Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La recensione libraria
La Storia vissuta al femminile:
un riscatto morale contro
le molteplici “false” verità
Chiara Pepe, per Les Flâneurs Edizioni,
rievoca le vite, e i miti, di donne famose
di Luigi Innocente
Storia e Mitologia sono facce della stessa medaglia; l’una messaggera di eventi realmente accaduti, l’altro frutto di elaborazioni fantastiche, scaturite però sempre da un profondo senso del reale.
Storie di eroi, veri o inventati; vicende, anch’esse presunte o certe, tramandate durante il corso dei millenni, hanno arricchito la cultura popolare di centinaia di generazioni.
Si dice che la Storia spesso sia stata scritta dai vincitori; si può sostenere, forse sbagliando, che il mito sia una sorta di mero riflesso “grafico” della Storia stessa, ma è assolutamente certo che tali discipline rappresentano un enorme contenitore di conoscenza e insegnamento.
Battaglie, guerre di conquista, voglia di potere, ingiustizie costituiscono l’humus, pervadendo ogni periodo storico, di ogni epoca; uomini illustri, abili strateghi ed eroi di ogni tipo ne sono i principali protagonisti. Eh già… avete letto bene. Uomini, solo uomini, a quanto pare!
Davvero la Storia deve essere raccontata, e studiata, con le solite sfaccettature? Perché non lasciarsi dominare dalla curiosità, dal senso della scoperta, e, perché no, da un po’ di fantasia? La Storia si scopre, non si crea, questo è certo, ma scoprirla con un occhio diverso è lecito e proficuo.
Chiara Pepe, giovane scrittrice pugliese, laureata in Scienze storiche e attualmente dottoranda di ricerca, già operatrice culturale per la Fondazione “Pino Pascali”, e collaboratrice nel Seminario di Storia della Scienza dell’Università degli Studi di Bari, ci guida in un viaggio fantastico, attraversando ere passate e incontrando stavolta non eroi, guerrieri e miti già conosciuti, ma donne, tante donne.
Donne accomunate dalla passione, per la vita, per l’amore, per il potere, come scrive Rossella de Ceglie nella Prefazione; donne che la Storia ha relegato troppo spesso a un ruolo marginale; donne cosiddette “normali”, madri, mogli, figlie, amanti, con le loro paure, i loro difetti, la loro sagacia; donne della Storia e donne della Mitologia; donne che desideravano fortemente riscattare le loro figure; donne che, in queste pagine, si rivolgono direttamente al lettore, raccontando ogni sentimento, anche quelli più intimi.
Storie diverse, dunque, mai lette prima, seppure esistite, raccontate da chi non ha mai avuto la possibilità di farlo. Un viaggio nell’universo femminile; un viaggio fantastico, sì, ma assolutamente imperniato da fondamenta solide e, soprattutto, frutto dell’accurato lavoro di ricerca dell’autrice, la quale racconta fatti realmente accaduti ma visti con gli occhi di chi non ha preso parte a battaglie o decisioni politiche ma che le ha forse influenzate e sicuramente vissute in prima persona.

Voci dalla Storia…
Confessioni di donne, di Chiara Pepe (Les Flâneurs Edizioni, pp. 104, € 11,00) è un libro che penetra nel cuore della Storia, mescolando realtà e fantasia sullo sfondo di un contesto fatto di sole donne.
Ogni capitolo è dedicato a una figura femminile, tutte diverse tra di loro ma con molti elementi che le accomunano; si alternano donne realmente esistite, vissute in epoche ben definite, a figure mitologiche, poste fuori dalla sfera spazio-temporale.
Cleopatra d’Egitto, sovrana di quell’Egitto tolemaico nel periodo in cui si impegnava a fronteggiare la potenza dell’Impero romano, dà via al “primo blocco”, quello storico. Lei che, consapevole del suo immenso fascino, “un’arte” come ella stessa lo definiva, è riuscita a conquistare due dei più illustri uomini romani, quali Giulio Cesare e Marco Antonio.
Una donna consapevole del suo potere ma intimorita dell’eccessiva egemonia dell’Impero romano e dello strapotere del suo primo amante, Giulio Cesare, soprattutto di fronte alla possibilità che il suo paese potesse essere annientato proprio dal dominio dei Romani con disastrose conseguenze. Paure palpabili, che Cleopatra racconta con grande lucidità. Riuscì a non farsi dominare da esse, trasformandoli, anzi, in azione e opportunità. Capì che dopo la morte di Cesare era Marco Antonio la figura politica più rilevante. Riuscì a conquistarlo, ancora una volta facendo leva sul fascino e sulla seduzione. Insieme provarono a dominare tutto l’Oriente, ella divenne “regina dei re”. La sua forza e il suo carisma scossero l’ambiente romano, lì dove lei non era considerata una regina o una “simildivinità” ma, la “puttana d’Egitto”, come viene confermato nel libro dalla sua controparte letteraria.
