Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La recensione libraria
Con lo Squadrone Cacciatori
nella terra della ʼndrangheta:
droga, potere e globalizzazione
Andrea Apollonio per Pellegrini editore
spiega la nuova criminalità organizzata
di Elisa Barchetta
Quando si pensa alla geografia di un paese come l’Italia, la prima idea che si affaccia alla mente è la sua forma “a stivale”, con la Puglia a costituirne il tacco e la Calabria con la Sicilia a formarne la punta.
Ma c’è un’altra geografia, meno evidente, che partendo dalle singole regioni, travalica i confini nazionali per diventare globale: è la geografia criminale.
E c’è una sola organizzazione in Italia capace di essere davvero globalizzata e si chiama ʼndrangheta o, come la definisce il giurista e giornalista Andrea Apollonio nel suo libro Cosa Nuova. Viaggio nei feudi della ʼndrangheta con lo Squadrone Cacciatori (Pellegrini editore, pp. 112, € 12,00), una cosa diversa dal passato… una Cosa Nuova, appunto.
Perché se di mafie in Italia ormai si parla, seppur non ancora quanto si dovrebbe, mai nessuna mafia era arrivata ad avere interessi così radicati nel territorio italiano e, allo stesso tempo, legami tanto forti con il crimine internazionale.
Ed è seguendo il viaggio di Apollonio con lo Squadrone Cacciatori dei carabinieri che si può comprendere meglio la geografia di questa Cosa Nuova. Come un moderno Ulisse, l’autore attraversa quel lembo di terra che emerge tra il Tirreno e lo Ionio in prossimità dell’Aspromonte, sui cui litorali stanno alcuni feudi della ʼndrangheta come i mostri di Scilla e Cariddi stavano sulle due coste dello Stretto di Messina. Ma a differenza dello Stretto, infido finché non lo si era attraversato, questa terra di Calabria rimane insidiosa per due motivi: in primo luogo perché diversi sono i feudi della ʼndrangheta anche nell’entroterra e in secondo luogo perché – come si evince dal racconto dello stesso Apollonio – un viaggio simile ti cambia dentro e non finisce.

Rosarno e la droga: il feudo delle famiglie Bellocco e Pesce
Paese della piana di Gioia Tauro, Rosarno è costeggiato dalla Salerno-Reggio Calabria, una delle arterie autostradali che per decenni è stata uno degli interminabili cantieri a cielo aperto italiani.
Ed è proprio a ridosso dei terrapieni che costeggiano questa striscia di asfalto che si trovano molte delle piantagioni di marjiuana che qui vengono coltivate. Perché a Rosarno la droga assume una funzione “sociale” di regolamentazione dell’occupazione e di sostentamento, dal momento che i coltivatori ottengono per ogni raccolto denaro sufficiente per campare fino all’anno successivo. Ma tutto avviene solo con l’autorizzazione e sotto stretto controllo dei clan, in una sottile forma di caporalato che si fa forte della totale assenza di lavoro e di opportunità per tutti quelli che vorrebbero vivere onestamente e che toglie qualunque speranza di cambiamento.
L’“erba” di Rosarno alimenta poi i mercati del nord Italia e dell’Europa, ma rappresenta solo una piccola parte degli affari delle ʼndrine. Qui la sua funzione principale è garantire continua manovalanza ai clan della ʼndrangheta.

San Luca e il rispetto: il feudo delle contrapposte famiglie Pelle/Vottari e Nirta/Strangio
San Luca, come afferma l’autore, «[…] è senza dubbio la capitale amministrativa, la sede diplomatica, la rappresentanza corporativa della ʼndrangheta». Ma ciò che colpisce Apollonio – e il lettore – nella tappa di San Luca è quella “strana” forma di rispetto che sussiste tra Cacciatori, ʼndranghetisti e le loro famiglie. In una sorta di contrapposizione tra rappresentanti dello Stato e criminalità che però unisce entrambi come se gli uni non potessero sussistere senza gli altri.
Nel mezzo ci sono i ragazzi, che se da un lato sono attratti da ciò che il potere mafioso può concedere in termini di lusso e ostentatezza, dall’altro mostrano affetto sincero per i Cacciatori. I giovani di San Luca, come quelli di altri feudi in mano alla ʼndrangheta, sembrano avere solo due possibilità: emigrare per sottrarsi a un futuro già segnato, oppure aspettare che arrivi il momento di diventare manovalanza per i clan.

