Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La recensione libraria
Una testimonianza per ricordare.
La sofferente biografia di un uomo,
prigioniero nei lager tedeschi
Una minuziosa e coinvolgente analisi dell’orrore
e della follia delle truppe naziste che fa meditare
di Gilda Pucci
«Un famoso scrittore cileno, Luis Sepúlveda, riporta all’interno di una delle sue opere più conosciute (Le Rose di Atacama) un’iscrizione incisa da un prigioniero trovata nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. In un angolo, a un passo da dove si innalzavano gli infami forni crematori, nella ruvida superficie di una pietra, qualcuno aveva inciso con l’aiuto di un coltello forse, o di un chiodo, la più drammatica delle proteste: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”».
Basato su una storia vera, All’alba saremo liberi (Eclypsed word, 2015, pp. 150, € 14,00), di Deborah Muscaritolo, è un concentrato di riflessione e vuole essere non solo una biografia, ma la “voce” di tutti i deportati che durante la Seconda guerra mondiale patirono lo spietato orrore nazista. Questo libro vuole essere un “promemoria”, un segno tangibile nelle nostre menti e nelle nostre anime, affinché grazie alla testimonianza dei pochi superstiti, questi crimini, fuori dalla logica umana, non vengano in alcun modo ripetuti.
Antonio Muscaritolo, protagonista della storia e nonno dell’autrice, è un militare italiano a servizio del proprio paese in Liguria nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale, quando viene catturato dalle armate tedesche e deportato come prigioniero in Germania, in seguito all’armistizio annunciato dal generale Badoglio.

L’incredibile storia di Antonio
Antonio è vittima dei lager, dei campi di lavoro e di sterminio, dove rimane per due anni (1943-45). È un sopravvissuto, che porta nella carne, nella testa e negli occhi ‒ come ricorda la stessa Deborah ‒ la sofferenza patita, il ricordo sempre vivo delle urla dei kapò e di quelle dei prigionieri torturati, l’immagine dei cadaveri accatastati, delle «marce della morte», di un marchio sul braccio e di tutte quelle atrocità descritte spesso in modo cruento, vero e minuzioso all’interno del testo. Molti avvenimenti ci vengono presentati con uno stile così vivido che pare di sperimentarli e riviverli sulla nostra pelle. Il racconto, in un registro semplice e comprensibile, in un linguaggio dalle espressioni quasi “fotografiche”, si presenta come un saggio scientifico: l’autrice nella stesura della storia fa tesoro degli aneddoti del nonno, ma anche di un’attenta ricerca d’archivio; tra una pagina e l’altra, infatti, vengono disseminati i riferimenti ad alcuni documenti a certificare la veridicità di ciò che si sta narrando.
Antonio, come tanti altri soldati, sceglie di non arruolarsi con i tedeschi, dopo la pace siglata dall’Italia con le truppe alleate, e viene trasportato con l’inganno nel campo di concentramento di Dora, in Germania, a lavorare in tunnel sotterranei alla costruzione di armi, in particolare dei missili V1 e V2, argomento approfondito dall’autrice.
I deportati erano strumenti prosciugati “fino all’osso” che alimentavano la macchina da guerra tedesca e ne accrescevano la potenza. Esposti al freddo, alla fame, agli stenti, al pericolo di esplodere da un momento all’altro, di schiantarsi al suolo senza imbracatura o rischiando di ammalarsi di tifo e tubercolosi, erano sottoposti alle peggiori angherie. Solo la fortuna, lo evidenzia bene l’autrice, stabiliva, nelle stesse condizioni, chi dovesse vivere e chi morire.
La sorte propizia lo accompagnò: le ore di riposo concesse, là dove era proibito anche espletare le funzioni fisiologiche, la possibilità di prestare servizio presso un civile, quindi di scampare per qualche tempo all’inferno del lager, il gamellino ritrovato passeggiando lungo il perimetro del campo, che gli concesse di ricevere una seconda razione di cibo, fino alla realizzazione della fuga notturna da quel convoglio che lo avrebbe condotto a morte certa. La destinazione del treno era «la soluzione finale», lo sterminio totale dei prigionieri e la cancellazione delle prove dell’abominio nazista, una volta che il regime comprese l’esito negativo della guerra.
Il destino, dunque, è stato clemente con Antonio, ce lo conferma la fine della storia: egli faceva parte dei pochi deportati di cui la famiglia apprese la condizione, grazie all’azione caritatevole di un prete di Padova. Giunto finalmente a casa, gli venne mostrato, infatti, un cartoncino: era una cartolina inviata da un sacerdote con su scritto: «Il vostro congiunto, passando per questa stazione, diretto in Germania, vi saluta». I soldati deportati di cui faceva parte anche il nonno di Deborah, sul treno merci, avevano ritenuto opportuno scrivere alcuni bigliettini da destinare ai familiari e ai parenti e lanciarli dal finestrino, con la speranza che qualcuno li raccogliesse e avvisasse le famiglie.
Non si tratta di un episodio isolato, si tratta solo di una delle immagini che la Muscaritolo ci offre, in cui compaiono la sensibilità, il calore e la dignità umana in un contesto freddo, cinico e spietato, in cui gli stessi prigionieri che inizialmente mostrano un altruismo vicendevole, devono poi lasciarsi andare alla legge della sopravvivenza.
La torta, offerta ai prigionieri da due signore tedesche la notte di Natale, è un chiaro messaggio di pace, di solidarietà, di accoglienza, di immedesimazione, e indica la non condivisione per di un sistema illogico basato sul barbaro razzismo, che tra l’altro, senza leggi razionali, è destinato ad infrangersi o a capovolgersi, trasformando i vincitori in vinti, senza risparmiare nessuno, come è narrato nella biografia.

