Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La recensione libraria
Ritratto di una vita dagli anni della
guerra ai nostri giorni.
Momenti di tristezza e di gioia
Una scrittrice si racconta: da Robin edizioni
la storia di una donna autentica nata nel ’40
di Gabriella Zullo
«[…] ma io sono arrivata tardi, quando pace e tranquillità erano sparite per sempre, in senso non solo metaforico ma soprattutto reale visto che la guerra è stata dichiarata pro-prio nel giugno del ’40 e in quel mese io sono nata.» Una ragazza degli anni Quaranta – Italiagermaniagrecia (Robin edizioni, pp. 296, € 16,00). Istantanee di vita quotidiana in cui la famiglia, gli amici, gli studi e l’amore sono stati fotografati. Scritto con una sem-plicità unica, grazie alla quale ogni lettore può ritrovarsi e immedesimarsi paragonando le vicende narrate da Sandra Bosco a quelle vissute nella propria vita. Un’esistenza, quella dell’autrice, che non è fatta di eccessi o particolari trasgressioni, cosa che per le nuove generazioni sembra obbligatoria necessità per una vita pienamente vissuta. La sua è una storia che inizia con l’entrata dell’Italia nella Seconda guerra mondiale con tutto lo scom-piglio e la sofferenza che essa ha portato. Trascorre gli anni della sua infanzia, dall’età in cui iniziano i primi ricordi, durante gli anni in cui furono i partigiani a fare razzie e perse-cuzioni anche nei confronti di gente indifesa, che nulla di male aveva fatto. Passano poi gli anni ’60, gli anni del liceo e poi dell’università. E poi si arriva alla fine del secolo scor-so in cui tante cose della sua terra e della sua amata Grecia sono cambiate.

L’autrice
Docente presso l’università di Torino, amante delle lingue e cultrice appassionata di lingua e letteratura tedesca con un interesse particolare per la linguistica, ha pubblicato molti studi scientifici come Storia della lingua tedesca, Le parole del tedesco, saggi relativi alle fiabe dei fratelli Grimm e altri. Sandra Bosco è una scrittrice versatile che ama profondamente anche la letteratura: nel 2014 pubblica per la narrativa Donne greche, eco di un’altra sua grande passione. Tra gli editori con cui ha pubblicato si ricordano Garzanti e Rosenberg&Sellier.

Breve riflessione sul genere autobiografico
Gli autobiografi, come Sandra Bosco in questa sua ultima pubblicazione, hanno sempre molta audacia: non è da tutti né per tutti mettere al servizio di qualsivoglia ipotetico lettore la propria vita, le proprie esperienze, i successi più grandi e meritati – quelli, di solito, sono più semplici da raccontare! – e le sconfitte più amare; bisogna forse avere una sensibilità fuori dal comune e una forte consapevolezza di quello che si è stati e di ciò che si è diventati per scrivere la propria vita e farla leggere a chiunque. Bisogna avere molto coraggio per non curarsi delle critiche negative che ogni scrittore mette in conto fin dalla prima battuta. Spesso il confine intellettuale che separa la critica tecnico-stilistica dal giudizio sul testo e sugli eventi narrati è sottile. Ma nelle autobiografie, se ci si confonde nel giudicare l’opera o ancor di più nel recensirla, ci si ritrova a criticare la vita degli altri. In casi come questi, il compito del critico letterario o del recensore è un lavoro delicato: fin da piccoli d’altronde ci insegnano che quando si entra nella vita degli altri bisogna farlo in punta di piedi. È assolutamente legittimo pensare che sia l’autore, vista la scelta del genere, ad autorizzare commenti sulla sua vita privata e personale, d’altra parte è lui che sceglie di mettersi a nudo. L’autobiografia è la storia di una vita, la propria. E da ogni storia si può imparare qualcosa. Più storie leggiamo e più cose impariamo quindi. Criticare è facile, lo sappiamo fare tutti molto bene. Imparare, invece, è molto più faticoso e siamo costretti, a un certo punto, all’autocritica che non sempre abbiamo il coraggio di fare. Coraggio che invece a Sandra Bosco non è mancato. Leggere storie vere, come questa, è un’opportunità per imparare quello che non sappiamo ancora. In ogni pagina incontriamo persone, città, strade, pietanze che non abbiamo assaporato o piatti che conosciamo alla perfezione; viviamo situazioni nuove o del tutto familiari. Ed è solo attraverso il regalo di un’autobiografia che possiamo, per qualche attimo, vivere una vita diversa dalla nostra avendo la possibilità di capire se la storia della nostra vita la stiamo scrivendo nel modo giusto, che desideriamo veramente.

