Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
In primo piano
Un itinerario logico tra possibile e reale
in un saggio del filosofo Felice Cimatti
Dove il senso del sacro affonda le sue radici nell’animale umano
e come si può reinterpretarlo nella nostra epoca. Edito da Codice
di Luciana Rossi
«Dio è morto» – ha affermato Nietzsche –, per alcuni «non si è ancora del tutto decomposto»[1] o forse, per estrema beffa, questo processo si è interrotto a metà, lasciandoci a marcire tra le esalazioni della sua carne dilaniata, disorientati e inconsapevoli come vermi che, per la loro stessa sopravvivenza, hanno la funzione di portarne a compimento la dissoluzione. «Dio è morto», e come per tutte le morti, è necessario – e inevitabile – che dalla sua morte scaturisca una trasformazione della sostanza lasciata libera dal fardello di rappresentarlo. Sta a noi, ora, in questo tempo, far rinascere dalle sue ceneri il sacro, ancora possibile, anzi inscindibile e imprescindibile dalla nostra natura umana; il sacro, smascherato di tutte le icone. Se questa impresa avrà successo, avremo elevato a strumento evolutivo almeno una parte di quanto è rimasto “di Dio”, salvandolo dall’unica fine altrimenti possibile, la più scontata, a minore spesa energetica: la decadenza, la dis-integrazione, che altro non sono che un ritorno all’indietro, a livelli più elementari di esistenza, allo stato grezzo della materia o – se ci si concede l’espressione – dell’anima. Una fine che non potrà che riguardare tanto l’individuo, che la società, che il mondo.
Una sorta di alchimia ci attende, ed è proprio questo che il libro di Felice Cimatti, Il possibile e il reale. Il sacro dopo la morte di Dio (Codice edizioni, pp. XII-188, € 16,00) si propone di compiere, prima di tutto, nella mente: un’alchimia “logica”, un processo che, attraverso una precisa e consequenziale estrazione e purificazione di concetti, attraverso un’attenta miscela di elementi di diversa natura e la loro compenetrazione, porti a raffinare una visione nuova, conduca a una sostanza più preziosa della somma delle sue parti.
Ben poteva tentarla quest’operazione Felice Cimatti, docente di Filosofia e Teoria dei linguaggi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, che da più di venticinque anni – fin dal suo percorso di studi universitari – si occupa di Filosofia della mente e di tematiche inerenti la percezione e le scienze cognitive. Noto per essere tra i conduttori del programma radiofonico di attualità culturale di Radio3, Fahrenheit, Cimatti collabora alle pagine culturali de il manifesto e alla Rivista di Psicoanalisi.
In questo testo, come testimonia la ricca Bibliografia che lo correda e come l’autore stesso sottolinea nell’Introduzione, egli attinge a diverse discipline, spaziando a tutto campo e «provando a far dialogare figure e tradizioni assai diverse fra loro: le scienze cognitive, i testi dei mistici, la filosofia, l’antropologia della religione, la linguistica teorica, la teologia», senza perdere di vista però –aggiungiamo noi – la comune esperienza umana, come tutti la conosciamo.
Per sottolineare la validità di quest’approccio e l’universalità delle conclusioni a cui l’autore arriva, abbiamo voluto arricchire la lettura con alcune citazioni di intellettuali, filosofi o mistici di ogni tempo e di ogni luogo.