Parla dettagliatamente del rapporto intimo con i suoi uomini, da Giulio Cesare a Marco Antonio, preferendo loro alla mera narrazione degli eventi storici, che il lettore, si presume, conoscerà già bene. Confessa che con il secondo amante, lontano dai campi di battaglia, entrambi consapevoli della condanna a morte, decisero di non fuggire lontano dalla furia di Ottaviano [1]. Lei considerava sparire nel nulla un atto infame; proprio lei che aveva saputo mantenere le redini del suo regno, lei con un corpo diventato «l’armatura più temibile»[2], lei, consapevole che la sua vita non meritasse una fine misera; lei che porrà fine a questa stessa vita facendosi mordere da un aspide, simbolo della sua terra e delle sue origini; lei, la «regina immortale» [3].
Agrippina Minore ci mostra i tormenti della Roma imperiale del I secolo d.C. Pronipote di Augusto, è considerata una delle donne più crudeli della Storia romana. Un’etichetta che le pesa, afferma, visto che è fortemente convinta che non si possa conoscere una donna esclusivamente dai propri errori. Lei, ci racconta, ha vissuto una fanciullezza travagliata, nella cupezza degli accampamenti militari, al freddo e al gelo, con una madre che incitava i soldati con l’energia di un uomo, quell’energia e quella indole che lei non poteva non ereditare.
Parla della morte del padre, Germanico Giulio Cesare, e di altri cari, a causa dell’invidia dell’imperatore Tiberio, vicende che la turbarono profondamente; dolori aggravati quando, appena quattordicenne, venne data in sposa a Gneo Domizio Enobarbo, un assassino spietato, autore dei delitti più efferati, e persino schierato dalla parte di Tiberio, colui che continuava ad accanirsi contro la sua famiglia, fino all’arresto di sua madre.
Tutto vissuto con disperazione e dolore, sentendosi inerme e impotente e sperando solo nell’arrivo di tempi migliori. Quei tempi che giunsero quando suo fratello Caligola salì al potere, sostituito poi da suo zio Claudio.
Parla del senso di libertà ritrovato dopo anni di dolori e sofferenze. Desiderava fortemente ingraziarsi il popolo e, dopo la morte di suo marito, sposò il ricchissimo Gaio Sallustio.
Il peggio era passato, ci comunica attraverso le pagine, ma non la rabbia e l’odio provato in tutti gli anni di gioventù verso coloro che tanto male avevano fatto a lei e alla sua famiglia. Un odio che si tramutò in vendetta, in sangue che fece scorrere sulle teste degli artefici delle sue sofferenze.
La fame di potere la portò a sposare suo zio, diventando la donna più potente dell’Impero, conquistandolo a ogni costo, perfino uccidendo il figlio di Claudio, Britannico, erede al trono, per favorire l’ascesa di suo figlio Nerone. «Comprendo quanto il vostro spirito caritatevole possa essere turbato dalla mia franchezza, ma ‒ signori ‒ si tratta di quella stessa cosa da voi definita “legge del più forte”!»: si rivolge così Agrippina al lettore, preoccupata che le sue confessioni possano scaturire stupore e rabbia. Non ha paura di dire la verità, anche se con cinismo e indifferenza.
A lei non importa nemmeno, confessa, che la Storia affermi che dietro la morte di Claudio ci fosse stato un suo coinvolgimento, lo dice senza indugi. Solo la fine di Claudio le importava, e l’ascesa al potere di suo figlio: il resto erano solo chiacchiere.
Da buona madre, iniziò subito a cogliere la crudeltà del figlio, cercò di farlo desistere da molte azioni, fino a quando egli la allontanò dalle sedi del potere dove lei stessa lo aveva insediato.
Conscia della sua fine per mano di un figlio tanto amato riuscì a non abbandonarsi al dolore, provando a resistere fino alla fine, quando con uno stratagemma Nerone riuscì a eliminarla.
Morì consapevole di essere arrivata dove nessun’altra donna aveva osato e di aver vendicato la sua stirpe; morì con il rammarico di non avere avuto una fine degna; morì incitando il suo sicario di colpirla nel ventre che aveva generato il mandante del suo assassinio, quel figlio tanto amato. Tutto questo ci rivela Agrippina Minore, una donna coraggiosa nonostante le insidie che la sua vita le ha sempre posto davanti.
Con Teodora di Bisanzio superiamo lo splendore dell’era romana tuffandoci nel mondo bizantino (nome moderno dell’Impero romano d’Oriente). Donna di umili origini, una prostituta secondo gli storici, propensa al divertimento e all’avventura, riuscita a diventare prima amante e poi moglie dell’imperatore Giustiniano.
