Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La recensione libraria
Una panoramica sul lavoro minorile:
da piaga a necessità, in contrasto
con la crescente globalizzazione
Da Nuova Dimensione la prospettiva dei piccoli
in toccanti esperienze, contro lo sfruttamento
di Valeria Persechino
Troppo di frequente ci imbattiamo in discorsi di cui sappiamo poco o nulla riportando pensieri frutto di elaborazioni altrui. Questo è il caso del delicato problema del lavoro minorile, che Monica Ruffato analizza nel suo libro Il lavoro dei bambini (Nuova Dimensione, pp. 176, € 13,00), offrendo una visione antitetica a quella generalmente proposta dalla società occidentale che lo vede in maniera deforme, come piaga da debellare sempre e comunque, confondendolo con i crimini contro l’umanità. L’autrice, docente di Sociologia dell’educazione presso l’Università di Padova e attiva collaboratrice dell’Associazione Nats, (Niños y adolescentes trabajadores), di Treviso e di Italianats(rete italiana di appoggio ai movimenti dei bambini ed adolescenti lavoratori in America Latina, Africa e Asia), associazioni impegnate sul versante dei diritti dei più piccoli, raccoglie e riporta le esperienze dei diretti interessati: i bambini lavoratori, i quali combattono non per l’abolizione del lavoro, che è visto invece come esperienza utile e necessaria per la vita stessa, ma per ottenerne uno degno e privo di sfruttamento. L’autrice pone poi l’accento sul disastro che il fenomeno inarrestabile della globalizzazione sta provocando su questi popoli in via di sviluppo.

Osmosi indissolubile tra lavoro e vita
La prima storia riportata da Monica Ruffato è quella di Angie Rocío Díaz Plazas, una ragazza colombiana di sedici anni all’epoca dell’intervista, ora ventiduenne, che racconta con passione la sua vita travagliata. Angie è una fanciulla silenziosa, che ama il teatro, la letteratura, a cui piace ballare e persino bere il vino e la birra. Una ragazza come tante, si direbbe, vedendola dal di fuori, ma, proseguendo nella lettura, ci si rende conto che possiede una smisurata sensibilità e una saggezza inaspettata, data la sua giovane età, qualità maturate in seguito alle difficili esperienze familiari e lavorative. Dalle sue parole traspare con chiarezza la critica al mondo degli adulti, che si ostinano ad imporre il loro volere anche quando questo è palesemente in contrasto con il bene del minore. Ella non percepisce il lavoro come negativo, ma come parte della vita stessa, poiché le permette non solo di vivere meglio, ma soprattutto di crescere come individuo, a patto però che si tratti di un lavoro che nobilita la persona.
Segue il racconto di Ivonne Oviedo Poveda, un’educatrice colombiana, a sua volta già bambina lavoratrice, laureata in Scienze sociali. In passato Yvonne vendeva spazzolini da denti, sapone, materiale scolastico nelle strade della città.
Oggi il suo obiettivo principale è la tutela dei minori e la creazione di nuove strutture pedagogiche ‹‹dove la teoria non resta sulla lavagna, ma arriva e parte dalla pratica e s’incontra con la vita di tutti quelli che abitano l’aula››.
Molto toccante è poi l’esperienza di un educatore peruviano, nato a Cajamarca e anch’egli in passato bambino lavoratore. Alla domanda su quale fosse per lui il significato del lavoro risponde: ‹‹per me era una libertà, lavorare è una possibilità in più che ho avuto… era poter uscire da qualcosa che non mi piaceva, andare fuori non per scappare, ma per cambiare le cose››. Spiega così che il vero problema non è il lavoro in sé, ma il significato che gli si dà. Nella sua concezione lo stato deve adoperarsi per garantire a tutti questo fondamentale diritto umano, ben differenziando tra lavoro degno, lavoro in condizioni di sfruttamento e lavoro non sfruttato ma comunque non degno. Un lavoro e’ classificabile come degno quando lo si utilizza per plasmare la propria esistenza come uno strumento per poter affrontare la vita. Vengono riportate infine varie voci provenienti dall’America latina, dall’Asia e dall’Africa, tutte accomunate dallo stesso scopo: quello di creare democrazia contro le posizioni abolizioniste dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, aventi il solo obiettivo di debellare il lavoro minorile.

Globalizzazione: dal Paradiso all’Inferno
Di particolare interesse è la testimonianza di Nandana Ishibiliya Reddy, sindacalista indiana, laureata in Legge e in Economia, fondatrice del Cwd (Concerned working children), la quale si occupa della partecipazione dei bambini alla realizzazione dei propri diritti. Ella si sofferma sul paradosso che la globalizzazione ha prodotto: da un lato, la possibilità di commerciare con l’estero e quindi di poter bere la tanto pubblicizzata Coca Cola, dall’altro un sempre maggiore impoverimento dovuto soprattutto alla privatizzazione dell’assistenza sanitaria e allo smantellamento dei sussidi per le fasce piu’ deboli. Tutto cio’ ha creato un divario vertiginoso tra ricchi e poveri propugnando, come afferma Alessandro Baricco, ‹‹il trionfo dell’impero americano›› [1].

Il mondo che verrà
L’autrice non solo propone una panoramica ampia del lavoro minorile, ma a dir poco scardina il nostro modo di vederlo e fa capire come ogni nazione possieda una propria cultura e come sia sbagliato voler imporre la nostra propria verità come assoluta. Sarebbe più giusto porre in essere quella philanthropìa, ovvero ‹‹amore dell’uomo››, teorizzata dai greci, che si manifesta nella volontà di essere parte dell’universo insieme ad altri uomini, e come spiega la filosofa e storica tedesca Hannah Arendt: ‹‹il mondo è umano quando è diventato l’oggetto del discorso›› [2].
Andando avanti nella lettura, un numero crescente di dubbi affollano la nostra mente. Non stiamo forse creando una società monoculturale? Davvero la globalizzazione è un fenomeno positivo e capace di debellare la povertà o è vero il contrario? Siamo disposti a vivere in un mondo dove vige sostanzialmente la legge del più forte? Sono tutti quesiti che, da popolo di esterofili, ci stanno stretti. Forse dovremmo ripensare le nostre scelte, le nostre politiche. Il principio base della globalizzazione dovrebbe essere quello della solidarietà, della sussidiarietà, dell’assistenza. Forse questa è solo un’utopia, un delirio ideologico? Forse non è il globale in sé il male del mondo, ma la cultura del locale che non va oltre il proprio naso.

Valeria Persechino

[1] - Alessandro Baricco, Next, Feltrinelli, Milano, 2002, p.31
[2] - Zygmunt Bauman, Amore liquido, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 207

(direfarescrivere, anno VII, n. 63 marzo 2011)
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