Anno XX, n. 220
maggio 2024
 
In primo piano
I presupposti politici dell’attuale destra
secondo l’analisi di Alessandro Campi
In un saggio lucido e rigoroso, edito da Rubbettino, si descrivono
genesi storica e composizione culturale del Popolo della libertà
di Guglielmo Colombero
«Credo nella forza delle idee critiche», scrive l’autore nell’introduzione al saggio La destra in cammino. Da Alleanza nazionale al Popolo della libertà (Rubbettino, collana Problemi aperti, 2008, pp. 322, € 15,00), «e nella necessità di mettere a confronto, in modo costruttivo, opinioni alternative. Una destra davvero matura, che abbia un qualche uso del mondo e un minimo di elasticità mentale, non può risentirsi con chi guarda alle sue vicende con occhio critico e dubbioso, ma al tempo stesso, come ho sempre cercato di fare, senza alcun pregiudizio o risentimento».
Alessandro Campi, direttore scientifico della Fondazione “Farefuturo” e docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia, è uno studioso di fama internazionale: ha pubblicato opere tradotte anche all’estero come Mussolini (il Mulino, 2001), Il nero e il grigio (Ideazione, 2004), L’ombra lunga di Napoleone. Da Mussolini a Berlusconi (Marsilio, 2007, Premio “Un libro per l’estate” 2007), e ha approfondito con particolare attenzione il pensiero filosofico e politico di Raymond Aron.
Fortemente emblematiche le parole con cui Campi sintetizza il senso ultimo di questo suo lavoro: «la memoria – per di più politicamente e ideologicamente alimentata – genera divisioni, tanto più gravi quanto destinate a riproporre nel presente linee di divisione e di contrasto che appartengono al passato». La maturità politica della destra italiana prende avvio proprio dalla rescissione di certi legami ingombranti con il passato, e da una proiezione dinamica verso il futuro: un processo che, sebbene avviato faticosamente dopo mezzo secolo di sostanziale stagnazione, ha saputo poi acquisire una decisa accelerazione negli ultimi dieci anni, fino a sfociare in una irreversibile (e rigenerante) immissione nei meccanismi della democrazia dell’alternanza. L’analoga mutazione genetica del Pci (che fino alla caduta del Muro rappresentava i tre quarti della sinistra italiana) ha invece smarrito quasi del tutto la sua spinta propulsiva iniziale: anzi, invece di raccogliere i frutti prodotti dalla «svolta della Bolognina» li ha lasciati marcire, rallentando e spesso sbandando paurosamente, fino all’attuale crisi del Pd.

Nazionalismo, globalizzazione, Aids e nemici interni
Nel primo capitolo, Scenari, Campi affronta le tematiche del nazionalismo, della globalizzazione, dell’allarme sociale e della lotta politica in Italia.
Riguardo al risveglio dei fermenti nazionalisti, sia nell’ex blocco sovietico che nella dissolta Jugoslavia, viene posto in risalto il «fondo barbarico e pre-moderno» dei conflitti etnico-territoriali, sfociati tragicamente nelle atrocità della Bosnia-Erzegovina e del Kosovo, e negli orrori della guerra civile in Cecenia. Ma, sul versante opposto, Campi sottolinea anche che il «sogno del governo unico mondiale rischia facilmente, se perseguito con coerenza, di trasformarsi nell’incubo di una tirannia imperialistica». Riguardo all’Italia, infine, il recente recupero dell’ideale di Patria e del concetto di Nazione – sostiene Campi – può rivelarsi un prezioso collante se «unisce con riferimento all’oggi e al domani». Vale a dire, se diventa un fattore di coesione indispensabile per affrontare le sfide che ci riserva il futuro e non la riproposizione stantia di valori ormai obsoleti.
