Il poeta dei quartieri popolari di Francesco Pisani (Nep edizioni, pp. 110, € 15,00) è una raccolta di brevi racconti aventi come protagonisti persone comuni e, più precisamente, “gli ultimi”: coloro che abitano, nel teatro freddo e grottesco delle città italiane – rappresentative, secondo Pisani, di tutto il mondo occidentale – i quartieri popolari.
L’autore dedica poche pagine a ciascuno dei dieci personaggi principali di altrettanti concisi racconti: scatta diapositive sui ceti sociali meno abbienti nella società contemporanea, in cui la logica del guadagno e degli interessi personali hanno preso il sopravvento sull’attenzione al prossimo.
Nei quartieri popolari del XXI secolo, la massa informe calpesta i meno abbienti, vittime inconsapevoli della loro stessa esistenza tirata dai fili sottili del tempo, della fatica, della rassegnazione all’indifferenza dei propri vicini. Pisani, attraverso semplici storie di vita, fa luce tanto sugli invisibili quanto sul cinismo e l’egoismo dei più abbienti che vivono nel teatro delle città occidentali da protagonisti, e troppo presi dal loro tornaconto sono incuranti del dolore che li circonda.
In questo quadro drammatico, dove chi non possiede nulla è destinato a morire nel dolore, e dove l’indifferenza dei più ricchi «mangia il cuore e l’umanità stessa», l’autore si eleva attraverso la poesia, che pervade la narrazione e dona un barlume di speranza anche di fronte alla morte: la speranza, o la fede, nel risveglio dell’essere umano, che solo attraverso l’amore potrebbe riscattare la propria umanità.
La vita degli ultimi: i sacrifici per sopravvivere e il dolore dei sogni infranti
La vita dei quartieri popolari passa attraverso il duro lavoro: quello estenuante di chi lotta per la sopravvivenza, di chi non può permettersi il lusso di vivere bene, o anche solo della sicurezza di svegliarsi il giorno dopo. È il caso del fornaio egiziano sottopagato e sfruttato per oltre dieci ore al giorno, prosciugato dal calore del forno, che – non appena va in burn out per i ritmi disumani a cui è sottoposto – viene sostituito come una macchina mal funzionante dal suo datore di lavoro e lasciato morire in mezzo alla strada in preda alle allucinazioni.
È il caso della prostituta romena, iniziata al suo lavoro a quattordici anni dal suo stupratore: un viscido e avido riccone più legato ai soldi che ai suoi sfessi figli. Da allora, lei vende il suo corpo ogni giorno e prega Dio di darle la forza per superare il dolore di aver rinunciato ai suoi sogni.
C’è la badante moldava, così devota alla sua signora da morire precipitando da una scala nell’atto di spolverare una preziosa enciclopedia dimenticata sull’ultimo scaffale di una libreria. O il lavavetri, che rifiuta le scorciatoie della delinquenza e combatte in prima linea contro l’indifferenza degli automobilisti benestanti: è la pietà che suscita ai loro occhi a riempirgli le tasche di quei pochi spicci con cui si sfama e beve per dimenticare di essere imprigionato nell’emarginazione e nella miseria.
Nella cupa giungla urbana, dove i sentimenti sono cementificati insieme agli imperanti palazzoni popolari, è la poesia – incastonata nella narrazione in brevi sequenze descrittive – ad alleggerire la lettura del dolore degli ultimi.
Lo sguardo del poeta popolare – entità esplicitata nell’ultimo racconto, ma presenza aleatoria in tutto il testo – dissemina puntini di colore nel grigio quadro della città.
È un umile osservatore, canta e scrive del popolo che lo circonda, un tempo così vivo, ad oggi schiacciato dal grigiume del cemento, dall’indifferenza, dalla morte della speranza: «Non si desidera la vita – entità astratta, crudele ed evanescente – ma la speranza di vivere realmente anche per un singolo giorno, per un breve momento».