Platì e la paura: il feudo del clan Barbaro
Platì è un paesino tra le montagne dell’Aspromonte ed è «[…] il luogo dell’invisibile, dell’assenza»; è «l’indiscusso centro industriale della ʼndrangheta, il vero serbatoio della ricchezza». Qui non ci sono faide come tra le famiglie di San Luca, tutto è in mano e stabilito dalla famiglia dei Barbaro che opera come una vera e propria multinazionale, per cui gli altri agiscono sottostando alle regole del clan. E questo vale sin dalle prime attività mafiose legate ai sequestri di persona fino a quelle più “moderne” connesse ai traffici di droga e armi.
Ma Platì è anche il paese dei bunker, e nel suo viaggio con lo Squadrone Cacciatori l’autore ne vede diversi… delle vere e proprie opere di astuzia ingegneristica che permettono agli ʼndranghetisti di restare sul territorio e continuare i loro affari anche se ricercati, ma soprattutto di mantenere ed esercitare il loro potere sul territorio. In questo senso Platì è un luogo dove è la paura a governare: paura degli uomini dei clan di poter finire in carcere ed essere privati di beni e potere al punto da spingerli a vivere in tunnel sottoterra, quasi murati vivi, e paura dello Stato che qui preferisce non esserci se non con inutili azioni plateali piuttosto che cercando di operare sul piano di un vero sviluppo sociale ed economico.

Polsi e la religione: il santuario delle tregue e delle decisioni
Il santuario della Madonna della Montagna di Polsi è una specie di “non-luogo”, non soltanto per la sua posizione ma anche – e soprattutto – perché costituisce il punto d’incontro tra sacro e profano.
Ed è proprio qui che tra la fine di agosto e i primi di settembre, in occasione della festa della Madonna, si svolgono dei veri e propri summit dei clan della ʼndrangheta per decidere strategie, tregue, alleanze, nuove affiliazioni, ecc…
Nessuna mafia prima era arrivata ad appropriarsi in questo modo di tutto, religione compresa, tanto da fare di un luogo sacro il proprio punto di ritrovo. E come scrive l’autore «Se anche i luoghi più sacri vengono violati, allora ti assale un senso di vera spossatezza, di sconforto lacerante, un rimuginio continuo dello stomaco che parte dalla testa, per non riuscire a focalizzare nelle iridi e nell’immaginazione qualcosa che possa non essere loro».
Per lo Squadrone Cacciatori dei carabinieri questo è invece il momento per osservare, per capire le evoluzioni nelle alleanze, negli affari e nelle possibili rotture tra le famiglie. Osservare per comprendere. «Un modus operandi silente e chirurgico il loro, che si raffina con la sola conoscenza dei luoghi e delle persone. I Cacciatori erano lì […] cucitori di storie».

Gioia Tauro e la conquista: il feudo incontrastato dei Piromalli
A Gioia Tauro, fulcro centrale di tutte le attività globalizzate della ʼndrangheta è il porto. Pensato, voluto e costruito dal capostipite della famiglia Piromalli, rappresenta una sorta di zona franca dove vengono ammassati container in partenza per o in arrivo da tutto il mondo.
E qui nessuna ispezione può essere effettuata, se non sulla documentazione che accompagna ogni carico. Pertanto se questa è in regola, i container possono entrare regolarmente in Italia o essere spostati verso l’Europa e il resto del mondo; e poco importa quale sia effettivamente il loro contenuto. Per dirla con le parole di Apollonio «Il porto è il centro di smistamento di tutte le imperfezioni del mercato: qui arriva la coca, arrivano le scorie, ma anche ogni sorta di merce contraffatta dalla Cina, armi per i conflitti armati di mezzo mondo, persino componenti chimico-ingegneristiche per la costruzione di armi di distruzione di massa dirottate verso Iran, Siria, Corea del Nord. Nulla potrebbe, eppure tutto transita o fa scalo qui, in attesa di riprendere la via del mare, nel quartier generale dell’avanzata militare della ʼndrangheta su tutte le economie d’Europa e del mondo, su tutti i governi e le dittature del globo».

