Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
In primo piano
La tsarina Tomyris, signora delle tigri,
e la sua sfida a Ciro il Grande di Persia
Dopo Himilce, sposa di Annibale, un’altra donna “reale” e “storica”
per Guglielmo Colombero, nel secondo libro sempre targato Falzea
di Luciana Rossi
Caucaso, sulle rive del mar Caspio, nella regione dell’attuale Adzerbaijan, estate del 529 a.C.: il potente esercito dell’imperatore persiano Ciro il Grande, dominatore di gran parte del Medio Oriente, sta per invadere nella sua inarrestabile marcia di conquista il territorio abitato dal popolo guerriero dei Massagetaj; le sue armate hanno già varcato il fiume Araxe, preparate ad avanzare oltre in questa terra fertile, abbondante di frutti e di risorse naturali, di minerali e di oro, dove il petrolio sgorga spontaneamente dal terreno incendiandosi e creando il suggestivo fenomeno dei “fuochi perenni”. Qui le diverse tribù del fiero popolo dei Massagetaj vivono in pace dopo aver raggiunto un equilibrio di potere che ruota intorno alla fedeltà alla loro tsarina, Tomyris, che – ereditato lo scettro dal re suo marito, morto in battaglia – governa circondata da una guardia di trecento amazzoni, provenienti da tutte le regioni del suo territorio. L’esercito persiano è ben equipaggiato e forte di una moltitudine di mercenari e combattenti offerti come tributo dalle province dell’impero: numericamente è quasi il doppio delle schiere dei Massagetaj. La sfida è totale, repentina, assoluta. È questo un momento critico, che non lascia spazio a seconde opportunità: in un acme di intensità, un breve volgere di eventi trascinerà con sé e sovvertirà le sorti di molti, catalizzando i mutamenti in atto. È tempo di combattere e di amare senza riserve, di resistere fino in fondo o di arrendersi definitivamente. È tempo di morire, ma anche di rinascere, rinnovati, purificati dal dolore, più forti.
L’istantanea di un momento decisivo: questo il focus dell’inquadratura nell’ultimo romanzo storico di Guglielmo Colombero, Tomyris. La signora delle tigri (Falzea, pp. 282, € 15,00), la seconda opera, dopo Himilce. La sposa di Annibale (sempre Falzea), di questo autore innamorato del passato, dei suoi misteri e delle sue usanze, ma – soprattutto – delle sue eroine, figure femminili determinate, colte e forti, eppure capaci di calarsi totalmente nella ricettività, nella capacità intuitiva e nella sensualità del loro essere donne.
In questo romanzo potente, le cui caratteristica chiave è forse proprio l’essenzialità, la compattezza dei ritmi e l’incisività dei dialoghi e delle azioni, la narrazione procede sempre serrata e alta nel livello di tensione, avvolgendo il lettore in una trama avvincente disseminata con attenzione di metonimie narrative, per poi concedersi, a tratti, qualche momento di espansione e di contemplazione, altrettanto inaspettato e suggestivo. Ne è un breve esempio quest’alba, che segue per la tsarina una lunga e tormentata notte insonne:

«Tomyris smontò da cavallo e rimase in attesa sul limitare della spiaggia. Il cielo era di un rosa pallido come l’interno di una conchiglia, e grosse nuvole nere e grigie incombevano sulla linea dell’orizzonte. L’orlo azzurro delle acque delimitava una striscia d’argento, increspata da una spuma bianchiccia, e in prossimità del litorale, il mare risplendeva come oro fuso attorno alle creste brune delle onde. Una foschia vaporosa, indugiando fra le scogliere affioranti, aleggiava sui fianchi di una navicella oblunga, che lentamente si stava avvicinando.»