Con lucidità e chiarezza, attacca coloro i quali hanno osato calunniare il suo nome, su tutti Procopio di Cesarea, storiografo e autore della Storia delle guerre e della Storia segreta.
Non ha paura di ribadire le sue umili origini, ma sottolinea che le persone intelligenti non devono commettere l’errore di giudicare una donna solo per il suo passato, o quantomeno devono avere l’onestà intellettuale di enfatizzare anche le buone azioni, nel suo caso l’operato da imperatrice.
Orfana di padre, fu spinta dalla madre a intraprendere la vita circense, preferendo poi la carriera di attrice, un mestiere al quale spesso si accompagnava quello di prostituta. Fu la paura dell’anonimato che la portò a “sfruttare” le sue doti fisiche, fino a diventare una cortigiana, prima di convogliare a nozze con Giustiniano.
Rivela di aver vissuto intensamente ogni evento sociopolitico e di essere stata onnipresente in tutte le decisioni di governo; le sue parole e la sua fermezza influenzavano spesso le scelte dei “grandi” della corte. Ella voleva fortemente mantenere alta la dignità dell’Impero.
Narra della “rivolta di Nika” quando due uomini condannati a morte erano stati risparmiati dal destino grazie alla rottura del patibolo. Essi appartenevano alle due fazioni opposte che caratterizzavano il contesto sociale di Costantinopoli; i capi dei due rispettivi partiti chiesero all’imperatore di risparmiare la vita dei due uomini ma Giustiniano non concesse alcuna clemenza. Una decisione che contribuì a inasprire il malcontento popolare, già esasperato dall’altissima tassazione. I rivoltosi convinsero l’imperatore a destituire alcuni funzionari, e lo stesso Giustiniano, impaurito, optò per la fuga. Una decisione che fece sobbalzare Teodora, la quale accusò il marito di aver scelto la vita all’onore.
Convinta che non si potesse mai abbandonare il potere, nemmeno nei momenti più difficili, e che esso implicasse onore quanto onere, riuscì a far desistere il marito dalla sua scelta. «Chi ‒ detentore esclusivamente della propria vita ‒ fugge dinanzi al dovere, oltraggia la propria dignità. Chi ‒ detentore del potere su un intero popolo ‒ fugge dinanzi alle proprie responsabilità, oltraggia la stessa natura umana. È deplorevole il solo pensare alla fuga davanti al rischio di sgretolamento del regno. L’integrità di un sovrano si pondera sulla bilancia dei doveri piuttosto che su quella dei diritti» scrive la Pepe dando voce a Teodora, e ancora «in quell’istante ho visto concretizzarsi una convinzione che avevo da tempo: la donna è depositaria di un senso dell’onore più spiccata dell’uomo».
Forse espressione di un potere opprimente nei confronti del popolo, tipico dei governi autoritari, come si potrebbe sostenere oggi, ma un grande esempio di forza e sagacia da parte di una donna, divenuta poi la “mente politica” dell’imperatore, occupandosi anche di questioni economiche e commerciali. «Chinate il capo spregevoli detrattori del gentil sesso! Una donna sa compiere il proprio dovere anche al di fuori del candore delle lenzuola!» si legge. Parole di una donna (ipotizzate come sempre dall’autrice secondo elementi concreti) la cui scomparsa ha fatto piangere Costantinopoli.
Anna Bolena ci porta nell’Inghilterra della metà del XVI secolo. Confessa di aver ambito sempre al potere, a quella corona inglese tanto desiderata, nello stesso modo in cui ella era desiderata dal sovrano. Era determinata, sapeva bene che non avrebbe potuto commettere gli stessi errori di sua sorella Maria, amante di re Enrico VIII, passata poi alla storia come “la puttana inglese alla Corte di Francia”.
Non voleva affatto finire nel dimenticatoio della Storia. Confessa senza problemi di aver sempre sostenuto l’idea che se il re aveva desiderato così fortemente il suo corpo, avrebbe potuto averlo solo dandole qualcosa in cambio: la corona.
Ma perché tutto questo? Per mera ambizione personale? No, Maria Bolena ci spiega di quanto contradditorio fosse il mondo del potere: senza relazioni sincere, tutto effimero, tutto altalenante. Il suo desiderio era finalizzato solo ed esclusivamente alla sopravvivenza.
Ci racconta del suo trascorso in Francia, dove aveva imparato l’“arte della corte”, insegnamenti che fece valere una volta ritornata in patria proprio lì dove iniziò la sua “scalata” verso il trono, assistendo allo scioglimento del matrimonio tra re Enrico e Caterina – e sperandoci – un ostacolo non da poco alla luce del fatto che fosse un matrimonio papale.
Si sposarono in segreto, Enrico e Maria [4], e il primo giugno del 1533 venne incoronata regina.