Alcune idee comuni sul sacro
Introducendo gli elementi principali che saranno oggetto della sua analisi, l’autore sgombra il campo da alcune idee comuni sul concetto di sacro:

1. Che il sacro non si possa “percepire”, quindi in qualche modo non appartenga alla sfera della vita reale, e sia perciò non accessibile: esso ha a che fare invece con l’esperienza dei sensi, è un sentimento, anche se è un «sentimento logico», non soggettivo, è «un’esperienza bio-logica fondamentale»: “bio” in quanto prerogativa dell’animale umano, “logica” perché possiamo provarla grazie alla capacità connaturata nell’uomo di usare un linguaggio (logos).
2. Che occorra uno sforzo eroico o titanico per percepire il sacro o arrivare a concepirlo, mentre invece è richiesto solo un piccolo, umile passo: basta “prestare attenzione”. Una qualità di attenzione naturale, tuttavia particolare: «C’è sacro quando si manifesta un’interruzione nel tessuto consueto (normale) dell’esperienza, quando qualcosa per qualche ragione risalta rispetto all’ordinario corso delle cose».
3. Che il sacro sia prerogativa dell’individuo, o di alcuni individui dotati di indole “religiosa”, mentre lo è della totalità della specie homo sapiens; vedremo le implicazioni di questo concetto parlando di etica, più avanti.
4. Che sia legato a un’entità trascendente esistente di per sé: mentre il sacro, come «sentimento logico», si colloca nella realtà del vivere, e non potrebbe essere che così, in quanto nulla che “trascende” il reale potrebbe mai fare parte della nostra sfera di percezione o di immaginazione, esso – semplicemente – non esisterebbe: «una realtà trascendente non c’è», afferma l’autore. Tutto l’assoluto è contenuto nella realtà, si potrebbe dire.
5. Che abbia a che fare con la/le religione/i, con l’espressione delle tradizioni religiose, mentre esse sono “storiche”, appartengono alla Storia e mutano con essa.

Né soggettivo, né trascendente, il sacro allora è ciò che spicca, si manifesta quando si crea uno strappo nella percezione ordinaria dell’esperienza vitale. Che questo si realizzi attraverso una particolare qualità di attenzione – magari momentanea –, o attraverso un’intuizione trasportata da una particolare intensità emotiva, o ancora attraverso la preghiera, la pratica della meditazione, l’ascesi, il digiuno, o perfino attraverso l’uso consapevole – sottolineiamo questo aspetto – di sostanze psicotrope, o ancora attraverso la consuetudine con il silenzio, purificando i sensi dal rumore di fondo dell’eccesso di stimoli che normalmente ci ottunde, poco importa. Sono solo strumenti per arrivare a percepire questo sentimento. Tutte le discipline “mistiche” occidentali o orientali (le danze circolari dei dervisci, i canti, i mantra tibetani, le litanie, le meditazioni, i digiuni, ecc...) non mirano ad altro che ad aprire questa cesura per fare spazio a una dimensione radicalmente diversa. Sono il mezzo, e non il fine. «La nassa serve a prendere il pesce»[2].
Occorre fare il vuoto nella mente. Per dirlo con le parole del maestro spirituale Jiddu Khrishnamurti[3]: « è assolutamente essenziale per la mente essere inoccupata, essere vuota, libera da costrizioni poiché solo allora essa può muovere verso profondità sconosciute».
La percezione del sacro, dunque, non costituisce l’eccezione nell’essere umano, ma la normalità, come patrimonio evolutivo della razza. Come può avvenire questo? Cos’ha di speciale l’essere umano?

Un percorso logico
L’animale umano si trova in una situazione del tutto particolare rispetto agli altri animali. L’uso del linguaggio lo porta a vivere costantemente e contemporaneamente su due piani della realtà appartenenti a categorie differenti: uno “privato” e circostanziale e uno “pubblico” e universale.
Prendiamo, ad esempio, una parola: da un punto di vista strettamente fisico, essa è un suono – una sequenza di onde caratterizzate da frequenze percepibili dal nostro organo di senso specializzato per l’udito – prodotto da una singola persona attraverso la modulazione dell’aria emessa dai polmoni, eppure allo stesso tempo quel suono allude sul piano del significato a un’entità che non appartiene a quel soggetto, né ad alcun soggetto in particolare, ma fa parte di un patrimonio condiviso. È pur vero che le lingue differiscono l’una dall’altra, e che vengono apprese, però la dinamica interna che automaticamente riconduce un suono a una gamma possibile di significati non è appresa, ma è innata nell’essere umano.