La politica di Ciro il Grande
L’imperatore Kurash – Ciro il Grande, il Re dei re − è l’interprete astuto di una politica avveduta e complessa, dalle molte facce. Convinto di essere il predestinato a esercitare un inevitabile e irresistibile dominio sul mondo, portando a tutti i paesi − sotto il suo governo − la convivenza pacifica e il progresso, egli ha costruito il suo impero grazie alla forza delle armi, ma anche attraverso trattative e accordi condotti con abilità e con metodi di pressione non sempre trasparenti. Tra le prime battute del racconto, un dialogo tra la tsarina e il suo consigliere Osmydah, ex ufficiale dell’esercito persiano, ripercorre alcune tappe della sua ascesa:

«Tomyris assunse un’aria meditabonda, lisciandosi il margine del mento con il pollice, poi inghiottì una sorsata di kefir e fece schioccare impercettibilmente la lingua.
“C’è una cosa che non mi convince nel tuo racconto, Osmydah. Non credo che sia possibile edificare un impero come quello di Kurash, ricorrendo così spesso all’arma della persuasione in tempi come questi. È una visione irreale, quasi paradisiaca del mondo, e a mio avviso piuttosto menzognera.”
“Infatti la realtà è ben diversa da quella dipinta dalla propaganda, sia pure abilissima, di Kurash. Chi tenta di resistergli viene schiacciato senza pietà, per cui bastano pochi esempi terrificanti per indurre tanti altri a sottomettersi. Le poche città greche della Ionia che hanno osato sfidare il Re dei re hanno subìto feroci rappresaglie: Magnesia è stata saccheggiata; la valle del Meandro devastata in lungo e in largo dalla cavalleria persiana e tutti i notabili di Priena deportati in schiavitù; a Smirne è stato distrutto il tempio dedicato ad Athena, e il diffondersi della notizia ha indotto Focea, Teo e Cnido a capitolare senza combattere.”»

La convinzione di essere “predestinati a governare il mondo per il suo bene” ha spesso tratto in tentazione nel corso della Storia molti potenti (e molte potenze). Nel tempo i metodi di pressione si sono affinati e oggi spesso – anche se purtroppo non sempre e non soltanto − è l’economia il vero terreno di battaglia e di sottomissione delle altre nazioni, in conflitti che tuttavia avvengono, al pari di quelli militari, senza esclusione di colpi. Eppure, anche gli imperatori a volte possono sbagliare i loro conti e in questa occasione il popolo che Ciro il Grande si trova di fronte è un popolo fiero e poco incline ad essere corrotto dalle ricchezze, di cui, peraltro, non ha bisogno, un popolo amante della libertà indomita a cui è abituato e guidato da una condottiera che non teme di affrontare l’imperatore sul suo terreno. Pronta ad andare fino in fondo anche in prima persona, Tomyris − una donna − fronteggerà l’imperatore in un dialogo serrato, condotto con determinazione e orgoglio, fino a sfidarlo apertamente alla guerra. La preparazione, le prime drammatiche fasi del conflitto, la sfida finale e un inatteso epilogo prenderanno lo spazio della narrazione, in un crescendo di emozioni.

Un romanzo corale
Su queste vicende storiche si innestano con naturalezza quelle personali dei protagonisti, e, anche se la figura di Tomyris emerge con chiarezza e agisce da perno del racconto, questo è − a nostro avviso − un romanzo “corale”, popolato da figure affascinanti: Tirghetau, la guerriera tatuata consacrata alla dea Anahit che solo un evento accidentale, interpretato come volere della divinità stessa, ha risparmiato al sacrificio umano; Spargapysh, il figlio della tsarina, un personaggio moderno nella sua impulsività e nel suo scetticismo; Osmydah il consigliere e stratega vicino alla tsarina e a lei devoto, il guerriero la cui maschera d’oro indossata sul volto per coprire un orrendo segreto riflette spesso nella luce o nella penombra le scene che si susseguono nel racconto, come se egli fosse chiamato, grazie alla sua saggezza, a fare da testimone-specchio degli eventi.
Nel climax crescente del racconto, nel rivolgimento dell’asse drammatico attorno a cui ruotano le vicende della storia e, con esse, le vite degli individui, in una sorta di respiro collettivo, tutti saranno travolti o profondamente trasformati.

