Anno XX, n. 220
maggio 2024
 
In primo piano
Sulla democrazia del terzo millennio:
analisi critica e metodo di decodifica
Edito da Rubbettino, un accurato saggio di Mario Caligiuri
che indaga il legame tra politica, educazione e informazione
di Guglielmo Colombero
Si può dire che di formazione delle élite si siano interessati i pensatori di ogni epoca: da Senofonte, che nella Ciropedia incarnava nella figura di Ciro l’ideale del principe perfetto, ad Aristotele, educatore enciclopedico e multiculturale di Alessandro il Grande; da Plutarco, che nell’Ad principem ineruditum esprime l’esigenza di indirizzare le decisioni dei governanti verso il bene comune, ad Agostino da Ippona, che stigmatizza il potere corrotto con la massima Remota iustitia, quid sunt regna, nisi magna latrocinia? [1] da Machiavelli, che ne Il principe esorta l’aspirante sovrano a ispirarsi ai grandi esempi del passato, a Erasmo da Rotterdam, che nell’Institutio principis cristiani elenca le letture da proporre al principe in età giovanile, per alimentare la sua crescita intellettuale e gettare le fondamenta del suo futuro di monarca saggio e capace; da Rousseau, fautore nell’Émile ou de l'éducation di una pedagogia intesa come libero e naturale sviluppo delle proprie facoltà, a Jung, che in Wotan, scavando nella psicologia di massa, individua nel più frustrato e diseducato dei futuri leader – Adolf Hitler – la cartina di tornasole dell’inconscio collettivo dei tedeschi, i quali lo seguono fino al crollo apocalittico, il Götterdämmerung del Terzo Reich, totalmente digiuni di pensiero critico.
Su questo solco si immette Mario Caligiuri, docente di Pedagogia della Comunicazione all’Università “La Sapienza” di Roma, dal 1985 sindaco di Soveria Mannelli (Cz) e da qualche mese assessore alla Cultura della Regione Calabria, autore di numerose monografie: Partiti e società (Rubbettino, 1994), Lineamenti di comunicazione pubblica (Rubbettino, 1997), Soveria.it. Un laboratorio telematico europeo (Rubbettino, 2001), Stato e marketing. Comunicazione pubblica e formazione della leadership (Rubbettino, 2004), Breve storia di Soveria Mannelli (Città Calabria, 2004), Storia insolita della Calabria (Newton Compton, 2005), Comunicazione pubblica, formazione e democrazia (Rubbettino, 2005), Senza attendere. Ricerca, educazione e democrazia (Rubbettino, 2006), Prove tecniche di democrazia. Il progetto educativo di John Dewey in Turchia (Rubbettino, 2007). Nella sua più recente fatica, La formazione delle élite. Una pedagogia per la democrazia (Rubbettino, 2008, pp. 256, € 14,00), Caligiuri indaga a fondo sul legame, da lui stesso definito «complesso e magmatico», tra crisi della democrazia e sistema educativo.

Cellule sane della democrazia o cittadini del caos?
Nel primo capitolo, Controllare chi comanda: il problema della democrazia tra rischio e incertezza, l’autore si riallaccia al pensiero di John Dewey (1859-1952) – filosofo e pedagogista americano fautore della pianificazione sociale dello sviluppo economico, del pluralismo culturale come supporto indispensabile della democrazia e del pensiero indipendente come pilastro della libertà in antitesi rispetto al pensiero unico dell’indottrinamento totalitario – per elaborare alcune riflessioni sul rapporto tra educazione e democrazia e sull’importanza della comunicazione pubblica al fine di controllare l’operato dei governanti.
Il nodo cruciale del discorso risiede nell’educazione al pensiero critico: le strutture formative devono «elevare la possibilità di crescita delle persone, per metterle in condizione di assumere scelte sociali nel proprio interesse» e da esse «scaturisce la comprensione del metodo e l’acquisizione degli strumenti critici». Ne deriva che è assolutamente «prioritaria la fase dell’educazione come premessa per ogni comportamento che ponga al centro gli effettivi bisogni e i valori della persona».