Sistemi modulari e sistemi centrali
Sono le nostre particolari modalità conoscitive a consentirci questo salto.
Nell’evoluzione, ogni nuova specie sviluppa una capacità che era assente o “immatura” nella specie precedente: per l’uomo questa capacità è il linguaggio, e forse l’uomo non sarà l’ultima specie evolutiva sulla Terra [se non saremo troppo stolti Nda].
La chiave di lettura è data nel libro attraverso la distinzione tra “sistemi modulari” e “sistemi centrali”.
I sistemi modulari funzionano appunto tramite moduli cognitivi: legati agli organi di percezione (un esempio ne è la vista), incorporati fin dalla nascita, perfezionatisi attraverso l’evoluzione e concepiti per aumentare le possibilità di sopravvivenza dell’individuo, in relazione alla conservazione della specie. Ognuno di essi è fortemente specializzato, è autosufficiente (cioè contiene in sé tutte le informazioni che gli occorrono) e per garantire sempre un funzionamento veloce ed efficace è isolato anche dagli altri moduli dello stesso tipo, in modo che siano evitate reciproche interferenze: ogni modulo percepisce solo e unicamente ciò che attiva lo stimolo corrispondente, anzi, per meglio dire, oggetto e stimolo praticamente coincidono. Tutto il resto, semplicemente non esiste. Il sistema modulare funziona con un sistema binario: sì/no, senza gradazioni; bianco/nero, senza sfumature di grigio. La sopravvivenza fisica non poteva permettersi incertezze.
Con l’enunciato linguistico – prerogativa della specie umana – entriamo invece nel campo dell’indeterminato, perché non c’è una sola risposta “automatica” a ogni istanza, ma molte possibili. Il processo cognitivo è logico-linguistico, non si basa su percezioni, ma su descrizioni; è analitico e consente risposte che si collocano su una scala di completezza in relazione al grado di conoscenza posseduto e che possono evolversi nel tempo. Entrano in gioco in questo processo tutte le conoscenze in qualunque campo disponibili in quel momento. All’opposto dell’incapsulamento visto prima, questo processo è fortemente inclusivo, olistico, globale e per tale motivo sarebbe impossibile scinderlo in passi semplici per programmare un computer ad eseguirlo, per quanti ne possiamo creare. Un esempio estremo ne sono i ragionamenti analogici, che – secondo il filosofo e scienziato statunitense Jerry Alan Fodor, citato nel testo – «non sono capiti affatto». Eppure, delle analogie ci serviamo quotidianamente, in maniera perfino inconsapevole.
Continuamente in bilico sul confine sottile di due mondi, l’uomo «è quell’animale che vive questa ambiguità logica, per il quale il determinato annuncia il e allude al non determinato»[gli ultimi due corsivi sono nostri, Nda]. L’homo sapiens, come specie, porta inscritta in sé un’aspettativa di significato. Una naturale aspirazione a conoscere, «a muoversi oltre il dato sensibile» (come è, nell’esempio sopra, il suono) ricercandone appunto il senso.

Ombre cinesi
Il determinato si definisce allora, non solo attraverso ciò che esso è, ma anche – simultaneamente – attraverso ciò che esso non è (eppure potrebbe essere o avrebbe potuto essere). Le espressioni linguistiche acquistano significato sia in positivo, per ciò a cui si riferiscono, che in negativo, per ciò a cui non si riferiscono: il non senso dà senso e il non immanente definisce l’immanente. Il sacro e il profano – gli opposti − nascono inevitabilmente nello stesso istante. «Quando tutto il mondo riconosce la bellezza come tale, nasce la bruttezza. Quando tutto il mondo riconosce il bene come tale, nasce il male»[4]. Il vuoto non è solo assenza di pieno, ma un’allusione a un’ulteriore scelta possibile.
Intorno ad ogni cosa o persona reale compare un alone di possibile che, se da una parte genera la sensazione di non essere in possesso di quell’entità, dall’altra suscita «meraviglia», stupore, non già per come essa appare, ma per il solo fatto che ci sia, sia potuta scaturire da quella nuvola di possibilità entro la quale – non possiamo dimenticarlo – si trova anche la possibilità della sua non-esistenza.
Attraverso la negazione di ciò che è, il possibile entra nella nostra esistenza «la negazione è il passaggio nell’eterno», sono le parole della filosofa e mistica francese Simone Weil, citata nel testo.