Una seconda tematica alquanto spinosa è la globalizzazione culturale: riducendo la questione ai minimi termini (tramite una dialettica affilata come il rasoio di Occam), Campi afferma che il pericolo che corre la società globalizzata «non è di parlare una sola lingua, ma di parlarne troppe, talmente diverse fra di loro da generare alla fine solo caos e incomunicabilità». Prendendo spunto dall’antropologo francese Serge Latouche, teorico di una «colonizzazione dell’immaginario» degli individui e dei popoli da parte del capitalismo occidentale (una specie di conversione forzata alla “religione del mercato”, simile alla conversione al cattolicesimo imposta agli indios dell’America Latina dai conquistadores spagnoli, Campi nota che, in questa prospettiva, il fanatismo fondamentalista dei terroristi di al-Qaeda rappresenta un «ritorno al tribalismo politico e all’arcaismo culturale»: difficile dargli torto se pensiamo alla lapidazione delle adultere prevista dalla legge coranica, inalberata dalle masse islamiche come alternativa alla laicità del liberalismo europeo e americano. In definitiva, conclude l’autore riguardo alla globalizzazione culturale, «la vera sfida è come far sì che la crescita, a livello globale e all’interno dei diversi contesti territoriali, dei particolarismi culturali e di identità sempre più specifiche e differenziate, favorita proprio dalla globalizzazione, non determini un aumento delle tensioni e dunque della conflittualità sociale e non si risolva nel trionfo del più assoluto relativismo».
Nei passaggi dedicati al tema dell’allarme sociale prende le mosse dal trauma devastante che nel 1981 investì come un terremoto prima il mondo industrializzato e poi quello in via di sviluppo: l’Aids, la “peste del Ventesimo secolo”. «La politica», scrive Campi, «in particolare nella sua variante liberale, ha dovuto tornare a interrogarsi, dinnanzi a tragedie collettive come quella dell’Aids, sul suo lato oscuro e in ombra: su concetti e parole quali rischio, morte, timore, ansia, sicurezza». L’Aids ha rappresentato la prima espressione universale e conclamata di una “società mondiale del rischio”: da qui è scaturita una vera e propria «cultura dell’apprensione», un «ciclo retorico delle emergenze». Attraverso uno spregiudicato martellamento mediatico, spesso i rischi reali si sono confusi con quelli immaginari, i pericoli effettivamente esistenti con quelli solamente percepiti come tali, ma del tutto inconsistenti. E il disorientamento sociale che può derivare da questa sindrome da catastrofe imminente (e immanente) racchiude effetti altamente destabilizzanti: se la paura uccide la fiducia nel futuro, i pilastri della civiltà moderna (fondata su un inarrestabile progresso tecnologico che non può non guardare al domani) rischiano l’implosione e il collasso. Infine, partendo dall’assunto filosofico di Julien Freund («Non esiste una politica senza nemici»), Campi analizza la figura del cosiddetto “nemico interno”: vale a dire, di «colui che mette in pericolo l’esistenza del gruppo al quale appartiene: deve perciò essere espulso, simbolicamente ma se necessario anche con la forza e con la violenza, dallo spazio politico della comunità». Nella storia politica dell’Italia contemporanea spesso l’avversario politico è stato identificato col nemico interno: una delle manifestazioni più vistose della propaganda politica, che si è valsa di un’iconografia sovente parodistica e grottesca. E i toni accesi dello scontro politico si sono spinti fino al parossismo in occasione delle elezioni politiche del 2006, da cui l’Italia uscì spaccata in due come una mela, con reciproche accuse di brogli e di manovre eversive. «Nell’Italia di oggi, dunque», riassume Campi, «quella di trasformare l’immagine dell’avversario in quella del nemico è ancora una tentazione ricorrente e persistente», e, ripercorrendo le tappe di una complessa metamorfosi del volto di questo nemico (dal comunista mangiatore di bambini al corruttore tangentista, e da qui il manicheismo talvolta forcaiolo scatenato dalla valanga di Mani pulite), conclude auspicando che si smetta di «alimentare lo scontro politico creando nemici sovente immaginari, o, peggio, risvegliando antichi fantasmi».