Non nasconde la sua gioia, che palesa nel suo discorso, quando narra di essere diventata la donna più potente del regno; sentiva di aver ottenuto ciò che di più grande si potesse ottenere. Una gioia in parte lacerata dalla “delusione” per la nascita di Elisabetta, una bambina, e non il tanto sognato figlio maschio erede al trono che Enrico aspettava più di ogni altra cosa.
Le altre gravidanze terminarono in aborti o feti morti. Come lei stessa narra, il senso di onnipotenza che solo qualche anno prima aveva attraversato il suo animo lasciò il posto alla paura, quel timore che il sovrano potesse allontanarla: se non fosse riuscita a dargli un erede maschio la sua situazione sarebbe, probabilmente, cambiata.
Iniziava a capire, racconta, cosa fosse realmente l’umiliazione; comprendeva, solo in quei momenti, ciò che Caterina, prima moglie di Enrico, aveva dovuto sopportare per gli stessi motivi: l’incapacità di mettere al mondo un figlio maschio. A questo senso di sconforto si aggiunse la menzogna, quella che la condusse davanti a una sorta di tribunale speciale, accusata, ingiustamente, di adulterio e incesto.
Era già tutto scritto e ben presto giunse la sua condanna a morte. Proprio lei che aveva scosso il cuore del re, fortemente amata, veniva ora spazzata via in pochissimo tempo, con cinismo e impassibilità come se non avesse mai rappresentato nulla per quell’uomo, vittima di un animo tutt’altro che “nobile”.
Morì con serenità, persuasa che nulla fosse eterno e tutto invece mutabile in pochissimo tempo. Afferma che spesso fa molto più male essere traditi da qualcosa o qualcuno ritenuto costante che da qualsiasi arma o strumento di morte. «Quello che mi uccise non fu il boia. Fu l’uomo che aveva dato vita a una nuova Chiesa pur di onorare la nostra unione; l’uomo che aveva abbandonato una moglie devota e una figlia affettuosa per dare adito alle mie richieste; l’uomo che aveva rischiato di sconvolgere lo scacchiere europeo per una questione privata. Enrico, l’uomo che aveva promesso di rendermi la più felice sulla terra, e che adesso si congedava da me con disprezzo. Donandomi, come ultimo pegno d’amore, la morte»: parole forti, pronunciate da una donna ferita nell’animo più che sulla pelle; parole di una donna come tante solo per il suo essere finita vittima della bramosia maschile.
La sezione storica termina con una delle donne più controverse della Storia europea e mondiale Maria Antonietta di Francia, che ci racconta il periodo della rivoluzione francese, un vento di cambiamento che pose fine a tante vite, compresa la sua.
Immersa nel lusso e nella ricchezza, in un mondo quasi fiabesco e meraviglioso, racconta, assuefatto dall’inganno e dalla vanità, scorreva la sua vita, bella sì ma con qualche momento di noia dettata dalla monotonia.
Due mondi paralleli costituivano l’assetto sociale della Francia di fine Settecento: da un lato il popolo oppresso e affamato (appoggiati dai cosiddetti membri del “terzo stato”), dall’altro il regno del benessere e del piacere. Un sistema, come confessa Maria Antonietta, creato da coloro i quali, presenti e passati, risiedevano, in cotanto splendore; quello stesso sistema che finì per travolgerli tutti.
Lei che era entrata in quei luoghi lussuosi appena quindicenne, una ragazzina che non poteva conoscere il mondo reale e che non poteva non cedere a quella vita così tanto accomodante. Ingenua come tutte le ragazze di quell’età, era entrata in quel paese straniero, accolta da sudditi che per tanti anni ‒ soprattutto a partire dal 1774, anno di inizio del regno di suo marito Luigi XVI ‒ avrebbero lodato la sua bellezza e si sarebbero chinati al suo passaggio, prima di inneggiare alla sua esecuzione.
Provava a godersi, giorno dopo giorno, quel mondo in apparenza tanto bello ma nel quale si celavano momenti sia di sconforto sia, soprattutto, di gioie inappagate. Solo la nascita di sua figlia le riportò la serenità nel cuore, sorda perfino ai tanti commenti di delusione che giungevano al suo orecchio per il solito erede maschio “mancato”: «Un figlio maschio sarebbe stato dello Stato. Una figlia sarebbe stata mia!» afferma, spogliandosi del ruolo di sovrana e assumendo le vesti di madre.
Quegli “abiti” che continuò a portare anche quando il secondo figlio, il futuro erede al trono, iniziò a non godere di ottima salute. Ella racconta il tutto con il cuore di una madre comune, afflitta dal dolore di vedere un figlio malato, sperando ogni giorno di poter gioire per la sua guarigione, che in questo caso non avvenne mai: il piccolo morì nel 1789 all’età di 8 anni.
