Anno XX, n. 220
maggio 2024
 
In primo piano
Una storia d’amore, di morte e di guerra
nella Colombia dei gruppi paramilitari
Il conflitto interiore di un ragazzo-soldato, tra violenza e umanità,
in un romanzo di prossima pubblicazione edito da Città del sole
di Erika Casali
Qualcuno la chiama guerra civile, per altri invece si tratta di terrorismo; è la condizione quotidiana in cui vivono uomini e donne in Colombia, terra di contraddizioni e di profonde differenze, prima di tutto geografiche, che caratterizzano tutto il paese. Dagli anni Sessanta esiste laggiù un movimento chiamato Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), un’organizzazione guerrigliera comunista che ha sempre considerato la resistenza e la lotta armata come uniche strade possibili per portare il cambiamento e le riforme strutturali che la popolazione chiede. Il suo scopo è quello di sovvertire l’ordinamento statale colombiano per instaurare una democrazia popolare socialista. Negli anni Novanta oltre alle Farc e all’esercito regolare governativo, esistevano altre forme di guerriglia organizzata come l’Eln (Esercito di liberazione nazionale) e l’Auc (Unità di autodifesa della Colombia) che raggruppava molti altri schieramenti paramilitari in difesa di ideologie diverse tese, tutte, a proteggere l’economia e la società colombiana.
Ho imparato a uccidere a vent’anni, scritto da Luca Giuman, (Città del sole edizioni, pp. 440, € 14,50), funzionario dell’Onu in America Latina, è una storia di guerriglia e allo stesso tempo di profonda umanità.

I conflitti del combattente
Sebastián è un ragazzo giovane che conosce la tragedia della perdita familiare per mano delle Farc; questo lo porta ad arruolarsi in un movimento paramilitare chiamato Accu (Autodifesa contadina di Córdoba e Urabà), un’esperienza che lo farà cambiare profondamente e lo trasformerà in un combattente e in un carnefice, figure molto lontane da quelle del paese di pescatori in cui era nato e cresciuto. Attraverso gli spostamenti del gruppo armato in cui si inserisce Sebastián, l’autore è in grado di mostrarci la Colombia e i suoi abitanti; benché si tratti di una storia di guerriglia, la selva, il mare caraibico e le Ande sono sempre presenti.
Questo è un romanzo che non ha nulla di fantastico, in cui si racconta la Colombia degli anni Novanta, la cui immagine è spesso associata al narcotraffico e alla guerriglia. Quello che non è mai stato raccontato è invece la storia dei giovani reclutati spesso per forza, ma altre volte semplicemente perché per loro non esisteva nessun’altra scelta possibile. Così come cita la quarta di copertina: «Mentre il governo combatteva e intavolava dialoghi altalenanti con le guerriglie rivoluzionarie del paese, tra le foreste delle Ande, l’oligarchia colombiana, i latifondisti, i narcotrafficanti, le multinazionali, l’esercito e gli uomini dei servizi d’intelligence, costruivano eserciti paramilitari per usarli come mano oscura dello stato, reclutando ragazzi come il protagonista di questa storia.» A volte anche più giovani: nel libro compare la figura di un disertore ancora adolescente, arruolato nelle Farc addirittura all’età di undici anni.
Sebastián combatte delle dure battaglie interiori, cerca di convincersi che sta facendo la cosa giusta ammazzando le persone che fanno parte delle Farc e anche chi dà loro aiuto e riparo. Non riesce mai, fino alla fine della storia, ad arrendersi completamente alla violenza e dimostra in più occasioni quanto sia duro per lui uccidere un essere umano. Ogni morte lo colpisce profondamente tanto che ogni volta stenta a recuperare la freddezza e il controllo necessari a un componente delle Accu.
Per stare tranquillo e mettersi in pace la coscienza, ripete costantemente a se stesso quali sono i principi portati avanti dal movimento in cui crede, e cerca di convincersi che non esiste una strada diversa da quella che stanno seguendo lui e i suoi compagni. Si chiede molto spesso se uccidere sia la via giusta o se li renda come i componenti delle Farc. Troverà una risposta a questa domanda?

La bellezza cruenta della Colombia
La prima volta che Sebastián uccide rimane completamente sconvolto, soprattutto dalla freddezza che lo prende prima di premere il grilletto e con cui dovrà saper convivere: «Ho imparato a uccidere a vent’anni, così come si apprende un mestiere amaro e complicato. Non pensavo che poteva fare tanto male e non potevo sapere che ci avrebbero fatto fare cose tanto sporche. Io non volevo proprio uccidere questa notte. Il mio dio sa che non volevo ammazzare quel ragazzo.»
I conflitti che continuano ad imperversare sulla terra colombiana ormai da più di vent’anni, sono davvero più simili a una guerra civile che non alle azioni di un gruppo di guerriglieri.
I risultati di tutta questa violenza sono evidenti negli sfollamenti forzati di milioni di persone che si trovano impossibilitate a continuare a vivere nei propri paesi, designati come campi di battaglia e punti strategici nel mirino dei vari gruppi paramilitari e per questo assediati.
Il governo fino ad ora non è stato capace di garantire la verità e la giustizia ma soprattutto non ha saputo assicurare una condizione di vita degna alle vittime del conflitto. Ma chi beneficia realmente di questo stato di guerra? Chi sono i veri responsabili di tutte queste morti che insanguinano la Colombia e la rendono un paese pericoloso? Sono davvero i combattenti delle varie fazioni? Come al solito il disegno viene da sfere più alte e, come succede quasi sempre in questo tipo di conflitti, chi ci rimette è la popolazione civile, mentre ne traggono benefici i narcotrafficanti, gli oligarchi e i politici in generale.

Un messaggio di forza e di speranza
Per ricevere l’appoggio degli abitanti delle zone rurali e delle città colombiane, le varie formazioni paramilitari si dedicavano alla pratica comune della “pulizia sociale”, attraverso esecuzioni extragiudiziali dei soggetti considerati irrecuperabili: questa era una delle forme di propaganda politica maggiormente utilizzata e di impatto più forte per dimostrare alla popolazione il dominio dei vari gruppi illegali.
Il messaggio che l’autore vuole consegnare al lettore, però, non è solo di sangue e di guerra ma anche di forza e di speranza: «Il sole sorge sempre in Colombia» scrive Giuman, «anche se le nuvole lo ricoprono, non esiste tristezza che lo riesca a svilire. La sua luce è più forte, la vita è sempre più forte.»
Luca Giuman, che lavora da diversi anni in Ecuador, Cile, Colombia e Honduras, inizialmente impegnato come volontario e poi come coordinatore di progetti finanziati dall’Unione Europea, dimostra di conoscere molto bene e da vicino le problematiche di un paese in pieno conflitto civile e vittima di una guerra sporca.
Per contrastare tutta questa violenza, l’irresistibile vitalità e l’ironia dei colombiani spicca allusiva in ogni dialogo, in cui compaiono spesso espressioni e parole tipiche della lingua spagnola parlata in Colombia.
La storia di Sebastián è raccontata attraverso una prosa essenziale, concreta e realista che fa emergere la dura quotidianità della condizione dei giovani combattenti dei gruppi paramilitari. La vita, come la morte, è protagonista assoluta del libro, in una lotta all’ultimo sangue dagli equilibri molto precari che ci tiene con il fiato sospeso fino all’ultima pagina.

Erika Casali

(direfarescrivere, anno VII, n. 66, giugno 2011)
 
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