Gioiosa Marina e il cemento: il feudo del clan degli Aquino
Gioiosa Marina è uno dei feudi della ʼndrangheta che si trova sulla costa jonica e per anni è stata teatro di sanguinose faide tra diverse famiglie, in particolare tra i Mazzaferro e gli Aquino. Finché le fazioni contrapposte preferirono smettere di versare sangue e far “decidere” alle regole del mercato quale delle due famiglie fosse più potente. E nella guerra della concorrenza imprenditoriale, alla fine, hanno prevalso gli Aquino.
Come racconta l’autore «[…] l’elenco di alberghi, ristoranti, attività commerciali […] loro non aveva fine». Anche le strutture alberghiere e legate al turismo sequestrate, che almeno sulla carta vengono gestite dallo Stato, sarebbero poi nei fatti amministrate ancora dagli Aquino, in attesa di riprendersi ciò che gli appartiene.
Gli Aquino hanno «[…] ricercato con insistenza quel meccanismo, nel sistema capitalistico di riferimento, che garantisca il pieno impiego delle risorse. L’hanno trovato nel cemento. Perché con il cemento si comincia la penetrazione nell’economia, con il cemento si rinasce, si battezzano i capitali nella legalità. Si diventa imprenditori. Il cemento è dei vincenti […]». E la fame degli Aquino non è qualcosa che si possa saziare e non contano gli intoppi legislativi, burocratici o i rischi geologici connessi al terreno di quest’area della Calabria per frenare le manovre affaristiche della famiglia.

Cosa rimane alla fine del viaggio
Apollonio racconta la sua esperienza e i fatti con la lucidità e l’onestà intellettuale che devono competere a un giornalista, permeandola al contempo con le impressioni suscitate da quanto visto con i propri occhi, ma anche con quei preziosi semi che gli uomini dello Squadrone Cacciatori – che in questo viaggio lo hanno accompagnato fisicamente e umanamente – hanno lasciato in lui e nelle persone incontrate in questo percorso.
«A Rosarno avevo visto l’azionariato popolare della droga […]. A San Luca avevo visto gli occhi disperati e vuoti di ragazzini che nei weekend fanno i galoppini della droga stipati nei vagoni letto che portano al Nord […]. A Platì avevo visto i broker della droga nascondersi, a Polsi incontrarsi e trattare nuove strategie commerciali. A Gioia Tauro avevo visto la droga arrivare e ripartire […]. Qui, a Gioiosa, avevo visto la cocaina infiltrarsi in palazzi, cemento, economie malate. Avevo visto la coca divenire tutto il resto».
Il “filo bianco” che collega tutto rimane la droga, che permette a questa Cosa Nuova di fare enormi affari in tutti i settori dell’economia e in tutto il mondo. Ciò che rimane alla fine nell’animo di chi legge è l’amarezza, amarezza per il fallimento di un sistema economico che è stato distrutto dalla ʼndrangheta, che non dà speranze a chi vive nella Piana e a chi cerca di combattere le mafie con tutto se stesso.
Ma, forse, ciò che di più fondamentale rimane alla fine è l’importanza del lavoro svolto con onore – quello vero – e ferma volontà dagli uomini dello Squadrone Cacciatori – a cui vanno affiancati tutti quegli uomini e donne che continuano a “combattere” quotidianamente nella legalità – per comprendere il territorio in cui operano fin nel profondo; cercando ogni giorno di contrastare in modo intelligente un fenomeno fin troppo pervasivo, nella speranza di poter cambiare almeno un po’, un passo alla volta, le cose per restituire dignità e fiducia a una splendida regione come la Calabria e a un intero paese.

Elisa Barchetta

(direfarescrivere, anno XIV, n. 146, marzo 2018)
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