Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La recensione libraria
Un avvincente e raffinato noir.
Da Falzea uno scrittore «missionario»
e colpi di scena che si accavallano
Scritto a quattro mani, un romanzo inquietante
con sprazzi di black humour da incubo kafkiano
di Guglielmo Colombero
La copertina suscita una certa suspense già al primo contatto tattile: uno sfondo color seppia, da cui emergono le immagini di una tazzina di caffè, un libro aperto e due macchie vermiglie che, se strofinate con i polpastrelli, rivelano una consistenza diversa, identica a quella del titolo (più scivolosa, come il sangue…). Un biglietto da visita stimolante per Più dell’inchiostro il sangue (Falzea editore, pp. 336, € 15,00), un romanzo in cui si amalgama la sinergia creativa di due autori: Silvia Roncaglia, che annovera già una cinquantina di pubblicazioni per ragazzi, e Roberto Cavalli, romanziere a tempo pieno (il suo lavoro più recente, Il centesimo scherzo , è uscito nel 2008) che, a quanto pare, esercita realmente la professione di «scrittore missionario», come il suo alter ego letterario, protagonista di questo libro, nella finzione narrativa: vale a dire aiuta gli aspiranti narratori a prendere il largo dalle secche dell’anonimato. Una commistione esemplare, quasi canonica, fra ispirazione letteraria e vita vissuta…

Le aquile non portano i jeans!
Il protagonista, un torinese quarantenne di nome Enrico Valli, si presenta al lettore con queste parole: «Mi piace essere padrone assoluto del mio tempo e per questo ho scelto il mestiere che faccio: lo scrittore missionario». E più avanti chiarisce: «Amo sentirmi respiro puro della creatività fatta parola, quando la pagina bianca emette un suo vagito e diventa un sentiero di frasi, una voce suadente che inchioda il lettore al testo, strappandolo dalla tirannia del telecomando per ripetere, grosso modo, il miracolo di Gesù con Lazzaro». Ovviamente, una professione del genere non è particolarmente redditizia, per cui il nostro Enrico non naviga certo nell’oro: si barcamena come può in un ginepraio di ristrettezze economiche (talvolta si accontenta di «un anticipo sotto forma di cappuccino» e nel portafoglio ha «una tessera del tram obliterata quattro volte»). Frequenta una donna single, Claudia, che vive in compagnia di un «esercito di bambole» che le ha regalato il suo ex, un certo Dario, un fantasma amoroso dal quale lei non riesce a liberarsi. Fanno l’amore tristemente, in macchina: «alla fine penso che se avessi un toupet e una bombetta, io e Claudia si finirebbe appesi in un museo. Dentro un quadro di Botero». Enrico ha ricevuto tramite posta elettronica un paio di cartelle da una nuova potenziale «discepola», una certa Mariposa: il titolo lo ha incuriosito, Le aquile non portano i jeans! Il flusso dei files , che la misteriosa scrittrice gli trasmette, scandisce la narrazione e funge da spartiacque ogni cinque o sei capitoli. Per combattere lo spleen esistenziale che lo affligge, Enrico ogni tanto si concede una capatina in una casa d’appuntamenti: Emma, la maîtresse («è grassa ed è abbronzata, somiglia a un panettone»), gli presenta una nuova entraîneuse, Sara, che Enrico trova assai intrigante («microslip e reggiseno nero, scalza, un po’ triste, ma bellissima. I suoi occhi sono ancora più neri e profondi e il suo volto si riflette rovesciato sulle mie retine e me le incendia»). Un altro passatempo prediletto da Enrico sono le partite di calcio a Vercelli, nel campetto sportivo di Villa Silvana, una clinica per disagiati mentali il cui vicedirettore è un suo amico (e pare che anche questo dettaglio non sia pura invenzione letteraria: la clinica esiste veramente, e le partite si disputano sul serio). Inoltre, Enrico ha in cantiere il romanzo di un’altra aspirante scrittrice, Marta, l’opera è dedicata ai felini che lei adora (Marta vive con «due gattine ruffiane, surrogato di figli mancati oppure no»), e che gli lascia un’impressione di pacata bonarietà («credo che pensi a me come a un cialtrone benevolo, buono per farci due chiacchiere ogni tanto»).

