Anno XXI, n. 231
maggio 2025
 
La recensione libraria
Inghiottiti dalla storia e dal silenzio:
dare voce a chi non ne aveva più,
confinato in un paese vicino e lontano
Uno squarcio sull’Albania del dopoguerra
per non dimenticare il passato, da Città del sole
di Guglielmo Colombero
«Albanesi o italiani che fossero, sembravano comunque giungere, e in fondo arrivavano, da un altro mondo, da una realtà oscura, lontana e misteriosa, come misteriosi sembravano loro, con i loro volti dai caratteri ruvidi, vestiti con abiti fuori moda, con acconciature demodé e pronti a tutto pur di non tornare indietro. Erano solo volti, ombre, corpi di uomini e di donne, di adulti e di bambini provenienti da un passato remoto in buona parte sconosciuto»: così, nello scorcio iniziale di Italiani d’Albania. Breve storia di una grande rimozione: italiane e italiani dimenticati nel Paese delle Aquile (Città del sole, pp. 160, € 10,00), volume patrocinato dall’Isral (Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi”), l’autore William Bonapace descrive l’arrivo a Ciampino di trentaquattro profughi di origine italiana, la sera del 18 marzo 1992. Docente di Relazioni interculturali presso l’Università della Valle d’Aosta, l’autore ha già pubblicato Srebrenica fine secolo: nazionalismi, intervento internazionale, società civile (Israt, 2005) e Medio Oriente. Minoranze, diaspore, rifugiati, migrazioni, in Asia Italia, scenari migratori (Idos, 2012). Tre anni fa ha poi presentato ad Alessandria il romanzo di Aldo Renato Terrusi Ritorno nel paese delle aquile, in cui l’autore, attraverso i ricordi della sua famiglia, ricostruisce la vicenda del padre Giuseppe, ex direttore di banca condannato a dieci anni di carcere duro e morto nel penitenziario di Burrel senza aver potuto mai più rivedere i propri cari.

Dopo Abissinia e Spagna, il Fascismo aggredisce l’Albania
È il 7 aprile 1939: una settimana prima il “generalissimo” Francisco Franco, vittorioso sui repubblicani spagnoli grazie al sostegno delle camicie nere di Mussolini, è entrato trionfalmente a Madrid. Alle 5:30 del mattino, le truppe italiane sbarcano a Durazzo e invadono l’Albania, rovesciando quasi senza colpo ferire il corrotto regime di Ahmet Zogu, un signorotto feudale che nel 1928 si era autoproclamato re con il nome di Zog I Scanderbeg, vantando una fasulla discendenza dall’eroe nazionale del XV secolo. L’occupazione italo-tedesca dura fino al 29 novembre 1944, quando gli ultimi reparti nazifascisti abbandonano il paese. Enver Hoxha, primo segretario del Partito comunista albanese e leader indiscusso della lotta di liberazione, detiene un potere assoluto fino alla morte, avvenuta per cause naturali l’11 aprile 1985, all’età di 76 anni. Il suo successore Ramiz Alia avvia il processo di transizione verso la democrazia, che si completa nella primavera del 1991.
Il crollo del regime comunista porta alla luce l’incredibile vicenda degli italiani segregati in Albania nel dopoguerra: a partire dal 1940, infatti, il governo collaborazionista di Shevqet Verlaci incoraggia l’emigrazione in Albania di coloni italiani provenienti dalla Sicilia e dalla Calabria, accolti inizialmente con favore in quanto appartenenti alla comunità greco-albanese degli arbëreshë, stanziata nel Mezzogiorno d’Italia all’indomani della conquista ottomana dei Balcani. Si calcola che Mussolini trasferì in Albania circa diecimila italiani, con lo scopo di “italianizzare” il paese, annesso insieme all’Etiopia alla corona di Vittorio Emanuele III. Dopo il tracollo dell’8 settembre 1943, circa centomila tra militari e civili italiani rimasero isolati in Albania: molti di loro, non si saprà mai esattamente quanti, spesso disarmati e innocenti, furono massacrati da partigiani albanesi smaniosi di vendicarsi delle atrocità commesse dagli occupanti nazifascisti. Basti citare l’eccidio di Mallakasha, ribattezzata la “Marzabotto albanese”, avvenuto il 14 luglio 1943, per ironia della sorte soltanto dieci giorni prima della caduta del Fascismo. Numerosi militari lasciati allo sbando dall’imbelle governo Badoglio finirono nelle mani dei tedeschi, che ne fecero strage: particolarmente efferata fu la rappresaglia contro la Divisione Perugia, sterminata nel mese di ottobre 1943. L’autore descrive con crudo realismo la condizione disperata dei soldati italiani nel paese delle aquile: «Braccati dai tedeschi e dai nazionalisti albanesi (e a volte anche dai partigiani di Hoxha), spesso malati di tifo o di malaria, per lunghi mesi questi uomini furono costretti a vagare tra le campagne e le montagne senza rifornimenti di alcun genere, mangiando tartarughe, erbe grasse e frutta selvatica così come rubando nelle case dei contadini».