La giovane destra e la vecchia sinistra
Nei due successivi capitoli (La destra nuova, La sinistra vecchia), l’autore parte da un presupposto stimolante: «Uno dei mali della politica italiana odierna è la falsificazione delle identità e delle ideologie (operata in particolare dalla classe politica), la riscrittura della storia passata in funzione delle esigenze del tempo presente». Per cui, la prima sfida da vincere è quella della «memoria»: fare i conti con il proprio passato senza timori e reticenze, evitando qualsiasi colpo di spugna. La seconda sfida è quella «programmatica»: al di là di pulsioni secessioniste o addirittura anarcoidi, riallineare un’efficace azione di governo alla rivalutazione dell’identità nazionale. Terza sfida, quella «linguistica»: «chi parla la lingua dell’avversario», ammonisce Campi, «chi ne subisce il condizionamento culturale, è inevitabilmente condannato alla sconfitta» (quasi un presagio della recente strategia fallimentare dell’opposizione, la quale, invece di assumere l’iniziativa, si limita a contestare le scelte del governo senza quasi mai avanzare proposte alternative). Le successive sfide da affrontare sono, per l’autore, quella «esistenziale» (sganciarsi dal conformismo del “politicamente corretto” e riscoprire il gusto della provocazione intellettuale), quella «politica» (servono leadership autorevoli e rassicuranti, non una demagogia compulsiva che fa leva sull’allarmismo sociale), quella «storica» (reintegrare nell’elettorato la fiducia nel futuro, intaccata dalla crisi economica), quella «culturale» di fondamentale importanza (rifiuto di qualsiasi omologazione e rinnovato approccio critico alle verità storiche di comodo), quella «etica» (rigore morale nell’amministrazione della cosa pubblica e presa di distanza da ogni forma di fanatismo), quella «internazionale» (alleati ma non sudditi degli Stati Uniti, più vicini all’Europa). In materia di immigrazione e di cittadinanza, temi particolarmente scottanti, Campi si chiede: «Dove sta scritto che la destra debba essere ostile per principio agli immigrati, alimentare la paura del meticciato, imbarcarsi in crociate politicamente inutili e pericolose contro la libertà religiosa e i suoi simboli? L’alternativa al cosmopolitismo predicato dalla sinistra non è per forza la chiusura entro le proprie frontiere a difesa di un’omogeneità sociale e culturale che peraltro non esiste più da un pezzo. Perché la destra dovrebbe lasciare alla sinistra il monopolio del dialogo fra le culture? Perché quest’ultima dovrebbe possedere la virtù dell’accoglienza e lasciare alla prima il vizio dell’esclusione?» E, riferendosi in particolare agli immigrati musulmani, acutamente suggerisce: «Il nostro problema […] non è integrare gli islamici, come si continua a dire, ma integrare individui provenienti dalle più diverse realtà nazionali, ognuno con una sua storia». Affermazione, questa, sensata e pragmatica, e pienamente condivisibile se si considera il fenomeno dell’immigrazione in un’ottica realistica, equidistante sia dagli isterismi di chi grida continuamente all’invasione saracena che dal terzomondismo salottiero di chi, all’opposto, propugna un’accoglienza indiscriminata senza neppure preoccuparsi di predisporre le infrastrutture indispensabili per gestirla decentemente. Un’altra competizione cruciale fra destra e sinistra, secondo Campi, si svolge sul terreno dell’egemonia culturale: definizione di gramsciana memoria, da non intendersi in maniera riduttiva. L’autore, infatti, chiarisce il discorso con una netta e precisa distinzione: la vera egemonia non consiste nell’occupare poltrone e incarichi, ma nel primeggiare nei contenuti e nella qualità delle proposte politiche. Cosa significa? È indubbio che negli anni passati una certa damnatio strumentale della destra (dipinta come rozza, brutale, violenta, retrograda, militarista e xenofoba) è stata enormemente favorita dall’atteggiamento di certe frange estremiste del vecchio Msi. «Essere o stare a destra non significa fare la voce grossa, tifare per la pena di morte, odiare gli islamici, inneggiare alla guerra e mettere socialmente al bando stranieri, omosessuali e drogati», sottolinea Campi, «Chi lo pensa “da sinistra” è in perfetta malafede. Chi lo pensa “da destra” è invece vittima inconsapevole di una vera e propria trappola mentale, dalla quale bisognerebbe liberarsi una volta per tutte». Riguardo alla progettualità di “Farefuturo” (il «pensatoio» della destra italiana sorto su iniziativa di Gianfranco Fini), Campi premette che «senza idee (e ideali) la politica deperisce e muore». In altre parole, il collegamento fra il pensiero politico e l’azione di governo va ripristinato su rinnovati fondamenti, dato che i vettori tradizionali (vale a dire i grandi partiti di massa) si sono disgregati come neve al sole dopo il cataclisma di Tangentopoli. Il rischio da evitare assolutamente è quello di scivolare in uno sterile «pragmatismo a sfondo post-ideologico»: Campi ribadisce che la linfa vitale di ogni progetto politico lungimirante e duraturo è nutrita dalla forza delle idee, e non da una navigazione a vista ristretta alle opportunità contingenti. Ignorare tali esigenze significherebbe, a lungo termine, riconsegnare l’egemonia culturale agli antagonisti. «In che modo la destra può liberarsi delle false rappresentazioni che la cultura di sinistra, esercitando la sua forza egemonica, le ha cucito addosso nel corso degli anni?», si chiede l’autore. E forse la risposta a questo tormentoso quesito risiede proprio nel tentativo di ripopolare di fermenti vitali il substrato ideologico che emerge dal consenso elettorale recentemente ottenuto dai partiti di centrodestra in tutta Europa.
