Andrea Giuli, nel suo Quel che c’è da fare prima di morire. Venti apologhi moderni sulla (non) verità (Robin edizioni, pp. 166, € 13,30) compone un mosaico di racconti che esplorano la fragile linea tra illusione e realtà, tra apparenza e sostanza.
Il titolo evoca una tensione esistenziale: l’urgenza di compiere ciò che è necessario prima che la vita giunga alla sua conclusione. Eppure, al centro delle narrazioni si cela un nodo più profondo: la verità, nella sua forma mutevole e spesso inafferrabile.
L’autore costruisce venti apologhi che oscillano tra il filosofico e il quotidiano, scavando nelle pieghe dell’animo umano e mostrando come la verità sia spesso un’illusione costruita, manipolata o negata.
I personaggi delle storie, pur diversi tra loro, sono accomunati da un senso di spaesamento e di ricerca interiore. Giuli li racconta con uno stile denso di immagini e suggestioni, dove il realismo si intreccia con una dimensione quasi onirica.
L'illusione della felicità: “Il bel lavoro”
Già dal primo racconto, Il bel lavoro, il lettore viene trascinato nella storia di Giovanni, un uomo alla ricerca di una realizzazione mai raggiunta. «Giovanni crebbe come molti sotto le bombe e come alcuni con scarsi affetti familiari, [...] ciò che sicuramente è vero è che fu un uomo di doppiezze e di mancanze».
Questa descrizione introduce il personaggio con un’aura di malinconia, ponendo subito l’accento sulle contraddizioni della sua esistenza. Giovanni non è solo un uomo in fuga, ma un’ombra che si dissolve tra viaggi e affari nebulosi, fino alla sua scomparsa definitiva.
L’intera sua esistenza è un pendolo tra ambizione e fallimento, tra desideri inespressi e tentativi di affermazione che non trovano mai compimento. Il rapporto con il misterioso Gunther, imprenditore delle nevi, simboleggia il suo bisogno di un riconoscimento che non arriva mai.
Anche la sua partenza finale, apparentemente determinata, si traduce in un’assenza che non lascia traccia: «Non trapassò mai più in senso inverso quell’orrido cancello tutto onde di latta della dimora villana». La verità sulla sua sorte si dissolve nel nulla, come la sua esistenza.
Un amore mancato: “Ribellarsi è giusto”
Nel racconto Ribellarsi è giusto, il professor Quirini rappresenta l’inerzia dellaroutine, un uomo intrappolato nella ripetitività quotidiana, incapace di afferrare la breccia di libertà che gli si presenta. «Era un maggio declinante e pieno di polluzioni floreali per l’aria», un’immagine poetica che accompagna il lettore nella progressiva ribellione del protagonista. Quirini incontra Nella, figura che incarna una fuga possibile, ma alla fine si lascia scivolare nell'indecisione, senza concretizzare il desiderio di evasione.
L’incontro con Nella avviene casualmente, ma si carica di una tensione latente: il professore sente un’attrazione che non si limita al piano fisico, ma si estende alla possibilità di un’esistenza diversa. Tuttavia, nonostante le loro conversazioni si intensifichino, tutto si conclude nel nulla. Nella svanisce, come un’illusione, e Quirini ritorna alla sua esistenza di sempre, forse più consapevole della sua incapacità di cambiare. Questo racconto incarna perfettamente la tematica centrale del libro: la verità non è sempre accessibile, e spesso è più comodo negarla a se stessi.
Giustizia e tormento: il dilemma morale di un giudice
Uno dei racconti più densi di tensione morale è Giustizia e tormento, dove il giudice Rabbuiati si confronta con le scelte di un passato che lo tormenta. «Dondola, giudice, dondola…» è la frase che accompagna la sua ossessione, il rimuginare su una sentenza che ha segnato una vita ingiustamente. L'apparizione di una lettera postuma dell'imputato condannato ingiustamente ribalta le sue certezze e lo getta in un vortice di rimorsi.
Rabbuiati è un personaggio emblematico: rappresenta il conflitto tra la legge e la giustizia, tra la verità processuale e quella umana. La sua condanna di Rossi Rodriguez, fondata su prove inconsistenti, lo perseguita fino alla vecchiaia, quando riceve una lettera postuma dell’uomo che ha mandato in carcere: «Me ne vado tranquillo dopotutto. Lei giudice lo è?». La domanda risuona come un macigno, lasciando il giudice in un limbo di colpa irrisolvibile.
Il peso della scrittura: La vanità viene dopo
In un’opera che riflette sulle illusioni, non poteva mancare un racconto dedicato alla scrittura e al suo valore. La vanità viene dopo affronta l’ossessione di chi scrive per affermarsi, interrogandosi sulla vera natura dell’arte e della riconoscibilità. «Chi è il poeta? Cosa è la poesia? Tutto sommato, non saprei rispondere esaustivamente, nonostante una vita a essa dedicata». Un’amara riflessione che tocca ogni scrittore, sospeso tra il desiderio di lasciare un segno e la consapevolezza dell’irrilevanza dell’ego.
Giuli qui esplora il rapporto tra talento e riconoscimento, tra scrittura e mercato, mettendo in discussione il significato stesso della creazione artistica. Il protagonista si scontra con un aspirante poeta che cerca conferme, solo per ricevere una risposta brutale: «Forse dovresti smettere». Questo scambio sintetizza il dilemma di chi scrive: l’arte è un bisogno, ma anche un’illusione
Struttura e stile
Il libro è composto da venti racconti autonomi, ma accomunati da un filo conduttore che li rende parte di un unico grande discorso sulla natura della verità e sull’esperienza umana. Ogni storia è costruita con una sapiente gestione della tensione narrativa, alternando momenti di riflessione interiore a situazioni più dinamiche, spesso segnate da un elemento di sorpresa o di paradosso.
Lo stile di Giuli si distingue per una scrittura raffinata e suggestiva, che combina il lirismo a una vena ironica e dissacrante. L’autore fa largo uso di immagini evocative e di un linguaggio ricco di sfumature, capace di restituire il senso di inquietudine e di spaesamento che attraversa i suoi personaggi. La prosa, pur essendo elaborata, mantiene una fluidità che consente una lettura scorrevole, senza mai risultare pesante o artificiosa.
Uno degli aspetti più interessanti è la varietà delle voci narrative: alcuni racconti sono in terza persona, con un narratore onnisciente che osserva dall’alto le vicende dei personaggi, mentre altri adottano un punto di vista più interno, quasi confessionale. Questo gioco di prospettive contribuisce a creare un senso di molteplicità e di ambiguità, coerente con il tema centrale del libro: la difficoltà di afferrare una verità univoca.
I racconti di Andrea Giuli si muovono su un filo teso tra il surreale e il concreto, tra il grottesco e il drammatico, costruendo personaggi complessi che incarnano l'irrisolvibile ambiguità della verità umana. Ogni storia lascia un retrogusto di irrisolto, un invito a interrogarsi sulle proprie certezze. La verità non è mai pienamente afferrabile, ed è proprio in questa incertezza che risiede la forza del libro.
La prosa dell’autore si distingue per uno stile lirico e incisivo, a tratti ironico, capace di incantare con immagini evocative e di colpire con riflessioni taglienti. Quel che c'è da fare prima di morire è un’opera che sfida il lettore a osservare la vita con occhi più critici, e a riconoscere che, forse, la verità è solo un'illusione ben raccontata.
Ivana Ferraro
(direfarescrivere, anno XXI, n. 232, giugno 2025)
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