Verso l’infinito
«Oltrepassando la soglia fra modulare e non modulare, oltrepassiamo la soglia fra ciò che è reale e presente e ciò che non è reale, ma puramente possibile [...] le distinzioni cognitive dei diversi moduli collassano, e il cervello si attiva nella sua interezza». Il sacro è un’esperienza olistica perché coinvolge tutto ciò che siamo e che abbiamo vissuto.
Il pensiero non modulare non ha limiti al suo campo di azione, di fatto è in relazione con l’intero sistema-vita e quindi, in un certo qual modo, contiene l’infinito.
Forse è questo che s'intende quando si dice che l’uomo è “fatto a somiglianza di Dio”. O, in altri termini, potremmo dire che il concetto di Dio non è che un’allusione alla fisiologia della nostra mente, capace di percepire il rapporto tra reale e possibile, tra sacro e profano.
La sacralità del reale allora sta nel contemplare in ogni oggetto l’indeterminatezza che sta dietro di esso, spostare il focus dell’attenzione da ciò che è a ciò che non è, portare in primo piano la visione del possibile. Vengono in mente le pratiche di meditazione di Yeshe Tzogyel, un’antica mistica del tantra tibetano: «Quando si è assorti nella realtà, nell’esperienza della sua natura, / Non si trova solo Vacuità, perché c’è Conoscenza e luminosità, / tuttavia nulla è permanente poiché la loro essenza è vuota [...] / Volgete gli occhi all’interno, verso la vostra realtà / E vi vedrete, ma non vedrete nulla: / Questa percezione visionaria / È ciò che si chiama “Visione”»[5].
Si tratta di un nulla che è “tutto”, di un vuoto che contiene tutto il possibile, per questo, come ben esprime lo psicologo e psicoanalista italiano Elvio Fachinelli, citato nel libro, «nelle situazioni estatiche, il vuoto è un campo di tensioni da attraversare; non è una posizione inerte. E il riempimento del vuoto, per così dire, avviene in un attimo, che sembra comprendere in sé, insieme, massima accelerazione e totale immobilità. E che brucia in un sol colpo il tempo che lo precede». Sembra una descrizione del satori, l’illuminazione istantanea a cui aspirano tutti i seguaci della filosofia Zen.

Horror vacui?
Come affronta, come tollera l’uomo questo suo vivere sul bordo dell’infinito e percepirlo? Sorge in lui l’angoscia. L’angoscia di smarrirsi e allo stesso tempo il desiderio di farlo, la tentazione di diventare quell’infinito.
Il ragionamento olistico per sua natura non ha fine, la catena di legami che esso genera è potenzialmente infinita; l’unica certezza che abbiamo è che ogni esperienza umana non sarà «mai satura, mai del tutto chiusa, questo dato bio-logico comporta che in ogni azione umana si insinua l’inevitabile consapevolezza che “qualcosa rimane sempre oltre”. Che cosa rimanga oltre non è dato sapere».
Il “mistero” è la nostra unica certezza bio-logica.
Questa percezione mette in pericolo il nostro senso di coscienza individuale, di “presenza”, quell’ “io sono” performativo che è un altro portato dell’evoluzione dell’essere umano e della sua individuazione.
L’angoscia è generata dalla sfida del cambiamento, dal rischio che esso non possa coesistere con la “presenza”, che le infinite forme del possibile inghiottano la consapevolezza di sé dell’individuo. Ecco perché, con un’apparente contraddizione, per esporsi a percepire l’infinito del possibile oltre la forma manifesta, occorre “centrare” la propria energia personale, rafforzare, in qualche modo, il senso profondo di identità.
Di solito reagiamo a quest’angoscia esorcizzandola mediante le liturgie religiose, i rituali collettivi. Essi consentono di affrontare il tema del possibile, dominando il rischio di perdersi, aiutano a portarlo alla coscienza individuale in un modo accettabile e gestibile per essa.
Ma questa non è l’unica via, ce n’è un’altra più immediata, come testimonia ad esempio Fachinelli, di cui riportiamo un breve brano tratto dal libro:

