Anno XXI, n. 231
maggio 2025
 
La recensione libraria
Dalle origini alla fine dell’Ottocento
fino ai “pizzini” di Provenzano:
le strutture comunicative della mafia
Enzo Ciconte racconta i codici e i rituali mafiosi
in un saggio sorprendente, edito da Rubbettino
di Selene Miriam Corapi
«Si può sorridere all’idea di un criminale, dal volto duro come la pietra, già macchiatosi di numerosi delitti, che prende un’immagine sacra, giura solennemente su di essa di difendere i deboli e di non desiderare la donna altrui. Si può sorriderne, come di un cerimoniale arcaico, o considerarla come una vera e propria presa in giro. Si tratta invece di un fatto estremamente serio, che impegna quell’individuo per tutta la vita. Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi», Giovanni Falcone in Cose di cosa nostra (Rizzoli, 1991).
Molti ritengono che i codici mafiosi siano strutture comunicative ormai legate al passato, al folklore, termine qui utilizzato in senso dispregiativo «per segnare una presa di distanza o una linea di demarcazione», considerando quindi le cerimonie e i rituali «ridicoli, un rimasuglio d’un passato arcaico, di quanto di selvaggio e di oscuro ci possa essere in un’organizzazione nata in anfratti o in grotte inaccessibili della selva dell’Aspromonte». Ma non è così. In Riti criminali. I codici di affiliazione alla ’ndrangheta (Rubbettino, pp. 152, € 12,00) Enzo Ciconte affronta in maniera sistematica il problema mafioso: infatti, dopo un primo excursus storico sulle origini della criminalità organizzata, vengono analizzati i codici e i rituali che le hanno permesso di divenire così potente al punto da potersi proiettare sia al Centro che al Nord Italia e anche all’estero in maniera assolutamente capillare.

La ’ndrangheta e i suoi codici
Perché la mafia ha sempre avuto nel tempo un così alto numero di giovani proseliti? Divenire “uomo d’onore” rappresentava, per tanti, una forma di prestigio, conferiva autorevolezza e dignità.
Ancora oggi, al di là delle specifiche differenziazioni regionali, di cui non ci si deve mai dimenticare, per avere un quadro chiaro della situazione attuale che vede la criminalità organizzata assumere facce del tutto impreviste e lontane dai tratti “canonici” di un tempo, si parla di mafia in senso generico. E ciò dipende dal fatto che è un’organizzazione unitaria in cui il presente non contrasta con il passato ma vi si intreccia indissolubilmente, motivo per cui è sopravvissuta e continua a prosperare.
La ’ndrangheta «non è mai stata solo un fenomeno criminale o delinquenziale. È stata a volte, e a lungo, anche uno strumento di promozione sociale, un modello, una cultura, un comportamento, un potere, una visione del mondo. Per questo i giovani continuano ad esserne attratti».
In molti hanno studiato e analizzato i codici alla base dell’organizzazione mafiosa, per esempio scrittori e letterati come Luigi Malafrina e Sharo Gambino, don Luca Asprea e Saverio Strati; ma anche testimoni dall’interno come Serafino Castagna e Antonio Zagari, Rocco Varacalli e Maria Stefanelli; o ancora Francesco Forgione, Vincenzo Macrì, Nicola Gratteri, Antonio Nicaso, John B. Trumper, Marta Maddalon e Pasquale Angelosanto.
I primi codici rinvenuti risalgono agli ultimi decenni dell’Ottocento, anche se, in realtà, non abbiamo prove che non esistessero già prima. Inizialmente la loro presenza era sottovalutata o comunque ritenuta marginale: nessuno poteva sospettare, infatti, «che contadini analfabeti potessero utilizzare o addirittura aver elaborato formule così complesse e astruse per poi riportarle in forma scritta». Tuttavia, in origine le formule dei codici venivano tramandate oralmente, facendo affidamento soltanto sulla memoria dei padri e dei figli; solo in un secondo momento questi ultimi, padroni ormai della capacità di leggere e scrivere, iniziarono a compilare «carte che polizia e carabinieri avrebbero ritrovato. Quelle carte sarebbero state oggetto di domande e sarebbero state assunte come fonte di prova per dimostrare l’appartenenza all’organizzazione».
«Perché i giovani sono stati e continuano a essere attratti dai codici e dalle cerimonie? Perché c’è un indiscutibile fascino che li attrae e li proietta in un mondo pieno di segreti, di riti, di misteri, che li colloca al di sopra dei loro coetanei che non hanno il diritto di partecipare alle riunioni della società della malavita». I codici non sono mai identici tra loro, hanno sì un filo conduttore comune, una medesima trama e funzione, ma presentano delle varianti, e proprio queste modifiche ci fanno comprendere la vitalità della ’ndrangheta, «della capacità di non ossificarsi e di trovare sempre nuove espressioni. È come se i mafiosi fossero alla continua ricerca di parole e linguaggi nuovi, di nuove doti dai nomi fantasiosi».
Luigi Settembrini, patriota e detenuto politico, nella sua opera Ricordanze della mia vita, racconta come avesse incontrato in carcere briganti e camorristi di ogni specie, e di come essi avessero trovato il modo «di inventare un linguaggio che era sconosciuto alle guardie carcerarie: “Noi formammo una lingua di convenzione che neppure il diavolo poteva intendere” e da allora diventò il linguaggio dei detenuti i quali presero “a parlarla con una facilità mirabile”. Quanto di questa parlata si travasò nei codici trasformandosi con il passare del tempo in linguaggio mafioso?».
Nel 1897 sulla rivista Folklore calabro-reggino venne pubblicato un saggio di Giuseppe Megali Del Giudice intitolato La malavita e il suo statuto. La provenienza del documento è ignota, ma la sua importanza è fondamentale perché ci permette di conoscere la diramazione della camorra napoletana a Reggio Calabria; l’opinione pubblica non solo ne veniva a conoscenza ma scopriva anche che oltre al nome possedeva uno statuto, con determinati gradi gerarchici, con cerimonie e rituali particolari; un documento che testimoniava «che, dunque, questa Malavita non era una struttura occasionale, ma duratura e ben strutturata».

