Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La recensione libraria
È necessario rivedere il modo
di intendere i tratti dell’esistenza
per curare i danni inflitti al mare
Per Infinito, l’urgente bisogno
di equilibrio tra l’uno e il tutto
di Mario Saccomanno
La pressione dell’uomo sull’ecosistema, soprattutto a partire dalla Rivoluzione industriale, è angosciante. Negli ultimi decenni, la perdita di biodiversità è stata in costante aumento al punto che si è cominciato a parlare con sempre più insistenza di una sesta estinzione di massa ormai in atto.
Senza alcun dubbio, quanto detto coinvolge pienamente anche gli animali acquatici, la cui esistenza è condizionata dalla serie di danni consistenti che gli esseri umani apportano quotidianamente all’ambiente marino. Così, cernia, verdesca, pesce spada, squalo bianco, oltre a vari molluschi, mammiferi e coralli, sono solo alcune delle specie su cui piomba la minaccia dell’estinzione.
Un esempio su tutti può far comprendere la gravità di quanto appena affermato. Tra i pesci d’acqua dolce più grandi che hanno popolato la Terra nel corso dei millenni va annoverato il pesce spatola cinese, la cui lunghezza massima poteva raggiungere perfino i sette metri. Vissuto nei grandi corsi d’acqua, soprattutto nello Chang Jiang, che in Occidente è conosciuto come Fiume Azzurro, nel 2020 è stato ufficialmente ritenuto estinto dopo che le numerose campagne di ricerca non hanno portato a nessun avvistamento.
Le cause sono state la pesca incontrollata, il prelievo delle uova e la costruzione di dighe, tra cui quella delle Tre Gole che, situata proprio sul Fiume Azzurro, risulta essere l’impianto per la produzione di energia idroelettrica più grande al mondo. Agendo in questo modo, l’uomo ha modificato l’habitat della specie, impedendone i movimenti migratori atti a raggiungere le zone di riproduzione. Così facendo, già negli anni Ottanta era scattato l’allarme sulla sopravvivenza stessa del pesce spatola cinese.
È uno dei numerosi esempi che si incontrano nella lettura del libro Il pesce è finito. Lo sfruttamento dei mari per il consumo alimentare (Infinito edizioni, pp. 144, € 14,00) scritto da Gabriele Bertacchini. Sono testimonianze che servono ad avvalorare i numerosi contenuti del testo. All’interno, sopra ogni altra cosa, l’autore mostra quanto il contesto attuale, globalizzato e capillarmente interconnesso, imponga un cambio di tendenza basato anche e soprattutto sul ripensamento del rapporto uomo-mare.
Così, nel mettere in risalto la bellezza dei colori di cui si compone il mondo, viene sottolineata l’impellenza di salvaguardare ogni cosa attraverso la messa in atto di paradigmi differenti che, sorretti da un nuovo agire quotidiano, arginino, per poi eliminarle del tutto, quella serie di brutture, dalle microplastiche ai cambiamenti climatici, che segnano oggigiorno la Terra.

Il bisogno di restare nei limiti richiesti dal pianeta
Sin dal Prologo Bertacchini evidenzia il forte legame personale intessuto col mare. È un aspetto che può essere riassunto attraverso una frase che si incontra nella prime pagine del testo, in cui l’autore riferisce proprio a proposito di questa sua vicinanza: «Non c’è stato anno della mia vita in cui non l’abbia visto, vissuto e respirato a lungo». Di sicuro, così come emerge dalla lettura del libro, si tratta di un contatto che lo ha reso spettatore di un profondo cambiamento che si è verificato tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.
In realtà, a ben vedere, il processo in cui era immerso era già iniziato da tempo e, nel periodo seguente, si sarebbe palesato con tono ancora più acceso fino a raggiungere la conformazione odierna, in cui i dati che si rivelano impongono un cambio di tendenza radicale.
Dal riscontro personale e dalla profonda vicinanza col mondo acquoreo, Bertacchini ha coltivato gradualmente l’urgenza di soffermarsi su quella serie di problematiche annose e stringenti passate in rassegna in apertura.
Nel libro, tutte le sue considerazioni sono anticipate dalla Prefazione firmata dal pluricampione del mondo di apnea Umberto Pelizzari. Anche in quel contesto vengono sottolineate le particolarità del mare, l’urgenza di comprenderne i tempi e i ritmi e il bisogno di capire d’essere parte di un qualcosa di più ampio, che definisce ogni individualità.
Il bisogno di assecondare le cadenze del mare cozza con la mente dell’uomo che troppo facilmente tende a considerare naturale soltanto quanto osservato nel suo presente. Non a caso, Bertacchini si affida alle parole del biologo marino Daniel Pauly che afferma: «Noi trasformiamo il mondo ma poi non ce ne ricordiamo». Così, il testo è in primo luogo un resoconto di quanto è già accaduto. Da qui, subentra la necessità di agire.