Una data importante per Maria Antonietta, non solo per la perdita del suo bambino. È la data dell’inizio della rivoluzione francese. A differenza di tutte le altre donne narrate in questo libro, lei ci confida che non si interessò mai alla politica, e anche nella prima fase della rivoluzione rimase distante dagli avvenimenti che stavano sconvolgendo la Francia, a maggior ragione di fronte, proprio, alla malattia dell’amato figlio.
L’odio e la disperazione di un popolo da troppo tempo umiliato si tramutò in spargimento di sangue e distruzione; la famiglia reale fu costretta ad allontanarsi e andare a Parigi, acconsentendo alle richieste popolari. Maria Antonietta iniziò a scoprire la paura, confessa, soprattutto per la tutela della sua famiglia, di suo marito e dei suoi tre figli (dopo Luigi Giuseppe nacquero altri due bambini).
Tutto era cambiato per la regina di Francia: abitudini e consuetudini assodate erano ormai un ricordo. Conscia che tutto era stato causato dagli errori commessi dal potere politico, non riusciva però ad accettare la bestialità con la quale la gente si scagliava verso altri esseri umani, considerati, a torto o a ragione, la causa delle proprie sofferenze. Molti membri della sua famiglia morirono, uomini e donne indifferentemente. Cercava di rassicurare i propri figli, consapevole ormai del suo destino. Il 21 gennaio 1973 venne decapitato suo marito, dopo qualche giorno toccò a lei.
Prima dell’esecuzione però le venne inferto il peggior torto che una madre potesse subire; le fu strappato via suo figlio Luigi Carlo e come se non bastasse convinsero il piccolo ad accusarla di una delle colpe più ignobili: l’incesto.
«Lo smarrimento di una donna affranta da ripetute umiliazioni e costernata da una lunga serie di privazioni affettive è una questione che io sola porterò nel cuore. Per sempre». Una frase toccante a opera dell’autrice Chiara Pepe, immaginando lo sconforto di quella donna, madre e moglie. Una donna che ha commesso tanti, troppi errori, artefice anch’ella del malessere del popolo, ma vittima poi di offese e umiliazioni che lacererebbero l’animo di ogni essere umano, a prescindere dall’appartenenza sociale, da chi si è stati o da chi si è.

… e dalla Mitologia
Deianira, Arianna, Ifigenia e Cassandra appartengono invece al mondo immaginario del Mito, senza alcun riferimento temporale; una realtà fatta di mortali e dei, con i secondi che “governano” sui primi, il cui destino di tutti non è nelle proprie mani come invece accade nel mondo reale.
Deianira, figlia di Olineo, re di Calidone, e Altea, ma soprattutto moglie di Eracle (corrispondente alla figura romana di Ercole), semidio, figlio di Zeus, il più possente e temerario degli eroi greci.
Confessa di non voler raccontare la sua storia, in quanto definisce la propria esistenza come ordinaria, preferendo narrare le gesta del suo sposo; colui che acquisì le doti da eroe dopo essere allattato da Era (Giunone nella Mitologia romana), il cui latte era divino e possedeva straordinarie proprietà. Dallo stesso latte, dice Deianira, si formò la via Lattea.
Fu proprio durante uno di questi allattamenti che Eracle si aggrappò con eccessiva forza alla mammella di Era, la quale irritata si vendicò inviando due serpenti velenosi nella stanza del piccolo mentre dormiva. L’esito fu del tutto diverso: a morire furono i due serpenti per mano di quel bambino del tutto fuori dall’ordinario.
Eracle sfruttò la sua forza a vantaggiò dei più deboli, passò la propria gioventù a combattere i soprusi che affliggevano la povera gente. Il suo animo era gentile ma nulla sembrava sufficiente a debellare le ire di Era.
La regina degli dei fece in modo che la rabbia si impossessasse di Eracle, il quale, in preda a una collera sovraumana uccise moglie e i suoi otto figli.
L’unico modo di liberarsi di un tale peccato e di questa zavorra in seno all’animo di Eracle, era quello di portare a termine dodici imprese straordinarie, come aveva predetto l’oracolo.
Il riscatto di quell’eroe si stava compiendo, nonostante l’ira della dea lo continuasse a tormentare. Sentiva il bisogno di trovare una nuova moglie: è così che inizia la storia della nostra protagonista.
Lei, giovane donna che aveva vissuto la fanciullezza nella spensieratezza e nella goliardia, lontana dagli affari di governo, poiché era roba da uomini, come ella stessa afferma. Racconta di aver provato un’enorme gioia nel cuore quando quell’uomo valoroso la chiese in sposa a suo padre; percepiva la bontà e i sacrifici ai quali era andato incontro quell’eroe.
Eracle non era il solo a pretendere il matrimonio con Deianira; invasiva era la presenza di Acheloo, divinità fluviale, disposto a tutto pur di unirsi a nozze con la giovane donna. Si scontrò con Eracle, che ebbe la meglio. Eracle e Deianira poterono sposarsi.