Ai confini del mito
L’ambientazione storica prende corpo – come abbiamo detto – in un passato remoto e in un luogo altrettanto remoto e poco visitato, anche dall’immaginario collettivo, sospingendo il racconto oltre la storia, ai confini del mito, tra i riti e gli scenari di un mondo arcaico, eroico, ma anche brutale, dove la devozione, la lealtà, il sacrificio di sé, il godimento dei sensi, ma anche il coraggio, la vendetta, il dominio assumono toni potenti e assoluti, a volte anche cruenti e feroci; un mondo dove la sfida per la vita è totale e quotidiana; un’epoca in cui la presenza degli dèi è percepita come tangibile negli eventi naturali, nei destini umani, nei rituali legati alle battaglie, e il mondo visionario del soprannaturale respira ancora commisto e sovrapposto al mondo reale, che ne resta intriso di un forte simbolismo.
Combattimenti, duelli, guarigioni, amplessi, morti, nascite, eclissi, maree, tigri, abiti, maschere, tatuaggi vivono tutti della celebrazione di questa potenza, di questo inarrestabile fiume sotterraneo di energia che trascina con sé gli eventi e le situazioni. Non ci troviamo però di fronte a uomini rozzi e primitivi, ma piuttosto a personaggi che a volte si interrogano sugli dèi in termini attuali. Come Osmydah confida a Spargapysh prima dell’agguato che quest’ultimo dovrà tendere alle armate di rifornimento del nemico:

«Neppure io credo negli dèi, Spargapysh. Ho smesso di pregarli dal giorno in cui ho iniziato a portare questa maschera. [...] Le statue degli dèi non sono altro che le nostre paure pietrificate, le ombre delle nostre angosce che si allungano nel silenzio dei templi deserti, incubi e terrori che assumono sembianze umane o bestiali, o un ibrido di entrambe, per poter essere visti, invocati, toccati, per non marcire dentro di noi, portandoci alla pazzia.»

Guerra, amore, magia
Che si tratti di feroci battaglie nella mischia, di combattimenti corpo a corpo, di rituali magici o iniziatici o di incontri amorosi, ciò che colpisce in questo romanzo è la fisicità estrema, la densa carnalità delle descrizioni.
Le azioni di guerra sono dipinte nel loro dinamismo e anche nella loro furia, con eleganza plastica, con una sensibilità quasi cinematografica che alterna rapidi fotogrammi rappresentati quasi “in soggettiva” e realisticamente multisensoriali, ad ampie panoramiche del campo di battaglia in cui si dipanano le mosse degli schieramenti, in un ritmico sovrapporsi di piani lunghi e di frammenti di primi piani concitati e interrotti. Le suggestive armi dell’epoca – daghe, scudi, lance, archi, scimitarre ricurve, ecc. – e le strategie e i ritmi delle battaglie sono resi sì con attenzione puntuale, ma in maniera vivida e immediata:

«Lo scudiero accanto a lui gli porse subito un altro giavellotto, mentre le due schiere contrapposte si riversavano l’una dentro l’altra, come due torrenti in piena, che si confondono dopo aver travolto gli argini. Spargapysh riabbassò parzialmente lo scudo per ritrovare la visuale, e scoprì che il terreno in quel punto era talmente indurito che il contraccolpo degli zoccoli del cavallo gli rimbalzava fin dentro le gengive. Inaspettatamente un sibilo squarciò l’aria, sfiorando il collo palpitante dello stallone davanti a lui, e solo allora Spargapysh si rese conto che l’ascia di un Persiano aveva solcato il vuoto a una spanna di distanza, mancandolo di un soffio. Sentì il torso del purosangue dilatarsi come un mantice, e, non vedendo più il nemico che aveva tentato di colpirlo in mezzo a quel caos di polvere e di urla, gli afferrò la criniera, stringendo l’asta nel pugno finché le nocche non divennero livide. All’improvviso il suo cavallo accusò un cedimento, e un getto di sangue tiepido gli inondò il polso destro, disperdendosi tra le dita.»