Le risorse non sono infinite
Sebbene mari e oceani siano così vasti, tanto da occupare il 71% della superficie terrestre, non sono infiniti. Lo stesso vale per quello che contengono. Mettere in risalto questo aspetto può sembrare un’ovvietà, ma è proprio sul concetto di esauribile che gravitano attorno le annose problematiche attuali e, da lì, tutte le riflessioni presenti nel testo che si sta prendendo in esame.
Infatti, l’esauribilità si scontra col mantra economico della crescita esponenziale pronunciato a gran voce dai leader dei paesi occidentali e industrializzati. Bertacchini mette in risalto due aspetti decisivi nell’affrontare un tema così stringente e spinoso. Il primo è che questo tipo di interessi non riguardano interamente la popolazione presente sulla Terra, sebbene la struttura costruita attorno al paradigma della crescita abbia reso una priorità, se non proprio un’ossessione, questo modo d’agire.
Il secondo elemento di fondamentale importanza è la riflessione sul significato più profondo del termine. Infatti, riferisce l’autore, occorre chiarire se con “crescita” si debba intendere solo l’aumento dei consumi che concorrono «affinché a fine anno ci sia un piccolo segno “più” nei diversi settori produttivi». Se così fosse, ammonisce Bertacchini, è inevitabile comprendere che «per qualche cosa che cresce, inevitabilmente, qualche cosa d’altro diminuisce».
A ben vedere, sono diversi gli autori che già dall’Ottocento hanno messo in guardia dall’uso smodato della scienza e della tecnologia. Il mito del progresso, di una futura e prossima età dell’uomo segnata dal benessere e dalla felicità, si è scontrato con le stragi che hanno macchiato irreversibilmente il Novecento.
Sopra ogni altra cosa, l’utilizzo del nucleare ha mostrato i lati oscuri che contengono gli ultimi traguardi umani. Eppure, ancora oggi, il perseguire a tutti i costi una crescita smisurata, percepita come inevitabile e necessaria, al di là delle varie conseguenze dannose che può generare, è ben presente nella mentalità di diversi individui.
Così, il tentativo di Bertacchini è principalmente quello di far comprendere che la Terra non può essere considerata al pari di un emporio «con risorse da prelevare in continuazione, dove si può prendere, a proprio piacimento, tutto quello che si trova».