Gli anni passavano e Deianira vedeva piano piano affievolire la sua bellezza. Poche certezze lasciano spazio ai timori, quei timori che si tramutarono in gelosia: credeva che il marito la tradisse.
Non pianse, era inutile secondo lei; invece si ricordò dell’incontro/scontro con il Centauro, una creatura infima che aveva attaccato lui ed Eracle lungo il percorso per la Tessaglia. Colpito con una freccia la creatura cadde subito al suolo e prima di morire bagnò la sua veste con il sangue che scolava dalla sua ferita. Un sangue che, come disse a Deianira, possedeva proprietà stimolanti e consigliò alla ragazza di fare indossare quella veste a Eracle qualora in futuro avesse dubitato della sua fedeltà. Così fece!
Quel sangue, però, altro non era che veleno e quella veste un mezzo per eliminare il più grande degli eroi. La vendetta della dea Era si era compiuta.
Eracle venne elevato al rango divino dal padre Zeus, le sue gesta e il suo intelletto contribuirono a dare lustro all’intero Olimpo, la gloria di quell’uomo sarebbe stata immortale.
Deianira, vittima innocente e pedina di un fato malevolo verrà ricordata come l’artefice della fine terrena del più grande degli eroi. Ignara di tutto, il destino le aveva dato, cinicamente, questa sorte infausta: «Sorte infelice la mia! Ignara esecutrice della vendetta di un’ignobile creatura e artefice del delitto dell’uomo che amavo, il più grande eroe della Grecia. È stato questo misfatto a tramandare il mio nome a voi. La morte di Eracle. La moglie di Eracle. Pedina nelle mani di un fato avverso. Se avessi potuto scegliere avrei preferito l’oblio. È il fato che impera. Le pedine possono mai scegliere?»: un’amara confessione da parte di chi ha avuto l’unica colpa di non sentirsi più tanto desiderata dall’uomo che amava.
Arianna, figlia del re di Creta Minosse, nato da Zeus, e di Pasifae, figlia del Sole. Ci racconta della sua forte fiducia nella giustizia. Si è sempre schierata con convinzione dalla parte degli innocenti, troppo spesso condannati a morte ingiustamente. Non nega la delusione di essere stata vittima di indifferenza da parte dell’uomo nel quale credeva, proprio lei che non ha mai esitato a dare fiducia a chi l’avesse tradita.
Parla della sua famiglia, in particolare dei suoi fratelli: il Minotauro, nato da una relazione adultera di sua madre con un toro bianco e Androgeo, orgoglio di suo padre. Il primo tenuto prigioniero in un labirinto, il secondo grande atleta e vincitore dei giochi tenutisi ad Atene, un episodio che causò la collera ateniese e la sua conseguente morte.
Una vicenda che scatenò l’ira di Minosse che dichiarò guerra agli stessi Ateniesi, uscendone vincitore; il risultato ancora una volta fu il sangue versato da poveri innocenti, dati in pasto al Minotauro all’interno del labirinto.
Arianna non nasconde di aver provato tanta rabbia e tormento per tutta la violenza che dilagava nella sua città e non solo, si chiedeva cosa spingesse gli uomini a essere violenti e ingiusti verso i propri simili. Al contempo disprezzava la vendetta, conseguenza della vulnerabilità umana, afferma. Dentro di sé provava il bisogno di aiutare quelle vittime ma si sentiva impotente, fino all’incontro con Teseo, re di Atene, che nutriva il suo stesso ardore per la vita.
Fu così che iniziò il mito del filo di Ariana, emblema delle cose futili che possono rivelarsi di vitale importanza; un filo che indica una strada, la strada della salvezza.
Rivolgendosi al lettore, racconta la sua fuga con Teseo, ma confessando di aver fatto prevalere l’ardore della passione alla ragione, ma ponendosi mille domande, sul futuro, sul fatto se quell’amore fosse vero o meno; dubbi comuni a tante, tantissime, donne, passate e future, reali e inventate. Quei dubbi rivelatisi poi concreti dopo l’abbandono da parte di Teseo. Una disperazione che gli dei seppero colmare, ponendo sulla strada di Arianna, Dionisio, re del vino e dei sensi, figlio di Zeus: iniziò per lei una nuova vita felice.
«Non disperatevi fanciulle, fanciulle! Spesso avvertire la voragine del vuoto non è poi un male tanto tremendo. Siate positive e pensate piuttosto a quante meraviglie possano riempire quella voragine. In qualsiasi luogo. In qualsiasi istante. Adesso»: questo il saluto di Arianna, rivolgendosi alle giovani donne.
Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitennestra, sorella di Elena, regina di Sparta e “pretesto” per la guerra con i Troiani.