Un esempio di codice
Nel 2013, a casa di Giovanni Cretarola, calabrese, nato a Sanremo e vissuto a Roma, fu ritrovato dalla squadra mobile che lo arrestava per l’omicidio di Vincenzo Femia un quaderno a righe di colore rosso contenente sette fogli cifrati.
Riportiamo di seguito parte del codice rinvenuto: «Una bella mattina di sabato santo allo spuntare e non spuntare del sole passeggiando sulla riva del mare vitti una barca dove stavano tre vecchi marinai che mi domandarono cosa stavo cercando. Io gli risposi sangue e onore. Mi dissero di seguirli che l’avrei trovato. Navigammo tre giorni e tre notti fino ad arrivare nel ventre dell’isola di Favignana. Lì sulla mia destra vitti un castello dove c’erano due leoni incatenati a una catena di ventiquattro maglie e con me venticinque dopo mi accorsi che c’era una scala di marmo fino finissimo di ventiquattro gradini e con me una venticinque in cima a questa scala sulla mia destra trovai tre stanze entrai nella prima e vi trovai un vecchio con la barba era San Michele Arcangelo entrai nella seconda stanza e vi trovai una donna vestita tutta di nero era nostra Santa Sorella Elisabetta entrai nella terza stanza e vi trovai una cassa di noce fina finissima l’ho aperta e vi trovai un pugnale e lì ho giurato eterna fedeltà all’onorata società». Sembra uno scioglilingua a prima vista incomprensibile, ma Renato Cortese della squadra mobile con un lavoro minuzioso è riuscito a decodificare il testo. Come si evince dalla lettura, la punteggiatura è assente; nelle formule e nelle parole ricorrenti si avverte uno stretto legame con gli antichi rituali che perdurano nel tempo.

La ’ndrangheta al Nord
L’uso dei rituali, negli ultimi anni, si è moltiplicato, «in particolar modo nell’ultimo decennio. Perché? E perché ciò avviene non solo in Calabria, ma in modo prepotente e impetuoso al Nord e all’estero?».
Nei nuovi insediamenti al Nord la ’ndrangheta è riuscita a stabilirsi perché è passata inosservata, per quanto è stato possibile, senza suscitare eccessivi clamori; i carabinieri della Liguria hanno fatto notare che la malavita lì è da sempre stata una «presenza molto più discreta rispetto alla Calabria, terra di origine di questa potente organizzazione criminale. I personaggi anziani […] che si sono stabiliti nella nostra Regione, hanno scelto di condurre uno stile di vita riservato e scevro dall’ostentazione del potere e dagli eccessi, che ha quindi consentito loro di mantenere un profilo molto basso»; una scelta consapevole che ha avuto indubbiamente i suoi vantaggi.
Attraverso i codici rinvenuti al Nord è stato possibile comprendere il legame che le filiali possiedono con le ’ndrine rimaste in Calabria; i rapporti sono di dipendenza gerarchica: «A comandare, ad avere l’ultima parola è sempre chi sta giù».
Cretarola, citato precedentemente, è divenuto uno dei collaboratori di giustizia, un testimone interno, che nel processo iniziato nel 2015 a Roma ha fornito diversi dettagli importanti per comprendere l’utilizzo dei codici; nel corso delle varie udienze l’imputato precisa al pubblico ministero: «Queste cose che io le ho raccontato non sono né una nota di colore né un folklore calabrese, ma sono ciò che costituiscono la vera forza, il vero collante della ’ndrangheta: sono quello che differenziano la ’ndrangheta da tutte le organizzazioni criminali a livello mondiale; sono quello che fanno resistere gli affiliati all’interno dei carceri anni e anni di galera e di condanne! […] Sono la forza della ’ndrangheta, costituiscono il suo passato, il suo presente e ciò che verrà nel futuro».
Ciconte, autore del saggio, conclude affermando: «I codici forniscono agli uomini che si autodefiniscono d’onore una lettura della società, dettano norme rigide di comportamento, inventano una tradizione, creano il passato, forniscono l’ideologia. […] I codici forniscono un senso d’appartenenza e un’idea di comunità per uomini che per emergere e sopraffare il prossimo con la violenza hanno avuto bisogno di un’ideologia e una cultura che ne giustificassero le azioni».

Selene Miriam Corapi

(direfarescrivere, anno XII, n. 123, marzo 2016)
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