La pesca è la peggiore minaccia degli abitanti del mare
L’ossessione della crescita, come detto, riguarda tutti i settori, compreso il mercato ittico. Nel testo, Bertacchini sottolinea come soltanto nel Novecento si sia cominciata a registrare una pesca con connotati industriali. Eppure, afferma l’autore, «in cento anni, il tempo perduto è stato alla svelta recuperato» al punto che, «dal 1950 al 2000, secondo alcuni ricercatori, quasi una zona di pesca su quattro, a livello mondiale, è collassata».
Sono dati che permettono di sottolineare come la cattiva pesca sia la prima delle minacce per gli abitanti del mare. È un aspetto intimamente connesso al modo odierno di intendere l’esistenza, l’economia e lo spazio che ci circonda. Infatti, il problema di una pesca siffatta si lega a stretto giro ad altre questioni stringenti – inquinamento, degradazione degli habitat, turismo di massa, microplastiche, innalzamento delle temperature – di cui si è cominciato a parlare con una certa insistenza soltanto nell’ultimo periodo. Ovviamente, su questi elementi Bertacchini si sofferma a più riprese nelle pagine del libro.
Inoltre, nei vari capitoli è evidenziato come la diversità alimentare si sia gradualmente sempre più appiattita. Quanto detto vale anche per il mercato ittico. Infatti, le pressioni su quelle determinate specie che risultano appetibili per il mercato sono aumentate a dismisura negli ultimi anni.
Ancora, nel libro non mancano diverse analisi sugli attrezzi di cattura, aspetto che permette all’autore di soffermarsi ampiamente sulla crudeltà di quei gesti, compiuti solo per soddisfare i propri interessi, che finiscono per annientare la sacralità di ogni esistenza e il conseguente dovuto rispetto.
Bertacchini evidenzia a più riprese come una soluzione a questi cocenti problemi non possa essere in alcun modo l’allevamento dei prodotti ittici. Una scelta siffatta non reciderebbe in alcun modo il carico di violenza nei riguardi dei pesci, a tutti gli effetti gli animali «più sfruttati al mondo», che quasi sempre non vengono neanche considerati tali, finendo per essere equiparati a veri e propri prodotti, prelevati da un mondo percepito come distante soltanto per il proprio uso e consumo.
Dunque, al di là del carico di violenza che non verrebbe a cessare, l’autore è fermo nel ribadire che alcune specie non potrebbero riprodursi in cattività e che non sarebbe in alcun modo possibile «ricreare la magica alchimia dei diversi parametri dentro una gabbia». A tal proposito, un’affermazione perentoria contenuta nel libro scioglie ogni riserva: «La natura non può essere fregata con dei giochi di prestigio, seppure fatti a regola d’arte e ben eseguiti».

Pensare in modo globale per avere un mondo globalizzato
Il tema delle disponibilità pur sempre limitate e della crescita economica si lega a stretto giro anche l’aumento demografico. In tal senso, le proiezioni più recenti lasciano intendere che nei prossimi decenni la tendenza registrata nell’ultimo lasso di tempo raggiungerà cifre pressoché ingestibili.
Affrontando il tema Bertacchini evidenzia quanto affermato anche dallo storico israeliano Yuhal Noah Harari che, nelle sue riflessioni, parlando proprio dei drammi che marcano l’attualità, conclude mettendo ben in luce come a problemi globali debbano seguire inevitabilmente risposte altrettanto universali.
In merito, Bertacchini è tassativo: «Se si vuole avere un mondo globalizzato, perché fa comodo avere tutto quello che la società di oggi riesce a offrire, bisogna anche pensare in un modo globale; altrimenti meglio fare marcia indietro, cosa che, per l’ambiente e per noi, non sarebbe proprio un male».
Dunque, a patto di un improbabile cambio di tendenza che faccia rinunciare ai traguardi ottenuti a favore di una vita più sana, l’autore chiarisce quanto risulti urgente che il pensiero debba aprirsi alla collettività. Di conseguenza, ogni gesto individuale deve sempre sottostare a una visione più ampia.
Di sicuro, Bertacchini mette ben in luce come, per cogliere i frutti maturi di questo nuovo agire, non è possibile affidarsi solo ed esclusivamente alla scienza, i cui occhi sono foderati e spesso, riportando proprio le parole dell’autore, «vedono solo una piccola parte della realtà e coltivano le convinzioni del momento, che non sempre hanno modo di trovare riscontro nel futuro».
È chiaro che non si tratta di un qualcosa di semplice e immediato. Al contrario: si è dinanzi a una presa di consapevolezza che, per realizzarsi, ha bisogno di sopraggiungere a diversi traguardi intermedi, tutti ramificanti a partire dal bisogno di pensare a un equilibrio indispensabile tra il singolo e la totalità. Così, è possibile concludere affermando che è proprio questa nuova stabilità che Bertacchini augura e contrappone a ogni tipo di bruttura e disarmonia rilevabile nel presente.

Mario Saccomanno

(direfarescrivere, anno XIX, n. 204, gennaio 2023)
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