Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La recensione libraria
Quando un bambino felice è promessa
del cinema di domani: Marlon Brando,
e la ricerca di amore, al di là dei traumi
Un ritratto sfaccettato di un leggendario attore,
senza ipocrisie, alla luce delle teorie freudiane
di Annalisa Pontieri
Cosa c’è dietro un’icona del cinema? Dietro lo sguardo e il sorriso immortalati sulle pellicole degli anni Cinquanta? Dietro la facciata rude de Il selvaggio Johnny?
Se ne è scritto molto, ma sarà mai abbastanza per tentare di delineare un profilo tanto sfuggente, quanto ormai scomparso nelle spire della caducità umana?
Probabilmente no e nessuno rinuncerà a dire la sua.
Certamente non si può tacere della lettura – alla luce delle lezioni freudiane, e tutt’al più che ricorre proprio quest’anno il centocinquantesimo anniversario dalla nascita del grande Sigmund – effettuata da Eva Gerace, psicologa esperta in psicanalisi formatasi in Argentina e scrittrice, nel suo Marlon Brando. Quando il desiderio si fa uomo, a cura di Daniela Pellicanò (Città del Sole Edizioni, pp. 72, € 8,00).
Quello che l’autrice ama definire un «saggio senza preavviso», in origine era una relazione dal titolo Il cibo è stato sempre un buon amico tesa a dimostrare le origini psichiche della bulimia, ed evolutosi poi in saggio alla ricerca del caso “clinico” nel mito e nella leggenda del cinema. Supporti irrinunciabili tutte le biografie autorizzate e non.
I diversi aspetti del percorso psichico dell’uomo Brando sono sintetizzati dalla Gerace anche attraverso i titoli dei numerosi film interpretati dall’attore, sottolineando maggiormente la relazione da vasi comunicanti delle due identità dell’artista. Per esempio L’ammutinamento del Bounty allude alla sua natura vandalica, che decise i genitori a farlo raddrizzare in una scuola militare da cui poi fu cacciato per averne rubato la campana. Il selvaggio allude alla sua ricerca e alla scoperta di una libertà senza limiti, alla lunga anche devastante e Superman alla sua fortuna con le donne ma anche al disordine affettivo, tanto da fargli confessare a un biografo: «Io sono solo una puttana che ha lavorato sul marciapiede di fronte». La Gerace rincara la dose con un interrogativo lapidario: «ancora non sa a cosa serve un marciapiede e qual è il suo?»

Essere gli altri
Parafrasando Jorge Luis Borges, l’autrice ricorda nella Prefazione che «siamo tutto il nostro passato, il nostro sangue, la gente che abbiamo visto morire, i libri che ci hanno migliorato, in una parola… siamo piacevolmente gli altri.»
Sulle orme di Freud, così si ricerca il nesso tra la storia di un soggetto e il sintomo. Così il mito Brando si riscontra nel difficile rapporto col padre, commesso viaggiatore fallito, nella madre alcolizzata, attrice e fondatrice di una compagnia di teatro sperimentale, che scoprì Henry Fonda e che rinunciò alla carriera per sposarsi.
Il senso dell’abbandono incombe sempre sulla sua vita: al primo, quello della madre a favore della bottiglia, segue quello di Ermi, la governante diciottenne, a cui è legato il ricordo d’infanzia più dolce per il piccolo ma anche la prima delusione, quando ella lo abbandona per sposarsi.
Quindi il borgesiano “essere gli altri” significa per Brando soffrire per gli altri, tanto che fa specie pensare che l’uomo forte e virile ha continuato ad avere debolezze infantili, quali ad esempio il suo attaccamento all’oggetto-cuscino, diventato – per il bambino prima e per l’adulto dopo – «un talismano infantile»: abbracciato ad esso dormiva in ore e luoghi insoliti.
La patologia si manifesta anni dopo, quando per sopportare la perdita della madre, il cui ricordo più bello era legato ad un pomeriggio passato accoccolato accanto a lei, in ospedale prende un ciuffo dei suoi capelli e il suo cuscino.

Il mangiare e il bere
Due azioni che per l’uomo comune sono di sussistenza assumono per Brando sembianze tragiche.
L’azione del bere si associa alla dipendenza dalla bottiglia di entrambi i genitori. E stranamente il binomio bere/amare non si scioglie neanche in età adulta: è in seguito ad un’ubriacatura che perde la verginità con una donna più grande di dieci o quindici anni. L’alcool è sempre causa di privazione dei suoi oggetti d’amore, come la madre e il migliore amico Wally Cox. Un destino segnato.
L’azione del mangiare si lega invece ad un tentativo di ritrovare la madre, perché ricorda che quando era piccolo e tornava da scuola, trovava ad accoglierlo non lei ma i piatti impilati nel lavello. Si ritrovava solo, apriva il frigorifero e si incontrava con una torta di mele che lo seduceva. Così «Il cibo è stato sempre un buon amico», d’accordo quasi con Guillame Apollinaire: «Colui che mangia non è solo».
Ecco come si spiega la sua passione per i gelati e gli attacchi notturni in cui ingurgitava hamburger. Non era grasso per costituzione ma per gola, perché mangiava; eppure prima di girare un film, riusciva a perdere con una ferrea dieta quindici chili. Il suo problema non era fare dieta e ginnastica, ma ammettere che il cibo fosse un piacere e quasi un mezzo per amare.
Non avendo mai smesso di esserlo, del fascino rude e dolce con l’andare degli anni ne restò solo l’ombra, fino a pesare 160 Kg. Impietosamente i giornali scandalistici fecero a gara nel pubblicare le foto più recenti, mettendolo spietatamente a confronto con le immagini dei tempi d’oro.

Disordine e successo
Il disordine domina ed indirizza la sua vita perché, spiega la Gerace, «Nessuno gli dice cosa si può fare e cosa no […] ancora non sa a cosa serve un marciapiede e qual è il suo?»
Così passa da un “amorazzo” ad un altro senza soffermarsi, fa quello che gli piace e non gli importa se è giusto o meno. E la sua autostima passa anche attraverso un vivere senza regole e fuori dalle regole, questo perché soprattutto il padre non l’ha mai incoraggiato e l’ha sempre fatto sentire un buono a nulla, tanto che quando la famiglia gli riconosce di saper recitare, Brando acciuffa quel “tram chiamato desiderio”, riuscendo con tanta fatica e forza di volontà a superare anche la dislessia da cui è affetto sin da bambino. Così racconta la Gerace: «Quando iniziò a lavorare nel cinema inventò trucchi per imparare a parlare, pensava a come accomodare la lingua per non balbettare. Da qui nacque quel modo singolare di parlare, pausato, che tanto lo ha caratterizzato. È stato il risultato del suo sforzo per dissimulare la sua ecolalia».
Ecco quindi l’uomo con le sue debolezze arretrare per far posto all’attore che presta il suo corpo, la sua voce, il suo sguardo magnetico a personaggi immortali e certo meno problematici del loro alter ego.

Annalisa Pontieri

A. P., esperta di Storia dell’arte, è collaboratrice della rivista www.scriptamanent.net (della quale è responsabile delle sezioni Letteratura ed Editoria varia) nonché coordinatrice della rivista Rnotes. Socia di Bottega editoriale Srl, ne coordina i progetti.

(direfarescrivere,anno II, n. 5, giugno 2006)
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