Anno XXI, n. 231
maggio 2025
 
La recensione libraria
L’innocenza persa in nome del denaro
di una ragazzina kosovara cresciuta
fra tradizioni patriarcali e violenza
Da Città del sole, una vicenda aspra e crudele
ricostruita attraverso gli occhi di un poliziotto
di Guglielmo Colombero
«Rachel tentò di gridare, ma il suo urlo muto le rimase in gola, sentì come una forte esplosione dentro il suo ventre, le sue carni lacerarsi alla furia violenta di Goran che si muoveva su e giù ansimando, mentre dalla bocca gli scolava la bava. Rachel spalancò gli occhi persi verso l’infinito, bloccata nella morsa di quel ragno che si muoveva dentro di lei, imprigionata in quel labirinto senza via d’uscita». Quello appena citato è uno dei brani più strazianti che emerge da Il fiore dei gitani (Città del sole edizioni, pp. 176, € 12,00), terzo romanzo di Nicolò Angileri. L’autore, trentacinque anni, siciliano, è un poliziotto della sezione Reati contro i minori della squadra mobile di Palermo. Nel 2009, con la sua opera prima Angeli e orchi, scritta insieme a Raffaella Catalano, ha vinto il Premio letterario “Racalmare Leonardo Sciascia scuola” e, nel 2013, con la seconda, Destini che nessuno sa, si è classificato primo tra gli autori emergenti al Concorso internazionale “Incostieraamalfitana”.

Un corpo indifeso gettato in pasto a un clan di mostri
Narratore dallo stile scarno ed essenziale, Angileri ci immerge nell’orrore quotidiano di Rachel, dodicenne kosovara che i genitori in miseria concedono in sposa al brutale e violento Goran in cambio di duemila euro offerti dalla famiglia di lui, che risiede a Bagheria, nel Palermitano. La discesa all’inferno di Rachel avviene attraverso le tappe di un vero e proprio calvario: prima lo sradicamento dall’ambiente in cui è nata e cresciuta, poi la segregazione e i maltrattamenti, infine il matrimonio forzato e la schiavitù sessuale. Angileri accumula le sofferenze della protagonista in una progressione drammaturgica quasi brechtiana, dove la partecipazione emotiva si stempera nello “straniamento” della cronaca fredda e cruda degli eventi. Il tratteggio dei personaggi è tagliente ma tutt’altro che sensazionalistico (e il rischio è dietro l’angolo, vista la risonanza mediatica che vicende simili, in ossequio al modello Chi l’ha visto?, ottengono pur di solleticare la curiosità morbosa del pubblico televisivo): spicca la coppia dei suoceri in cui la figura sadicamente luciferina di Ana, la madre di Goran, domina sia il viscido marito Branko, anche lui coinvolto nell’abuso della nuora bambina, sia il figlio, lo sposo stupratore imbalsamato in una specie di libidine scimmiesca, residuo marcito di secoli di violenza nei Balcani. Una violenza non solo stratificata storicamente nel terribile ricordo degli impalamenti dell’era ottomana, ma ormai diffusa come una metastasi nel tessuto sociale di quelle terre tormentate, nella psicologia collettiva, nelle tradizioni patriarcali tramandate di generazione in generazione. «Guai a te se domani commetti qualche sciocchezza, la pagherai cara. Guai… non cercare di rovinarmi tutto. Tu domani sposerai mio figlio, e tu lo farai felice, farai tutto quello che ti chiederà lui, tutto. Guai a te, Rachel, ti giuro che se farai qualcosa che manderà all’aria il matrimonio ti ammazzo. Ti giuro che ti uccido come un cane. Tu non immagini di cosa sono capace di fare. Quindi, domani… tu… ti sposerai, sorriderai a tutti, e ti mostrerai felice. Non m’interessa se tu non vuoi, se sei piccola, a me non interessa nulla, hai capito?».

Liberazione e riscatto, un anelito di speranza
Il comportamento di Goran rispecchia oscenamente uno spaventoso vuoto culturale in cui si addensano non solo squallore e abbrutimento, ma soprattutto indifferenza verso il dolore inflitto a una creatura innocente e indifesa, dato che è solo l’appagamento degli istinti che sollecita in lui qualche stimolo mentale: «Dopo aver saziato i suoi appetiti carnali il ragazzo scoprì di avere un altro tipo di fame. Si rivestì e uscì a comprare qualcosa da mangiare lasciando Rachel per terra come uno straccio vecchio». Il processo sistematico di disintegrazione della personalità di Rachel è descritto con realismo asciutto e spietato: «La volontà e la consapevolezza di sé era del tutto sparita, il suo corpo non le apparteneva più, era diventata un utensile indispensabile, oggetto di pulsioni carnali, soddisfare di notte il marito, mentre di giorno il suocero». E quando trova il coraggio di fuggire dalla sua prigione, Rachel riscopre dentro di sé energie che non immaginava nemmeno di possedere: «Correva senza conoscere la destinazione, di certo voleva fuggire lontano, mettere tanta più distanza che poteva tra lei e l’inferno. Era in apnea, tratteneva il fiato come un sub senza più ossigeno nella risalita dagli abissi, incominciava a vedere la luce fuori dall’acqua, sentiva che il sangue le scorreva nelle vene a folle velocità». L’epilogo liberatorio del romanzo riaccende la speranza e conforta il lettore con uno spiraglio di positività, con e un rilancio di fiducia nelle istituzioni che, quando intervengono con decisione, sono ancora in grado di colpire duro chi, come Goran, si comporta da aguzzino con i deboli ma da «feccia senza dignità» quando si ritrova con le manette ai polsi.

Guglielmo Colombero

(direfarescrivere, anno XI, n. 117, settembre 2015)
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