Il colpo di scena smascherato dal gioco della penna
Enrico rivede Sara nella casa di piacere di Emma, e, mentre si sta spogliando, gli riaffiora in mente il titolo del testo inviato da Mariposa. Ne scaturisce una battuta: «Le aquile non portano i jeans!», al che, colta da un raptus omicida, Sara impugna un coltello da cucina e gli sferra una coltellata nel torace… Un colpo di scena che si verifica anche nel romanzo di Mariposa: «Solo uno, due, tre lampi salgono dal ventre al cervello e si espandono in cerchi concentrici e sempre più larghi di buio», ma con la differenza che, in quest’ultimo, la vittima non si fa chiamare «scrittore missionario» ma «scriba segreto». Insomma, Sara e Mariposa sono la stessa persona… Ci fermiamo qui nel dipanare la matassa narrativa del romanzo, per non guastare la sorpresa ai lettori, limitandoci ad avvertirli che di sorprese, in questa storia, ne troveranno ancora parecchie, e del tutto inaspettate: la ferita inferta da Sara non è mortale («Era come se, oltre ad avermi smascherata, ti prendessi gioco di me, dei miei sogni, e ho perso la testa», si giustifica lei in seguito), e il risveglio di Enrico, svenuto a causa dello shock , avverrà in circostanze alquanto insolite e allucinate…

Un thriller accattivante, sul filo di una realtà sconvolta
Con la sua consueta passione per gli esperimenti letterari che tentano di infrangere la cappa plumbea della banalità (un miasma insidioso che da anni opprime e soffoca il panorama editoriale italiano), l’editore Falzea ci propone un romanzo articolato su molteplici chiavi di lettura, e brulicante di un vivace fermento di sottotesti: Più dell’inchiostro il sangue inizia come il diario di una malinconica deriva esistenziale, ambientato nel mondo frustrato degli aspiranti scrittori che si illudono di possedere un talento che non c’è (e pagano uno scalcinato imbonitore come Enrico pur di continuare ad alimentare questo loro miraggio), prosegue sui binari di un raffinato parallelismo fra realtà quotidiana e finzione letteraria, e infine scivola lentamente in un’atmosfera sempre più rarefatta e stralunata che, se da un lato sembra voler perfidamente parodiare i polpettoni americani sullo stile di Misery non deve morire di Stephen King (Sperling & Kupfer, 1988), dall’altro, con il tono apparentemente dimesso del racconto ma, fra le righe, mordace e graffiante, ricrea certe suggestioni alla Simenon, senza mai però cadere nei consunti stereotipi alla Camilleri (lo sfondo torinese si percepisce appena, con qualche vivace pennellata di folclore locale). Alcuni passaggi lasciano il segno (sospesi fra slanci di tenerezza e una sottile vocazione alla ferocia), come l’ultimo colloquio con il padre morente all’ospedale, che riemerge nei ricordi di Enrico: «Penso a mio padre che mi ha lasciato da qualche anno, morto di noia e di enfisema polmonare. “Sono contento che nella vita non fai un cazzo!” – mi disse l’ultima volta che ci vedemmo». Oppure il momento in cui Enrico decide di scaricare l’assillante Claudia (ma la ritroverà dove mai avrebbe potuto immaginare…): «Lei mi sfiora la guancia. Io allontano la sua mano come fosse un moscone». Nei files di Mariposa, poi, incuneati nella trama quasi come corpi estranei che però allungano i tentacoli verso i raccordi narrativi esterni e finiscono per creare un intreccio avvincente, lampeggiano sprazzi di taglio quasi kafkiano: «Solo più tardi, nell’emorragia psichica notturna che sommergeva ogni ragionevolezza, avevo riconosciuto l’identità fra l’episodio appena vissuto e il vecchio incubo ricorrente». E anche il background lessicale si mantiene sempre caustico e pungente, come quando, nel ristagno claustrofobico seguito alla coltellata, Enrico e Sara litigano sull’etichetta da attribuire allo scritto di lei: racconto lungo o romanzo breve? Il personaggio della donna mantide che avviluppa il protagonista, poi, è tratteggiato con una sensualità che ricorda i fumetti erotici e decadenti degli anni Novanta, alla Milo Manara e alla Paolo Eleuteri-Serpieri: «I suoi occhi neri pulsano. I capelli lisci le cadono sulle spalle e per prendere o posare il bicchiere si muove sul pavimento a gattoni come una pantera. Una tuta bluastra l’avvolge, aderente sulla pelle. A ogni suo movimento mi perdo nello spacco assoluto e perfetto del suo didietro».
Page turner colto e accattivante, per nulla pretenzioso (i due autori non si sbilanciano mai sul versante dell’intellettualismo fine a se stesso, ma circuiscono il lettore con un approccio sempre amichevole), questo giallo torinese è insaporito dal sedimento piccante del sarcasmo e della demistificazione della scrittura gaglioffa di certi gialli nostrani. Una prosa curatissima e una limatura incessante delle sfumature espressive sono i pregi più notevoli di un romanzo decisamente fuori dagli schemi abituali, imprevedibile e vagamente sbarazzino come una parabola grottesca, ma capace anche di rappresentare la quotidianità attraverso la lente deformante della caricatura e del divertissement tinteggiato di noir . Sempre con un certo bon ton letterario. Per palati raffinati, ma anche per chi ama la lettura come gradevole passatempo non del tutto privo di effervescenza culturale.

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno VII, n. 61 gennaio 2011)
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