Ostaggi del Caligola rosso dei Balcani
Al potere dal 1944 al 1985, Enver Hoxha è una figura sinistra, delirante e paranoica: devoto ammiratore di Stalin (al punto da tradurre in albanese i suoi discorsi), mantiene il paese nella miseria e nel terrore per quattro decenni. Nell’Albania di Hoxha, sottolinea Bonapace, «tutti sapevano di vivere immersi in una sorta d’immensa bugia eppure contribuivano a legittimarla attraverso uno strano meccanismo guidato dalla paura e dall’abitudine che rendevano automatica la doppia verità interiorizzando la propria sottomissione verso il potere». Uno scenario, quello dell’Albania marxista, dove sembra avverarsi in pieno la profezia di Orwell in 1984, incarnata in una sorta di Grande Fratello balcanico. In politica estera, Hoxha si barcamena fra Urss e Cina, ma nel 1978 rompe anche con Pechino e condanna l’Albania a un catastrofico isolamento. All’interno, nel 1967 ordina la chiusura di tutti gli edifici di culto: l’Albania diventa così l’unico stato al mondo in cui l’ateismo è imposto per legge. La sua polizia segreta, la Sigurimi, scimmiotta in stupidità e ferocia la Ghepeù staliniana. Persino all’interno dello stesso Partito comunista albanese, qualsiasi opposizione è annientata: l’unico rivale che poteva fargli ombra, il ministro della difesa Koci Xoxe, suo ex compagno di lotta, viene condannato a morte nel 1949, con l’accusa di simpatia per la Jugoslavia “eretica” di Tito. E un altro potenziale antagonista, il premier Mehmet Shehu, viene “suicidato” nel 1981. Illusorio sperare che un simile sanguinario tiranno potesse usare un occhio di riguardo per gli “invasori fascisti” italiani, anche se in realtà si trattava di poveracci che di politica non si erano mai interessati. Appare quindi miracoloso, nell’estate del 1945, il rientro in patria di quasi diciassettemila italiani, grazie all’accordo stipulato fra Hoxha e il sottosegretario alla difesa del governo italiano, generale Mario Palermo. Deterioratesi in seguito le relazioni diplomatiche fra Roma e Tirana, l’esodo dei rimanenti italiani rimasti bloccati in Albania (circa 600) procede a singhiozzo: il 15 dicembre 1949 le autorità italiane dichiarano ufficialmente concluse le operazioni di rimpatrio. Ma resta aperta la questione dei “dimenticati”: le coppie miste, i loro figli. E alcune decine di detenuti politici. Denuncia Bonapace: «La loro situazione fu considerata una questione personale e non una violazione di un diritto umano, per cui le autorità italiane non provvidero mai a stilare un censimento per sapere quanti fossero, chi fossero e dove e in quali situazioni si trovassero». Visti con ostilità dal regime di Hoxha, questi italiani “dimenticati” si trovano in una condizione difficile e complessa, in bilico fra assimilazione forzata ed emarginazione (come i mezzosangue dell’India, rifiutati dagli inglesi perché mezzi indiani e dagli indiani perché mezzi inglesi): «La volontà del regime era sia di inglobarli nel sistema sociale e politico albanese svuotandoli di ogni elemento di estraneità e di differenziazione, sia, contraddittoriamente, di tenerli ai margini. Il sistema comunista, fondato com’era su un principio comunitario e nazionalistico in cui popolo, patria e Stato dovevano identificarsi, non poteva tollerare differenze, smagliature o incongruenze».

Sono italiana, aiutatemi!
Il 20 febbraio 1991, a Tirana, una folla immensa si raduna in piazza Scanderbeg e finalmente abbatte la statua di Hoxha. Pochi giorni dopo, come racconta il giornalista Riccardo Orizio sul Corriere della sera, «un’anziana e timorosa signora entrò nell’ambasciata italiana di Tirana con in mano il suo vecchio documento d’identità sottratto alle perquisizioni della Sigurimi, e candidamente e con fare educato si rivolse all’ambasciatore Torquato Cardilli affermando “Sono italiana, aiutatemi”». Commenta l’autore: «Comunque sia andata e chiunque sia stata la prima persona a presentarsi all’ambasciata, una cosa è certa: questa persona era una donna e questo suo atto era davvero l’inizio della fine dell’oblio. Dopo 42 anni di silenzio ufficiale dello Stato italiano, un’anziana signora e un combattivo diplomatico di mezz’età avevano rotto l’incantesimo che aveva tenuto nascosto il dramma di tante famiglie che si celava dietro l’indifferenza e il cinismo di due paesi». E conclude: «Il progetto imperiale mussoliniano di fondere questi due popoli con a capo Roma è deflagrato a causa della sua logica assurda trasformandosi in una tragedia le cui conseguenze sono giunte fino a noi. Le contrapposizioni che ne sono seguite hanno aperto altre ferite che sanguinano ancora».

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno XII, n. 121, gennaio 2016)
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