Non è difficile, a partire dal brano appena citato, raffigurarsi in modo parallelo – e lo lasciamo fare al lettore – le piene e suggestive immagini che descrivono le interazioni amorose presenti nella trama. Ci limitiamo a dire che le scene erotiche sono gestite sapientemente dal punto di vista narrativo, senza sbavature e senza indulgervi inutilmente, tuttavia vengono rese in modo esplicito e corporeo, diretto e intenso, senza veli, ma mai banale. Iniziano e finiscono al punto giusto nella storia, anche esse permeate dell’espressione di un’energia originaria, di una sorta di potenza immanente di per sé pura, quando non distorta nelle contorsioni della mente. Si presentano prive di inutile lussuria, morbosità o smania di possesso, ma piuttosto volte a rappresentare la forza che attraverso l’incontro dei corpi e il piacere fisico si tramuta e si rinnova, perpetuandosi. Assistiamo a dialoghi intimi, a gesti a volte quasi cerimoniali in cui la donna appare come il vero motore del desiderio e dell’unione, protagonista di una sorta di trasformazione alchemica dell’energia, di cui l’uomo diviene artefice, stimolato e colmato dalla forza femminile antica e oscura, ma anche generatrice di vita. Convulsi, dolci, intriganti, travolti in una naturale energia orgiastica o ispirati dalla devozione, densi di profumi, di incensi e di colori, misteriosi di penombre o sottilmente audaci nell’esplorazione dei limiti del piacere, i “combattimenti amorosi” sono condotti con la stessa ambizione di abilità e perfezione di quelli guerreschi, con la stessa destrezza operativa e tecnica, e con lo stesso appassionato abbandono. Vi troviamo l’espressione delle polarità maschile e femminile, ma anche quella di una sensualità più indistinta e complice, nelle forme più varie dei gesti, in scene descritte con gusto e – oseremmo dire – gustandole, ma soprattutto facendole gustare ai lettori che sappiano apprezzarle, anche al di là dei preconcetti.
Coerente con questa impronta e descritto con la medesima vividezza e fisicità, si presenta il rituale iniziatico cui Tomyris sarà sottoposta dagli sciamani nella loro isola, nel tempio segreto dedicato alla dea scorticatrice Anahit, preceduto da sogni e allucinazioni e vissuto in una sorta di trance visionaria, che – ci pare – sfiora alcuni elementi vicini alla psicanalisi junghiana, laddove quest’ultima si spinge a considerare gli archetipi della mente e l’energia psichica in azione. A conferma di questa unità di fondo, della coralità dell’approccio e del ritmo narrativo, merita una citazione a parte il riuscito “montaggio parallelo” che alterna nella narrazione della contemporaneità di una notte, ma in luoghi distanti e all’insaputa l’uno dell’altro, il rito purificatore di Tomyris e l’intimo incontro tra Osmidah e Tirghetau, episodi accostati poiché entrambi fonte di una profonda trasformazione e dell’accesso a un livello di consapevolezza superiore.

Più “romanzo” o più “storico”?
Quale sia, in un romanzo storico, il mix appropriato tra realtà storica e immaginazione, fino a che punto del confine tra fedeltà storica e creazione fantastica sia lecito per un autore spingersi, guidato dal suo intuito e dalla sua sensibilità, non è dato dire, ma di certo è proprio questa complessità che rende il genere interessante per un ampio target di lettori. Che si tratti di Storia vera o di narrazione che aspira a imitare la Storia, è pur sempre nella Storia dell’uomo che risiede ciò che affascina e suscita interrogativi nell’animo, e la realtà dei fatti, a volte, ha saputo superare anche la più audace immaginazione.

Luciana Rossi

(direfarescrivere, anno V, n. 45, settembre 2009)
 
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