Istantanee di vita
Quella di Sandra Bosco è una vita ricca di esperienze, di amicizie, di amore, di passione, di impegno negli studi di lingue specie del tedesco.
Ci racconta le paure di quando, da bambina, alla fine della guerra, fu costretta a fuggire con la madre e i suoi fratelli per nascondersi dai partigiani: «La bambina che ero, viveva questo sfasamento del mondo che la circondava, si vergognava di far parte di una famiglia di ‘cattivi’, di quelli che tutti ora condannavano e perseguitavano, ma non capiva perché i ‘buoni’ commettessero le tante atrocità di cui si parlava, perché si dovesse temerli e sfuggirli come i nemici più spietati, perché da loro dovessimo sempre nasconderci». Ci fa capire quanto dopo la guerra si sentisse inadeguata nei confronti della società moderna che condannava i fascisti e racconta la storia della fine di quella guerra da un’altra prospettiva. Una vita fatta, come si suol dire, di alti e bassi, periodi felici e periodi bui, talvolta strazianti. Racconta della sofferenza grande per la perdita di Nelia, la sorella maggiore, e il senso di colpa che ci assale quando il tempo della vita è scaduto e non siamo riusciti a fare abbastanza per far capire a quella persona che le volevamo bene, che era importante: «Nelia è morta l’estate dei suoi ventiquattro anni (io ne avrei compiuti diciotto pochi giorni dopo) nella casa in campagna […]. Una ragazza giovane ha dei legami strettissimi con l’esistenza, delle radici molto difficili da spezzare, come un albero che viene abbattuto, ma la parte interna, più tenera ed elastica, resiste, non si spezza facilmente».
Più volte poi racconta il rapporto difficile e distaccato con il padre, non solo per la lontananza generazionale che è biologica per tutti i figli e i padri, ma anche per la sua assenza da casa per lavori in città lontane: «[…] dopo tante disavventure, era quasi sempre lontano e veniva a trovarci quando poteva, perché doveva pensare a mantenerci recuperando un po’ del patrimonio perduto durante la guerra».

È la dolcezza della figura materna che le ha sempre dato protezione, sicurezza, tenacia, senso del sacrificio, bontà d’animo e onestà: «Soprattutto lei non tollerava da parte mia alcun atto disonesto o bugia (per questo non so proprio mentire). Un giorno che, ancora piuttosto piccola, mentre lei faceva la spesa, avevo preso di nascosto una noce da un sacco lasciato aperto e me ne ero vantata, mi aveva riportata nel negozio facendomela rimettere davanti a tutti dove l’avevo presa, con mia somma vergogna».

Racconta poi la sua inadeguatezza e solitudine dei primi anni di collegio: la famiglia era presa da «ben altre preoccupazioni» e lei si sentiva sola e svogliata all’inizio delle scuole medie perciò decisero di mandarla dalle suore: «mangiava anche poco, si sentiva sola e inutile».

Gli anni del liceo furono tempi migliori più felici e sereni; e poi l’università e il primo amore finito dopo nove anni senza averlo vissuto come avrebbe voluto: «La mia prima storia d’amore davvero importante, prima del matrimonio, è durata quasi nove anni ed è finita perché ho incontrato Niki, o forse è più esatto dire che si è consumata lentamente per il troppo tempo che abbiamo passato insieme senza avere il coraggio di vivere compiutamente il nostro rapporto, come oggi i giovani giustamente fanno (può finire egualmente, però è stato vissuto). Ma io ero una ragazza degli anni Quaranta con le proibizioni, le paure ancestrali radicate dentro, l’educazione rigida, sotto certi aspetti, che ti impediscono di essere e vivere quello che senti, provi, e tutto il tuo essere pretenderebbe».