Altro concetto fondamentale è quello di comunicazione pubblica: per Dewey «il compito principale di un sistema democratico è quello di consentire all’uomo comune di diventare “un cittadino ben informato”. Ne consegue che la comunicazione pubblica potrebbe diventare l’elemento sostanziale per un più concreto esercizio della democrazia». A questo proposito è citato il primo esempio storico di propaganda statale: la Commissione per l’informazione pubblica, che intraprese uno sforzo massiccio, impiegando ogni mezzo di comunicazione disponibile, al fine di orientare l’opinione pubblica americana in senso favorevole all’intervento nella Prima guerra mondiale.
Considerato quindi che una libera e corretta informazione consente ai cittadini di analizzare criticamente la realtà, si pone lo spinoso problema di come controllare, attraverso una rielaborazione delle informazioni ricevute, i detentori del potere politico. In altri termini, quelli che comandano, che decidono.
«Il secolo scorso è stato caratterizzato dal crollo delle certezze, conseguenza dell’inadeguatezza del modello scientifico, definito da Cartesio, Galileo e Newton.» – puntualizza l’autore – «Dalla seconda metà del Novecento, per cercare di fronteggiare l’assenza delle certezze, si è sviluppato il concetto di complessità», per cui, non essendo le nuove problematiche che ne conseguono facilmente risolvibili, «il sistema democratico presenta crepe vistose, esprimendo una classe dirigente di non elevato profilo, che richiama in modo diretto il tema della formazione delle élite».

La solitudine ipertecnologica del «cittadino globale»
Nel secondo capitolo, L’esercizio della democrazia e i suoi limiti, vengono analizzati i limiti del processo democratico, e il focus si concentra sulle «conseguenze di un potere occulto, che utilizza i processi democratici per preservare il beneficio di pochi». A questo proposito l’autore si ricollega al pensiero del linguista e teorico della comunicazione Noam Chomsky, secondo il quale «le scuole hanno sempre, nella storia, giocato un ruolo istituzionale in un sistema di controllo e coercizione. Una volta che si è istruiti, si è già plasmati socialmente in maniera da sostenere le strutture del potere che, in cambio, ricompensa immediatamente» (Democrazia e istruzione. Non c’è libertà senza educazione, Edup, Roma 2008)
Nel contesto della pubblica amministrazione, rivestono un ruolo fondamentale le fonti di informazione, sia nel momento in cui le informazioni vengono acquisite («è decisivo assumere informazioni per assolvere istituzionalmente alla propria funzione; per operare in modo professionale; per essere in grado di trasmetterle verso l’interno ai politici e verso l’esterno ai media»), sia quando vengono diffuse verso l’esterno (l’autore sottolinea l’emersione di un fenomeno allarmante come «la produzione di ipercomunicazione per coprire l’inefficienza dei pubblici servizi, in modo da rassicurare e produrre un effetto immagine distante dalla realtà»).
Quale il legame unisce comunicazione amministrativa ed esercizio della democrazia? Lo scenario «è contrassegnato dall’enorme quantità di informazione che, invece di aumentare le capacità critiche delle persone, tende a confondere e a sedurre».
Su tale problematica s’innesta la questione del linguaggio da adottare nel flusso delle comunicazioni dalle istituzioni verso il cittadino: è possibile semplificarlo e renderlo più fruibile?
Le risposte provengono da due distinte scuole di pensiero: quella che ritiene la semplificazione tout court assolutamente indispensabile e quella che invece considera il linguaggio burocratico una salvaguardia della democrazia, per cui [“ragion per cui”] punta a snellirlo, ma non a cancellarlo. Una riflessione particolarmente stimolante concerne la cosiddetta solitudine del cittadino globale: «la società dell’informazione può comportare una più sottile solitudine unitamente a una maggiore libertà e consapevolezza dei propri diritti, quando non si agisce da individui isolati ma come parte integrante di una comunità. Ricercare e individuare un punto di equilibrio tra tendenze opposte, che del resto convivono, diventa necessario di fronte ai drammatici problemi che investono il pianeta: dalla bomba demografica alla carenza di acqua, dal controllo delle fonti energetiche al fondamentalismo religioso, dalla concentrazione dei media al consumismo, dal terrorismo alla proliferazione delle armi di distruzione di massa, dall’inquinamento ai genocidi, dalla criminalità planetaria all’insufficienza dei sistemi politici».
