Anno XXI, n. 231
maggio 2025
 
La recensione libraria
L’iter legislativo del delitto d’onore:
quando le attenuanti per gli omicidi
scagionavano l’efferatezza delle mafie
Da Meligrana, la storia del giudice Lo Torto,
impegnato nell’abolizione di una legge primitiva
di M. Vitalba Giudice
In Italia, fino al 1981, esisteva il delitto d’onore, un reato il cui fine era quello di tutelare una particolare forma di integrità morale o di reputazione in contesti quali quello familiare o matrimoniale. Nello specifico, l’articolo 587 del codice penale recitava letteralmente: «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la legittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella». Furono in tanti a opporsi alla legge che prevedeva uno sconto di pena per gli omicidi compiuti con l’intento di riappropriarsi dell’onore perduto, giustificando pertanto una prassi primitiva legata a un costume diffuso. Tra questi anche il dottor Pasquale Lo Torto, a cui è dedicato il lungo racconto L’onorata vendetta (Meligrana, pp. 112, € 12,00), scritto dalla pronipote Caterina Sorbilli, insegnante e giornalista.
Il magistrato Lo Torto, nato a Tropea, città in cui è ambientata la storia, ha lavorato per diversi anni come pubblico ministero a Palermo e le sue requisitorie sono state di grande importanza perché, tra gli anni ’50 e ’60, hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema estremamente caldo che in quel periodo alimentava un acceso dibattito anche nel mondo letterario, cinematografico e culturale. Inoltre Lo Torto, come ricorda l’autrice nel testo, si è occupato anche di numerosi processi di mafia: i crimini di Borghetto, il sequestro di Giuseppe Di Cristina e il processo di Luciano Liggio. Il ricordo della figura forte e determinata del prozio ha quindi spinto la giornalista a raccogliere informazioni, storie e testimonianze per rendere omaggio alla vita esemplare di un uomo coraggioso.

Tropea, il magistrato e le verità nascoste
Il racconto che propone Sorbilli è ispirato alla figura di Pasquale Lo Torto: nello specifico la giornalista si rifà a un caso di cronaca realmente avvenuto e relativo a un dibattimento della Corte d’Assise sull’omicidio commesso da una giovane donna ai danni del proprio seduttore. In quell’occasione, il magistrato si era schierato a favore di una posizione progressista, opposta a quella della maggior parte dell’opinione pubblica, abbarbicata a valori arcaici a sostegno della cosiddetta «vendetta onorata». Nel prendere posizione, Lo Torto aveva dato prova della propria professionalità e rettitudine attraverso «un atto di coraggio, di cultura e di stimolo per rivedere certi tabù».
Caterina Sorbilli ci ripropone, in chiave romanzata, un caso giudiziario, definendo nella propria narrazione una trama intrigante e misteriosa che accompagna il lettore nelle vicende e lo incuriosisce con attimi di suspense.
Nel racconto a vestire i panni del giudice è Giorgio D’Amico, che rivive nei ricordi della sorella Letizia, un’anziana e austera signora che nel corso della storia rivelerà un animo gentile e affettuoso. Il protagonista in realtà è Stefano, un giovane architetto che, dopo aver concluso i propri studi, torna per le vacanze estive a Tropea, terra d’origine della propria famiglia. Lo aspettano, assieme a donna Letizia, i cugini che non vede da tempo e che lo accolgono con affetto, in una terra in cui il sole e il mare riscaldano gli animi. Ad attendere Stefano però ci sono anche tanti ricordi, che riaffiorano a poco a poco, svelando inaspettati misteri che fanno capolino proprio da una piccola finestrella nascosta in uno sgabuzzino della casa di famiglia. In seguito ai dubbi e al desiderio di conoscere la verità di un luogo che sembra fuori dal tempo, zia Letizia rivela al giovane un segreto gelosamente custodito per oltre dieci anni che riporterà alla memoria del ragazzo la forza e la volontà di suo padre: un uomo, un magistrato coraggioso e determinato che forse non conosceva fino in fondo.
La scelta stilistica che effettua Sorbilli è interessante in quanto combina la storia vera con il racconto. Ed ecco allora che le parole pronunciate dal magistrato Lo Torto in un’arringa contro il delitto d’onore divengono le parole di D’Amico: «No, non posso che oppormi alla concessione di tali attenuanti, e men che meno alla fattispecie dell’omicidio per le cause d’onore, e spero d’altro canto che i difensori non avanzino la tesi della legittima difesa putativa, tesi impossibile, insostenibile […] Ormai, purtroppo c’è una tariffa per chi uccide. Si spara sapendo che la legge non condannerà a più di sei anni e qualche mese, solo che appaia una parvenza di ragion d’onore. Ma bisogna reagire a questo andazzo: per chi uccide non c’è tariffa. È un fatto di mera criminalità, cosciente e spietata, mossa dal desiderio di affermare il proprio prestigio personale di fronte a chi non si voleva piegare al suo volere. L’onorata vendetta troppo spesso è avallata da decisioni cieche ed arcaicamente ancorate al passato, diventando con il tempo pretesto dietro cui nascondere violenza, prevaricazione e ricatti». Il libro di Caterina Sorbilli è da leggere tutto d’un fiato, lasciandosi trasportare dalla descrizione di un’affascinante città del Sud Italia, tra ricordi, segreti di famiglia, amore fraterno e filiale, e una vicenda che vuole esaltare il valore umano di un personaggio degno di memoria.

M. Vitalba Giudice

(direfarescrivere, anno XI, n. 105, luglio 2015)
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