E poi Niki, il suo compagno di vita: racconta quando si sono conosciuti durante una sessione d’esami, lui tutto d’un pezzo, restio quasi alla sua compagnia; dice che non fu amore a prima vista, ma un sentimento e una scoperta che sono cresciute con il tempo finché non è stato più possibile immaginare un futuro lontani dall’altro.

E poi l’autrice ci porta con lei durante i primi interminabili viaggi verso la Grecia altro suo grande amore.

Stile e personalità
«La mia personalità non è così equilibrata e tranquilla come dovrebbe o potrebbe essere, non sopporto le costrizioni e la mancanza di libertà. Ho bisogno dei miei tempi e dei miei spazi, di fare come voglio, quando voglio, nel limite del possibile».

Riferimenti ai classici della letteratura e del cinema
Sono un ottimo strumento per entrare nella storia e nei pensieri dell’autrice: corrono in aiuto al lettore quando l’autrice sente il bisogno di coinvolgerlo ancor di più nella situazione e nello stato d’animo che sta raccontando. E che cosa meglio della letteratura e dell’arte in genere possono dare forma e colore universali alle emozioni e agli stati d’animo?
L’esempio più significativo lo ritroviamo all’inizio, quando parla del rapporto con il padre: «Recentemente ho letto con molto interesse un libro di Pierluigi Battista, Mio padre era fascista. […] Così anche all’autore le figure dei partigiani apparivano da bambino come orchi, creature malvagie che attorno al ’45, anche dopo il 25 aprile, avevano praticato ogni genere di angherie su mio padre e quelli come lui […]. I giorni della Liberazione, nel racconto di mio padre erano i giorni neri delle vendette, delle violenze, dei soprusi».

Intermezzi gastronomici
Dai sapori della campagna piemontese di una volta alla gustosa cucina Greca, se prendeste appunti nel corso della lettura, alla fine vi trovereste una lista simile a quella di un libro di cucina. Parlare del cibo è una scusa per conoscere nuove culture, abitudini e mentalità diverse. E anche se l’autrice ammette di non essere mai stata vorace e ingorda, apprezza molto la “buona cucina”, quella della sua infanzia quella nella campagna di Asti e durante gli anni in cui suo padre lavorava presso una fornace di laterizi. Ricorda le ricette gustose della cucina tradizionale come il sancrau. Ma a stuzzicare l’appetito sono le descrizioni dei piatti e delle bevande tipiche della Grecia: «[…] dovevano mangiare e godersi il tramonto con polipo, oúzo e olive, placando i piccoli con qualcosa di meno costoso, per esempio ipovríkio sottomarino (acqua con vaniglia) o altra bibita leggera», raccontando una delle tante serate estive trascorse con la compagnia di amici. E «anche le loukoumádes fritte e poi immerse nel meraviglioso miele del paese», prelibatezza esclusiva per i 18 anni di marcello, il figlio. E si aggiunga alla lista la féta, la kakaviá (zuppa di pesce) e il mousaká. «Meglio i souvlákia, spiedini, cibo tradizionale egualmente nutriente e a buon prezzo se proprio carne doveva essere e non solo insalata alla greca che conteneva già tutto quello che era necessario, pomodori, cetrioli, cipolle, olive, formaggio, per non parlare della cretese con una specie di particolare pane secco, delizioso, impregnato di olio e del sugo di tutti gli altri ingredienti».

«In quegli anni si beveva la retsína vino ottimo e profumato, conservato, secondo una millenaria tradizione, in botti di legno insieme a resina di pino, fuoriuscita dall’albero cui era praticato un taglio sulla corteccia. Il liquido colloso veniva raccolto in un recipiente apposito e poi utilizzato».
E come tutte le cose, con il tempo, cambiano: «Ormai la nostra tanto amata bevanda è un ricordo. Non viene più quasi prodotta perché pare che ultimamente fossero usati degli acidi per provocare una resina abbondante nei pini, risultata così nociva».

Gabriella Zullo

(direfarescrivere, anno XIII, n. 135, aprile 2017)
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