle la sorella Giusi.
Echi metafisici
Lungi dal seguire una trama lineare, il libro si avventura sui binari del libero flusso di coscienza, riportando esperienze per lo più introiettate, macerate lentamente nel profondo dell’anima. Non ci sono spettatori, è un «viaggio dentro se stessi» che porta fino alle radici di quell’albero genealogico vibrante di conflitti irrisolti. Un viaggio nell’archetipo della Madre, creatura che dà la vita, ombra onnipresente con la quale ogni donna, prima o poi, deve fare i conti.
La scrittura di Nucera, profonda e meditativa, si avvale di preziosi “compagni di viaggio” che introducono ogni capitolo con le loro poesie e riflessioni: Madeleine Delbrêl, Emily Dickinson, Robert Fulghum, Pablo Neruda, Wallace Stevens, Pier Vittorio Tondelli. Voci che parlano di oblio, assenza, morte, le cosiddette tematiche tabù, che invece, nel testo di Nucera, si rivestono di un’essenza metafisica: traspare, nelle pagine, una concezione della vita che non si limita all’accettazione dei fatti terreni, ma li trascende, intravedendo un «filo invisibile» in ogni evento. Ed è proprio questa consapevolezza che, in uno slancio liberatorio, permette alle lacrime di fluire di nuovo e al cuore di celebrare la riconciliazione spirituale tra una madre e una figlia.
Angela Patrono
(direfarescrivere, anno IX, n. 91, luglio 2013) |