Campi si sofferma sulla «solitudine del riformista», ipotizzata prima della caduta del Muro dall’economista Federico Caffè e poi ripresa dal politologo Ernesto Galli della Loggia (nonché avallata da voci autorevoli come quelle di Giuliano Amato e dell’economista Michele Salvati), che incarna forse l’espressione più autentica e sofferta del malessere della sinistra italiana sorta dall’estinzione del vecchio Pci. Secondo Campi, i riformisti di sinistra, con tutte le loro buone intenzioni, «spesso falliscono proprio sul piano dell’azione, dove la volontà conta più della dottrina». Il torpore nostalgico che affligge gran parte dell’attuale dirigenza del Pd finisce per arenarsi, secondo Campi, nella «rinuncia al progresso e al futuro», e ne deriva una conseguenza epocale: «A partire da una base realista e antiutopica, la destra ha dimostrato di potersi storicamente coniugare con la modernità e il cambiamento».

Cronaca della disfatta annunciata delle sinistre
Negli ultimi due capitoli del volume, Botta e risposta e Cronache politiche dall’Italia di Prodi, l’autore affronta molteplici e complesse questioni, per cui ci limitiamo a citarne solo alcune. Fra le più significative, a titolo esemplificativo: la natura eterogenea, «più confusionaria che estremista» (touché!…), della coalizione che Romano Prodi condusse alla risicata vittoria elettorale del 2006. L’ironia tagliente di Campi sottolinea come «l’eterna saggezza del popolo ha deciso, calcolati i simmetrici demeriti dei contendenti, per un “pari e patta” sostanziale». Più avanti, entrando nel merito della perigliosa navigazione a vista del secondo esecutivo Prodi, Campi diagnostica sconsolato che «il corporativismo inteso come difesa del privilegio non si annida solo nella società, fra artigiani e liberi professionisti, ma anche nel cuore dello Stato e dei suoi apparati, dove da sempre agiscono indisturbate le logiche del sindacalismo più becero e del tribalismo professionale». E, puntando il dito su un certo «culto sterile della memoria» ancora vivo nella coscienza di molti intellettuali di destra, ritiene altrettanto autolesionista baloccarsi con miti vetusti come la Vandea, il dannunzianesimo o la filosofia di Julius Evola o di Giovanni Gentile. Reliquie museali, da relegare in un passato che non può, e non deve, più ritornare. Fine distillatore di cinque secoli di pensiero liberale, Campi prende le mosse dall’umanesimo laico e libertario di Michel de Montaigne (soprattutto quando insiste sulle scelte politiche che uniscono un paese e non su quelle che lo dividono), lo arricchisce con le influenze del conservatorismo cattolico nemico di ogni eccesso rivoluzionario rintracciabile nelle opere di François-René de Chateaubriand e di Joseph de Maistre, e infine lo filtra con un forte radicamento al concetto di democrazia partecipativa teorizzato da Alexis de Tocqueville. In ultima analisi, l’autore conclude che «il fondatore di Forza Italia è stato il portatore di una visione cosmetica e faustiana dell’esistenza. Fisicità prorompente, volontà d’acciaio, l’ottimismo di chi non teme le avversità […]. Ma questa fase è finita. Nell’immaginario collettivo – dopo la lunga agonia del Papa e le più recenti discussioni sull’eutanasia – è tornata l’idea che la vita sia anche sofferenza e dolore. E la politica, per essere reale, non può uscire dal cerchio della vita. Quanto alla ricchezza, non garantisce l’immortalità. Al massimo un buon chirurgo».

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno VI, n. 52, aprile 2010)
 
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