«A occhi socchiusi il mare è sottili lamine d’argento che vibrano obliquamente. Righe di diverso splendore. Si può variare questo sguardo, che oltrepassa la visione distinta. Prima mare, strisce viola; poi lame, poi righe di luce. A occhi chiusi, fuochi fatui. Riconoscere la necessità, non soltanto l’esistenza, di queste diverse visioni. Contemporaneamente, io come sguardo che impara non un paesaggio, o più paesaggi, ma se stesso paesaggio. Sguardo mare».

Rinunciare al potere
Nel momento in cui, come abbiamo visto, quell’entità che ho di fronte sfugge alla mia definizione, non si lascia afferrare o ridurre dentro una funzione, si spalanca una nuova dimensione, una dimensione splendida e “pericolosa”, come è in fondo – in tutti i campi – la libertà: un piano non utilitaristico, che sfida «il mio potere di potere», come bene esprime il filosofo Emmanuel Lévinas, citato nel testo. Mi trovo in un altro spazio, dove valgono altre leggi, non posso usare gli strumenti consueti, quell’entità non mi è utile, non devo “farci nulla”. Semplicemente, vedo. E non posso negarlo a me stesso. Così nasce la meraviglia. Così nasce il sentimento del sacro.
Rinunciare all’uso, al potere e sopportare il vuoto fa apparire il sacro. È forse questa la grazia di cui sentiamo parlare? Un gesto attivo, ma gratuito, come ad esempio, la contemplazione. Qualcosa che c’è ma non serve a nulla, c’è ma è incomprensibile. C’è, ma resta inafferrabile, come è la bellezza. Questa indefinibile bellezza ci porta verso la percezione del sacro, ci avvicina alla nostra “umanità”, mentre ci eleva verso il possibile e ci congiunge alla nostra “anima”: «L’anima crede nel kalon kagathon, il bello e il buono, un concetto primitivo, anteriore alla scoperta dell’opposizione tra estetica e morale», dice Gustav Jung[6]. È questa una bellezza che non ubbidisce a canoni precisi, ma la cui misura è data dall’aderenza all’essenza intima delle cose; una bellezza che è insita nel fenomeno, per il fatto stesso che esso c’è . «Non chiarire! – DESCRIVERE! – Sottometti il tuo cuore e non essere arrabbiato di dover soffrire così! [...]» è una frase di Wittgenstein, citata nel libro. Ma anche, volendo osare un accostamento, «Ed ancora, o monaci, un bhikkhu, quando sta camminando, si rende conto di star camminando; quando egli sta fermo in piedi, si rende conto di star fermo in piedi; quando sta seduto, si rende conto di star seduto[...] Ordunque, o monaci, allorché un bhikkhu sperimenta una sensazione piacevole, egli riconosce “io sperimento una sensazione piacevole”; quando, invece, sperimenta una sensazione dolorosa, egli riconosce “io sperimento una sensazione dolorosa”[...]» è, qualche secolo prima, Buddha[7].
Come afferma Cimatti «Il fatto va invece preso per quello che è, esteticamente, come fenomeno; e allo stesso tempo, anche eticamente, perché se non lo spiego lo affido completamente alle sue possibilità, lo lascio completamente libero. Per questo la mossa decisiva, appunto insieme etica ed estetica, è semplicemente “DESCRIVERE!!».