I nuovi prigionieri
Un tema attuale dunque, una storia sicuramente interessante, quella di Antonio, che può essere rapportata a quella di centinaia di immigrati che raggiungono le nostre coste dopo le spietate sofferenze della guerra, la violenza dei trafficanti, l’inferno della traghettata in mare. Spesso, giunti in Italia, anche loro vengono additati, umiliati, costretti a lavorare in un “campo” dodici ore al giorno, a raccogliere arance per due euro, a vivere in condizioni disumane, senza sicurezza, in mano ai “kapò” della malavita.
Ecco, il libro, così dettagliato di errori umani, vuol trasmetterci questa condizione di fragilità dell’uomo, la sua non-onnipotenza, per cui da carnefice a vittima è veramente un attimo. È un invito a calarci nei panni dell’altro, a capire che la stessa sorte potrebbe toccare anche a noi, e si presenta prima di tutto come una specie di manuale per non commettere più gli stessi orrori (errori sarebbe riduttivo), in cui l’autrice sembra volerci dire confidenzialmente: “Guarda, ti faccio vedere cos’è successo a mio nonno, ti offro in regalo la sua testimonianza, affinché tu, lettore, possa conoscere, comprendere, sentire, fin dentro alle ossa, il dolore e dopo questo scossone, passare parola, evitando che ciò si possa riproporre in futuro”.
Tornando ad Antonio, è l’alba quando, dopo essere scappato furtivamente nella notte, approfittando della momentanea distrazione dei tedeschi, con l’ansia di poter esser sparato in testa da un momento all’altro o di saltare in aria per via dei bombardamenti, dopo trenta chilometri, una notte trascorsa nei tunnel del Dora, posto abbandonato dalle SS e divenuto rifugio per i civili, il nostro protagonista è finalmente libero.
L’alba, questa figura che compare anche nel titolo del libro, ridona speranza in vista di un nuovo giorno e probabilmente è anche il simbolo della fine delle sofferenze, della rinascita, della nuova vita e della speranza nelle generazioni future. Dopo essere giunto dal civile presso cui aveva lavorato, in un ambiente al sicuro dalle imboscate e dalle bombe, e dove si trovavano ancora alcuni deportati a lavoro, finalmente arrivano gli americani. È commovente sentir dire dal protagonista: «Ci trattarono come colleghi, non più come prigionieri».
L’originalità del libro, che si legge tutto d’un fiato, se vogliamo, sta in un lieto fine strano: probabilmente è qui che la biografia supera la parte romanzata. Non aveva tradito la patria Antonio, ma fu tradito dalla stessa; giunto in Italia non venne creduto, non venne risarcito immediatamente, venne accusato di aver lavorato per i tedeschi, il paese per cui aveva rischiato la vita gli girò le spalle. Ma lui continuò ad indossare i pantaloni della divisa militare ogni giorno a testa alta.
Che fosse per lui motivo di rivincita? Per capirlo bisogna che conosciate Antonio, che sfogliate il testo.

Gilda Pucci

(direfarescrivere, anno XII, n. 130, novembre 2016)
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