La contrapposizione tra il grigiume urbano e i colori delle realtà rurali
«La città ha i “nuovi contadini”. E in nuovi contadini indossano uniformi tutte uguali e non lavorano la terra nera che sporca il corpo, ma una terra artificiale manipolando pezzi di carta che sporcano l’interno dell’anima; e i nuovi contadini non usano le bestie per muoversi, ma scatole di latta e di vetro; e i nuovi contadini non lavorano da quando canta il fallo a quando cantano i grilli, ma al ritmo costante di timbri e battiti di orologio».
Queste le parole del padre della prostituta romena, che lei ricorda anni dopo aver lasciato la sua famiglia di montanari della Romania: la natura le mostrava da bambina la vita per ciò che era, «un giardino incantato donato da Dio». Pisani crea un’accentuata dicotomia tra i ritmi serrati della grigia città e i paesaggi bucolici dai quali provengono vari personaggi: il villaggio in una vasta vallata da cui proviene la ragazza di 16 anni, protagonista del quarto racconto, è un luogo non definito, simbolo di tutto ciò che non è Occidente urbanizzato. È lì che le persone, nella semplicità delle mansioni e dei rapporti sociali, preservano ancora la loro umanità.
Anche la prostituta si aggrappa al ricordo della propria terra natia, così come il lavapiatti nigeriano quando osserva i ricchi clienti del ristorante in cui lavora mentre si abbuffano come porci, e ricorda la ritualità e la condivisione che accompagnavano ogni pasto nella sua Africa.
Pisani fa riflettere sulla dannosità dei ritmi incessanti delle città occidentali: la quiete di chi ne vive al di fuori è nutrimento per l’animo, preserva l’umanità di ognuno.
Una speranza che si fa fede, forse destinata a morire
La speranza è un filo conduttore tra le vite dei vari personaggi: ultima risorsa per chi è allo stremo, per chi conduce la stessa massacrante routine da anni, lontano dai propri sogni e dai propri affetti. È una speranza che si fa fede: «Benedici l’infinita sofferenza di non essere stata quel che volevo» dice la prostituta romena, che prega il Signore ogni sera, prima di abbandonarsi a un sonno che la condurrà al dolore della giornata seguente.
La preghiera è ciò che resta alla malcapitata, il solo momento in cui, nella consapevolezza della propria miseria, ricerca conforto in Dio, lontano da una terra che sa darle solo dolori. Prega anche la badante moldava, ogni sera prima di coricarsi, mentre stringe a sé la foto del suo fratellino.
C’è poi il sacerdote, unico personaggio appartenente a un ceto sociale più alto, acculturato uomo di chiesa nato in una favela argentina: trova in Dio quel conforto che la società in cui vive, dove naviga nel «cinismo, nell’intolleranza e nell’indifferenza comune» non può dargli.
Pisani, tra storie di sofferenza e di morte, disegna un’umanità smarrita, forse destinata a perdersi per sempre. Il destino della «stirpe di quelli che vivono sperando» sembra già segnato, e l’unico conforto è la fede, la preghiera, nella speranza di risvegliarsi in una condizione migliore.
Un libro per vivere senza ignorare e ignorarsi
L’efficacia del linguaggio adottato da Francesco Pisani e l’attualità delle tematiche trattate rendono la raccolta una lettura molto stimolante. Nel susseguirsi dei racconti, l’ottimismo non è di certo preponderante: la crudeltà del mondo che dimentica chi è in difficoltà sembra destinata a peggiorare fino a inghiottire definitivamente gli ultimi resti di umanità dell’Occidente.
Il poeta è colui che vede da fuori la barca che affonda, ed è in grado con la sua sensibilità di rendersi consapevole del tracollo: forse è proprio la consapevolezza ciò da cui partire per cambiare l’esito di un finale che sembra già scritto. Non dare nulla per scontato, conoscere se stessi, i propri privilegi, e saper cogliere le sfumature di una società in cui si parla sempre più per assoluti, dove la corsa all’utile e alla comodità affievolisce i rapporti umani e, con essi, l’attenzione al proprio vicino, che in fondo è sulla nostra stessa barca.
Guglielmo Bussoletti
(direfarescrivere, anno XXI, n. 231, maggio 2025)
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