Discorsi sull’etica e sul nostro tempo
La ricerca del sacro può a prima vista sembrare qualcosa di accessorio, superfluo, astratto. Questi discorsi possono sembrare una pura speculazione, tuttavia essi sono profondamente intersecati con la nostra esistenza quotidiana, perché da essi scaturisce direttamente il discorso sull’etica, un principio che, avvicinandosi a concetti di valore assoluto, necessariamente non può esaurirsi nel campo del reale.
Se si oscura la percezione del sacro, del possibile, infatti, ogni azione, ogni fatto finisce per stare sullo stesso piano, allo stesso livello di un altro, nessuno è più giusto o più importante di un altro: sono tutti uguali. Come è possibile orientarsi in un mondo siffatto? Eppure il mondo in cui viviamo comincia ad assomigliare a questo insignificante “catalogo di fatti”.
E se “il male” fosse proprio questa perdita di senso e di significato, questa pariteticità di peso, questa afasìa della mente che impedisce di formulare qualsivoglia giudizio di valore?
In un sistema di riferimento in cui ogni riferimento (e quindi nessuno) è valido – ci fa riflettere l’autore – in un campo in cui si stanno giocando tutti i giochi (e quindi nessuno) in cui ogni mossa è permessa, da tutti i giocatori, ma non si sa quale sia quella che porta alla vittoria, ogni mossa è valida, eppure, al tempo stesso è nulla; esiste solo il momento presente, l’utilità e il vantaggio del momento, e subito anche quello perde di valore.
Vengono in mente certe interviste che capita di vedere al telegiornale dove alcuni ragazzi definiscono “una semplice cavolata” che un loro coetaneo sia stato marchiato a fuoco con un rudimentale attrezzo costruito a scuola. O altri giovani che, dopo aver confessato un reato (aver dato fuoco a un extracomunitario che dorme in una stazione o violentato una ragazza) domandano con terrificante ingenuità, “ora che ho confessato, posso andare a casa?”. Citiamo i ragazzi solo perché la loro psiche è più permeabile e meno abile a dissimulare, ma è un sintomo generalizzato. Si sta perdendo il nesso di responsabilità.
Questo sta avvenendo, non solo a livello individuale, ma anche culturale e sociale: «La mossa fondamentale che azzera la distinzione tra sacro e profano è quella di separare i processi amministrativi e/o economici dalle responsabilità individuali». La responsabilità viene “localizzata” e nel punto di vista locale, c’è posto solo per una responsabilità non morale, ma “tecnica” che, come avverte il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman, citato nel libro, «dimentica che l’azione è un mezzo in vista di qualcosa di diverso da essa. Nel momento in cui le sue connessioni esterne vengono efficacemente rimosse dal campo visivo, l’azione del burocrate diventa un fine in sé. Essa può essere giudicata soltanto in base a criteri intrinseci di adeguatezza e di successo». Alienazione. Deresponsabilizzazione. I nostri concetti di efficienza e professionalità, assurti a principi assoluti, elevati a nuovi miti, cosa sono veramente? Quale effetto perseguono davvero le cifre della produzione, i numeri e le statistiche decontestualizzati e presentati per motivare strategie o scelte politiche o sociali? Come è successo che il sacro è uscito dalle nostre vite?