Una ragazza semplice che non ha mai compreso il suo posto nel mondo, confida, rispettando la sottomissione al fato e agli dei, ma anch’ella con una forte avversione verso il sangue e la guerra. Così si descrive la figlia del re degli Achei.
Narra dei retroscena che hanno preceduto la nota, ed ennesima, guerra fra Greci e Troiani; descrive dettagliatamente i particolari e le azioni dei singoli uomini di potere greci, per prepararsi al meglio ad anni di battaglia.
In quello stesso periodo, però, suo padre spingeva per le nozze con Achille; prima della partenza avrebbe dovuto sposare, in Aulide (una polis dell’Antica Grecia), proprio il più illustre fra gli eroi Greci. Una decisione improvvisa che la turbò fortemente, senza però poter obiettare quell’ordine impostole dall’alto.
Un turbamento che nulla era al cospetto dell’amara verità venuta infine fuori: lei era stata convocata in Aulide non per sposarsi con Achille ma per essere immolata. Per permettere alle navi di salpare verso Troia, infatti, era necessario un sacrificio alla dea Artemide, il sacrificio era la povera ragazza.
Lei, giovane fanciulla vergine, simbolo di purezza, era chiamata a “salvare” il proprio popolo e garantire la permanenza di suo padre al comando. Dopo l’iniziale disperazione accettò il volere divino, convinta che il suo nome avrebbe rappresentato gloria in futuro, sarebbe stata osannata da tutti per l’eternità.
Prima di morire si rivolse alla madre, invitandola a non provare odio verso nessuno a causa di quella triste sorte alla quale stava andando incontro proprio lei, sua figlia; l’odio avrebbe deturpato la bellezza di quella straordinaria regina, le disse, e inoltre la invitò a considerare quella scelta come solo sua e non di suo padre; la scelta di una giovane donna innocente ma con un grande senso del sacrificio: «Il mio sangue è pronto a placare il volere divino. Che l’altare della dea diventi il mio mausoleo! Una gloria perpetua attende il mio nome. Addio madre! È lontano il tempo dei pensieri felici. Non si è sempre artefici delle proprie scelte. Alcune sono inevitabili. Unico sollievo al turbamento è assecondarle e fingere di essere felici, anche se il cuore, in segreto non smette di singhiozzare»: le ultime parole di una fanciulla la cui vita era nelle mani altrui.
Con Cassandra, dalla Grecia all’Asia minore, si chiude questo viaggio nella Storia e nel Mito.
Figlia di Priamo, re di Troia, e di Ecuba, nonché gemella di Eleno e sorella di Ettore, il più grande fra i guerrieri troiani, e Paride, rivelatosi il carnefice della patria, è considerata la “profetessa di sciagure” [5]. Un appellativo che rigetta al mittente affermando che è la vita stessa a essere fatta di sciagure e non curarsi di questa triste verità non aiuta a risolvere i problemi. «Ho trascorso tutta la mia esistenza annunciando eventi che si sono subito concretizzati. Ho predetto guerre, disastri e sofferenze. Il mondo, però, non mi ha mai dato ascolto. Detentrice della verità, ero stata condannata a non essere mai creduta» afferma, con un pizzico di frustrazione, per non essere mai stata ascoltata nonostante i suoi vani tentativi di persuadere gli uomini sui pericoli futuri.
Ha sempre saputo, confessa, che la parola, se da un lato evoca sogni e speranze, dall’altro crea turbamento e paura; quest’ultima, l’arma letale più terribile. Lei cercava soltanto fiducia, svelando verità, anche se tragiche, attraverso l’oracolo di Delfi, non volendo diffondere alcun timore o sgomento.
Era conscia che quel dono, fattole dal Dio Apollo, si era tramutato in una terribile punizione: conoscere la verità senza poterne ottenere alcun agio. Tutto questo perché ella non mantenne fede alla promessa d’amore fatta ad Apollo stesso.
Non può esserci cosa peggiore, fa intendere, che poter prevedere il futuro della propria famiglia, della propria patria, e cercare, inutilmente, di cambiare il destino delle cose. Lei sapeva bene che suo fratello Paride avrebbe condotto quella stessa patria in una guerra lunga e cruenta, quella guerra che avrebbe spazzato via la sua gente, la sua città, ma nessuno si fermò mai un attimo ad ascoltarla; nessuno, neanche il suo amato padre, e nemmeno quando lei stessa lo implorò con tutte le sue forze di allontanare quell’enorme cavallo di legno che varcò le mura della città che egli governava e proteggeva.