Saldare l’evoluzione tecnologica, che rende più rapida e capillare la comunicazione, con una crescita culturale e personale del cittadino favorita da un recupero delle tradizioni comunitarie e solidaristiche costituirebbe senza dubbio un enorme passo in avanti nella giusta direzione, per cui l’analisi di Caligiuri appare sotto questo profilo ampiamente condivisibile. A questo punto sorge spontanea una domanda: «i messaggi forgiano il modo di pensare delle persone, lo influenzano semplicemente o non incidono affatto?».
Se, come sostiene il linguista Raffaele Simone, una prima fase della conoscenza coincise con l’invenzione della scrittura (che liberò la memoria individuale e collettiva dal peso di una mole immensa di dati, in precedenza trasmessi unicamente per via orale, con la mente umana che fungeva da contenitore) e una seconda fase con l’invenzione della stampa (che permise la riproduzione e la divulgazione della conoscenza), ci troviamo sulla soglia di una terza fase dai contorni non ancora ben definiti. Attualmente le informazioni non solo si leggono, ma si sentono (dai cellulari e dai media auditivi di ultima generazione come gli iPod) e si vedono (sugli schermi televisivi e sui monitor dei pc). Per Simone il calo della lettura di libri e quotidiani, purtroppo, rivela un contestuale decremento dell’intelligenza, di quella che il politologo Giovanni Sartori definisce “capacità di astraente”.
Uno degli esiti potenzialmente più destabilizzanti, secondo l’autore, consiste nel fatto che «le nozioni impartite dalla scuola risultano fortemente disarmoniche rispetto alla cultura espressa dai giovani». Per cui questa «solitudine del cittadino globale in un certo senso è certificata, ampliata e prolungata dalla scuola, e in modo diverso dalla famiglia, sempre meno nucleare e stabile, oltre che dai media, dotati di un ruolo polivalente simboleggiato da chat, blog, telefonini, Second life e youtube. I giovani sono spinti a fare affidamento soprattutto su se stessi per la propria autorealizzazione, identificata quasi sempre con il denaro, che rappresenta il modello proposto dai media in modo ossessivo».
Le conclusioni che ne scaturiscono sono inquietanti: «la democrazia elettronica oggi potrebbe rappresentare un altro elemento di estraneamento e di sensazione di inutilità, in quanto la partecipazione viene interpretata come condizione formale e non sostanziale, per dimostrare che i cittadini votano e prendono parte al dibattito politico pensando ad altro». E ancora, sul versante dei pubblici poteri: «le classi dirigenti si stanno via via isolando dalle comunità che dovrebbero invece governare, difendendo i propri privilegi e creandosi spazi di autonomia, come le scuole, sanità private e previdenza alternativa, senza dipendere dunque dal settore pubblico per i servizi essenziali. Tutto questo indebolisce ancora di più la democrazia, poiché le classi dirigenti, comprese quelle politiche, sembrano vivere in una realtà a sé stante».
Quali ricette propone l’autore per scongiurare il rischio di una vera e propria implosione del sistema democratico occidentale?
L’indispensabile premessa risiede nel fatto che «il pensiero critico e le capacità cognitive si sviluppano, come si è visto, attraverso l’esercizio della lettura, che viene sempre più sostituita dalle immagini, tramite le quali si ritiene di comprendere pienamente la realtà». Per cui, come scriveva Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano, le biblioteche dovrebbero recuperare la loro insostituibile funzione di “ospedali dell’anima”. Da qui, gli ingredienti basilari per l’antidoto alla decomposizione del tessuto connettivo della democrazia: «Occorre comprendere le dinamiche e tentare di analizzare i fenomeni in modo scientifico. In un contesto sempre più fluido, si conferma l’importanza del processo di educazione alla democrazia e della formazione della classe dirigente. Senza questi due presupposti, la democrazia è simile a una scatola vuota, riducendosi esclusivamente a un puro meccanismo elettorale, condizionato da poche persone e indirizzato a loro prevalente beneficio, con il sostegno decisivo del sistema mediatico che, spesso scientemente, riduce il livello di comprensione della realtà».