La banalità del male
«Gli scrittori William Styron e George Orwell e la filosofa Hannah Arendt, scrivendo del male totalitario e in particolare dei sistematici stermini perpetrati dal nazismo sono giunti alla medesima conclusione: che il male non è, come ci aspetteremmo, la crudeltà, la perversione morale, l’abuso del potere, il terrore. Questi sono gli strumenti del male o i suoi effetti. No, il male più profondo del sistema totalitario è precisamente ciò che lo fa funzionare: la sua efficienza programmata, monomaniacale e monotona; il formalismo della burocrazia, le ottundenti prestazioni lavorative quotidiane, conformi al regolamento, noiose, precise alla virgola, generiche, uniformi», scrive lo psicoanalista e filosofo James Hillman[8]. Siamo tutti complici silenziosi di questo “male”? Sconvolgente, ma terribilmente appropriato il riferimento ai campi di concentramento nazisti, alle “semivite” di esseri scaduti – non per loro colpa – nella dignità umana e nella luce dello spirito, quella luce che brilla negli occhi delle persone quando le osserviamo da vicino. Ce lo riporta nel libro la testimonianza di Primo Levi: «se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero». Privati dello spazio profano, questi uomini perdono anche la capacità di percepire il sacro.
Ma se riduciamo la realtà a una sequenza di calcoli, all’angusta prospettiva dell’azione che dà un immediato vantaggio, non stiamo anche noi ugualmente perdendo il sacro? Viene allora da domandarsi se non siamo tutti prigionieri in un invisibile campo di concentramento che abbrutisce le nostre anime e le nostre vite. Se noi, con il nostro benessere, la nostra pretesa libertà o realizzazione professionale, non siamo altro che poveri esseri infiacchiti e annullati nella nostra umanità dalla paura del vuoto, dall’assenza di un domani che non riusciamo più a immaginare nel suo – appunto – “possibile”. Esseri spaventati a tal punto da non essere capaci più di pensare, chiusi dentro un recinto, da un filo spinato tanto più ineludibile perché invisibile, tanto più spinato perché soffice come le nostre comodità, come la pletora di oggetti e “piacevolezze” offerte dal consumismo che ottundono i nostri sensi e ingannano i nostri passi deviandoli verso obiettivi di breve respiro.
Persa la capacità di “vedere il possibile”, che è la nostra prerogativa umana, regrediamo nella scala evolutiva e siamo come animali. Viviamo a testa bassa, brucando l’erba e non ci è dato di guardare il cielo. Né di aspirarvi.
Ecco “la caduta”. Ecco “il male”: essere privati della propria umanità e poiché essa rappresentava la chiave di accesso al sentimento bio-logico del sacro, essere privati di Dio. E cos’è l’Inferno, se non aver perso Dio? Cos’è l’Inferno se non la lontananza dal sacro, avendo perduto la facoltà di percepirlo? Cos’è l’Inferno? L’Inferno è proprio questo: essere esclusi – per sempre – dalla vista di Dio.

Luciana Rossi

[1] - Rino Tripodi, Decomposizione di Dio. Un racconto e cento apologhi gnostici tra Kafka e Cioran, Postfazione dell’autore, Inedition, Bologna, 2008, p. 77
[2] - Zhuang-zi.[Chuang-tzu], Adelphi, Milano, 1988, p. 254
[3] - Jiddu Khrishnamurti, Taccuino. Un diario spirituale, Astrolabio - Ubaldini editore, Roma, 2007, p. 206
[4] - Lao Tzu, La regola celeste. Il segreto della virtù nell’agire senza agire, Demetra, Verona, 1994, p.12
[5] - Keith Dowman, La danzatrice del cielo. La vita segreta e i canti di Yeshe Tzogyel, Astrolabio - Ubaldini editore, Roma, 1985, p.151
[6] - Carl Gustav Jung, Opere, (vol. 9, I), Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p.26
[7] - Buddha Gotama, Pio Filippani Ronconi (a cura di), Aforismi e discorsi, Newton Compton, Roma, 1994, pp. 40-42
[8] - James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi, Milano, 2003, p. 101

(direfarescrivere, anno VI, n. 50, febbraio 2010)
 
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