Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La recensione libraria
Riscoprire il romanzo d’appendice
attraverso il racconto della vita
e della carriera di Carolina Invernizio
Un intenso tributo alla scrittrice bistrattata
dalle critiche. Da Bibliografia e Informazione
di Federica Lento
La critica letteraria accademica, quella un po’ con la puzza sotto al naso, quella complessa per atavica predestinazione che “se non è incomprensibile allora non ci piace”, per anni ha trattato con sufficienza, sarcasmo addirittura, una scrittrice italiana che tanto invece è stata popolare tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento: Carolina Invernizio. In un’intervista immaginaria, Anna Levi ne ricostruisce la biografia, il pensiero, il carattere e ne scatta anche un’elegante fotografia di donna poco interessata ai giudizi della critica, molto, invece, al contatto che la sua scrittura le fece avere con la gente comune: le arbasiniane “casalinghe di Voghera”.
Anna Levi “incontra” l’autrice, la “intervista” e ce la presenta nel saggio Si pecca ad ogni pagina. Le due vite di Carolina Invernizio (Bibliografia e Informazione, pp. 156, € 20,00). Dal testo si auspica una sua giusta ricollocazione nella memoria letteraria del nostro paese, concedendole una seconda vita per farla conoscere a coloro che, per vizio della critica, l’hanno relegata ad autrice comprensibile al “lettore comune”, terribile etichetta che presuppone un voler prendere le distanze, un volersi porre su un piedistallo di onniscienza da cui la passione per la letteratura dovrebbe rifuggire. La vita e la scrittura di Carolina Invernizio ci hanno insegnato a smascherare e contrastare questa ipocrisia.

Per una rivalutazione del romanzo d’appendice
Al nome di Carolina Invernizio si associa necessariamente il romanzo d’appendice italiano, quello che ha permesso al genere di diventare familiare a coloro che venivano un tempo esclusi dal dominio ermetico ed elitario della letteratura. Emarginata dai suoi colleghi contemporanei come Papini – «tutta gente che scriveva cose incomprensibili, elitisti che non incoraggiavano alla lettura i comuni mortali. Ci vuole un interprete per capirli» – ad eccezione di Sibilla Aleramo, Benedetto Croce e Matilde Serao, la scrittrice ebbe, invece, grande riconoscimento dal pubblico. I segreti di tanto successo vanno cercati nella capacità di incuriosire, affascinare, nella scelta delle tematiche del contrasto tra bene e male e della famiglia.
I romanzi della scrittrice rimandano al giallo e alla prosa giornalistica e ciò permette al lettore di partecipare alla vicenda narrata.
Nei suoi libri Carolina Invernizio univa diversi elementi: amori, drammi domestici, gelosie, assassini, follia, suicidi, sesso. Tutti ingredienti tanto graditi alle famose casalinghe di Voghera che la seguivano nonostante le stroncature dei critici. Ma lei, leggera, si consolava: «Io ho dei critici un’allegra vendetta. Ché le mie appassionate lettrici e amiche sono appunto le loro mogli, le loro sorelle».

L’amicizia di una vita, l’auspicio di non dimenticarla
La Invernizio ci appare come una donna pratica, che ha scritto per fame e necessità, ha conosciuto l’estenuante mestiere della scrittura, ne ha sofferto senza per questo diventarne vittima, prendendone una sana distanza, ridimensionandone il senso con intelligente ironia. E da quel distacco emerge il suo talento: scrivere senza che la letteratura diventi un’ossessione è manifestazione della semplicità del saper fare. Del resto lei era preoccupata maggiormente dell’umanità, degli elementi leggeri del vivere quotidiano, della sua età, perché lei era pur sempre «una bella signora, alta, slanciata, portamento eretto, viso ovale, nasino un poco all’insù, sopracciglia ben disegnate, capelli ricci, rosso Oréal, elegantissima in uno Chanel vintage indossato con un paio di classiche Ferragamo blu […] voce “fresca e armoniosa” […] le piacciono i treni, ma non approva quelli ad alta velocità […] Ma che fretta c’è di arrivare?».
E di “arrivare” infatti alla Invernizio non sembra importasse, se non nel senso di avvicinare le persone con le sue storie. Una donna orgogliosa del suo lavoro ed estremamente indipendente, che conserva il suo cognome anche dopo il matrimonio perché «I romanzi li scrivevo io, mica mio marito».
Un’autrice lontana dagli ambienti accademici: in effetti Carolina frequenta solo la quinta elementare a Cuneo, coltivando da autodidatta la passione per la scrittura che la porta, a diciassette anni, a comporre il suo primo romanzo, Rina.
La collaborazione con i giornali non le è sufficiente, però, a sopravvivere e a provvedere ai bisogni della sua famiglia, perciò una sera decide di avvicinare in piazza Duomo a Firenze, Adriano Salani, editore col quale instaura una grandissima amicizia. Un uomo che «Sapeva appena leggere e scrivere, ma era intelligentissimo. Aveva un fiuto per gli affari incredibile […] Il fatto è che mi capiva perché a livello letterario, e diciamo pure intellettuale, io ero terra terra come lui».
Sulla tomba della Invernizio l’editore Salani deporrà una corona con la dedica: «Il suo nome non sarà dimenticato».
Il saggio di Anna Levi si propone di realizzare questo auspicio, per richiamare all’orecchio di lettori, forse ormai troppo cambiati, annichiliti all’idea di leggere un romanzo di appendice piuttosto che un trattato di filosofia, il nome di un’autrice che con leggerezza aveva compreso l’arte di fare letteratura.

Federica Lento

(direfarescrivere, anno X, n. 107, novembre 2014)
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