Aumento dei costi della politica e svalutazione della democrazia
Nel terzo capitolo, Per una pedagogia della democrazia: la formazione delle élite e il nuovo blocco sociale, l’autore passa dalla fase critica a quella propositiva: è possibile teorizzare una «pedagogia della democrazia che, partendo dal ripiegamento dell’educazione, riproponga una necessaria nuova circolazione delle élite, attualmente ingessate, nello specifico caso italiano, dall’insostenibile costo della politica». Nell’ottica di questo studio è proprio il costo della politica «l’elemento strutturale che determina, in Italia, la crisi della democrazia, perpetuando la presenza di una classe dirigente inadeguata ad affrontare i problemi di fondo».
Secondo il politologo Fareed Zakaria, stiamo addirittura scivolando nella tagliola di una democrazia senza libertà: vale a dire «un sistema egemonizzato da «minoranze organizzate, ricche e fanatiche, che proteggono se stesse per il presente e sacrificano il futuro», in un clima da basso impero intossicato dal disfacimento delle istituzioni pubbliche e dalla pressione quasi insostenibile esercitata dalle leggi spesso ciniche e brutali della globalizzazione. La pesante ipoteca dei costi della politica deteriora irreparabilmente la qualità stessa della democrazia, attraverso una micidiale «moltiplicazione senza freni di burocrazie, privilegi e spesa improduttiva», per usare le parole dell’ex ministro per le Riforme istituzionali Antonio Maccanico, citato nel libro.
Su chi ricade il peso di questa specie di Moloch divoratore di risorse finanziarie che non rilascia in cambio nessun beneficio? Ovviamente sul cittadino contribuente, per cui la connessione tra tasse e democrazia si risolve nella coesistenza fra «un’alta tassazione e una relativamente scarsa qualità dei servizi pubblici».
Analizzando, infine, la problematica dei costi della politica sotto il profilo pedagogico, Caligiuri sottolinea il ruolo fondamentale della meritocrazia, «presupposto indispensabile per costruire società giuste e uguali, in cui chi abbia responsabilità politiche compia le meno dannose scelte pubbliche possibili, anche sotto il profilo dei costi della democrazia», spingendosi fino a teorizzare una vera e propria rivoluzione del merito: «il compito prioritario di élite selezionate in base al merito dovrebbe essere quello di recuperare gli esclusi, che saranno sempre più numerosi, a causa dei processi della globalizzazione, destinati ad aumentare le tensioni sociali, soprattutto nelle società del benessere».
In conclusione, la diagnosi di questo male oscuro che corrode dall’interno le democrazie del terzo millennio è lucida quanto impietosa: «in tutto il mondo, la classe politica è sempre più autoreferenziale, poiché tende a perpetuare la propria funzione, a prescindere dai risultati che riesce a ottenere. Per fare questo, ha necessità della connivenza del sistema dei media, che condizionano cittadini sempre più distratti e bombardati dalle informazioni. Tali flussi invece di formare disorientano e, piuttosto che spingere al controllo e alla partecipazione civica, in definitiva lasciano campo libero alle forze politiche ed economiche».
L’alternativa a questa perniciosa deriva plebiscitaria è racchiusa in una profonda riflessione pedagogica «in grado di promuovere il cambiamento sociale. Sarà un’ipotesi, magari un’illusione, forse un’aspettativa. Ma anche una possibilità».

Guglielmo Colombero
[1] – Traduzione: «Cosa sono i regni senza giustizia se non enormi ruberie?» (direfarescrivere, anno VI n. 58 ottobre 2010)
 
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