La sorte della città di Troia è nota a tutti, ed ecco le parole, anche se immaginate, di chi era lì, a vivere in prima persona gli eventi, le parole di una donna sola, che ha provato in ogni modo a stravolgere quel destino che solo lei conosceva, quello stesso destino che la diffidenza umana ha indirettamente accettato: «Da principessa troiana sono diventata il premio di guerra di Agamennone. Addio, mia cara patria! Non restano di te che cumuli di macerie e corpi che, da morti, chiedono agli dei quella pietà che è stata loro negata in vita. So bene quale fine mi attende in Grecia. Questa volta, no, non proferirò parola. Le mie, d’altronde, non sono mai servite. Con amara rassegnazione vado incontro al mio destino, perché so che il mio nome e la mia storia non moriranno con me».

Dal passato al presente: il potere (oltraggiato) delle donne
Tanti racconti, tante testimonianze, un solo comun denominatore: i drammi interiori e le insicurezze di donne comuni. Chiara Pepe ci fa conoscere queste stesse donne, le quali hanno avuto, seppure in maniera immaginaria, il coraggio di raccontare i lati più intimi della loro vita ai lettori.
L’autrice ha dato loro voce con stili differenti, quasi adeguandoli al carattere delle protagoniste di questo libro. Tanta immaginazione sì ma, è bene ripeterlo, tutta scaturita dopo un accurato lavoro di ricerca, dalla lettura di testi storiografici e letterari. Riflessioni rielaborate, quindi, sulla base di elementi fondati, tenendo ben presente che ogni vicenda storica presente nel testo è realmente accaduta.
Un libro che aiuta a far conoscere meglio la Storia o la Mitologia, da una prospettiva nuova e particolare, ma soprattutto un libro che aiuta a riflettere su elementi spesso trascurati. Queste donne ci insegnano che è troppo facile giudicare e dare per scontato sempre e solo ciò che appare. Ci dicono che c’è sempre una vita dietro, un passato spesso tormentato, un’esistenza straziante e senza alcuna via d’uscita, a causa del volere e delle azioni altrui.
Donne che rappresentano parte della società, passata, presente e futura. Poco importa se le parole e le frasi lette in questo libro siano state davvero pronunciate dalle stesse (pensieri, comunque, verosimili): ciò che conta è l’essenza contenuta in queste parole, forti e incisive al punto giusto, pronunciate da chi cerca riscatto, da chi lotta per arrivare alla verità.
Donne potenti o donne comuni, ma sempre donne fragili alla costante ricerca di un’esistenza dignitosa, ma soprattutto donne che parlano a nome di tutti coloro i quali rivendicano il ruolo che gli spetta nella Storia, e nella società, sfidando le convenzioni sociali. Nessuno muore davvero e la Storia spesso nasconde molti elementi che potrebbero suscitare sdegno nell’opinione pubblica.
Un libro così ci insegna che si può ridare voce a chi l’ha perduta oppure a chi, forse, non l’ha mai avuta realmente.

Luigi Innocente

[1] Marco Antonio, membro del triumvirato che governò Roma dopo la morte di Cesare, sposò Cleopatra nel 37 a.C. Insieme volevano dominare tutto l’Oriente, tanto da minare il predominio romano. Tale ambizione suscitò la reazione di Ottaviano, il quale dichiarò guerra all’Egitto. Le navi romane si scontrarono, nel 31 a.C., con quelle guidate da Antonio e Cleopatra nella famosa battaglia di Azio. Seguì la vittoria dei Romani, con conseguente invasione del regno tolemaico d’Egitto. Sia Marco Antonio sia Cleopatra scelsero la via del suicidio, preferendola alla fuga e alla cattura per mano dei nemici.
[2] «Il mio corpo era diventato l’armatura più temibile. Il mio nome l’emblema della perdizione. Gli indomabili guerrieri si ammansivano al mio cospetto. Le matrone impallidivano al mio sguardo»: così c’è scritto in un passo del libro, p. 27.
[3] Termina con questa locuzione il capitolo.
[4] Fu possibile dopo che Enrico VIII diede vita alla Chiesa Anglicana, sconvolgendo il tradizionale assetto religioso europeo. Una religione che si pone a metà strada fra il cattolicesimo e il protestantesimo.
[5] Godeva di un dono fattole dal dio Apollo, patrono delle arti e della musica, dio del sole e della poesia, cultore della bellezza, detentore dell’arte e della divinazione, nonché fondatore del culto dell’oracolo di Delfi.

(direfarescrivere, anno XIV, n. 154, novembre 2018)
invia commenti leggi commenti  

Segnala questo link ad un amico!
Inserisci l'indirizzo e-mail:

 


Direzione
Fulvio Mazza (Responsabile) e Mario Saccomanno

Collaboratori di redazione
Ilenia Marrapodi ed Elisa Guglielmi

Direfarescrivere è on line nei primi giorni di ogni mese.

Iscrizione al Roc n. 21969
Registrazione presso il Tribunale di Cosenza n. 771 del 9/1/2006.
Codice Cnr-Ispri: Issn 1827-8124.

Privacy Policy - Cookie Policy