Nel suo saggio Populismo senza popolo (Armando editore, pp. 90, € 10,00) Vincenzo Costa affronta con rigore fenomenologico e acume critico la questione populista, proponendone una genealogia originale. Lungi dal cercare una definizione univoca del populismo, l’autore costruisce un’indagine accurata che parte dal presupposto che «il populismo è un fenomeno stratificato, privo di unità centrale, irriducibile a una definizione o a un’essenza».
Non è quindi un oggetto stabile e identificabile in termini formali o contenutistici, ma una configurazione dinamica che nasce da un fallimento sistemico: quello della post-democrazia e della post-politica. In tal senso, il libro si propone non come un’analisi descrittiva, ma come una critica della ragione politica contemporanea. Nel presente contributo, partendo dalla suddetta premessa, ne esamineremo gli anfratti più salienti.
La post-politica come orizzonte esistenziale
Il cuore teorico del saggio è rappresentato da una messa in discussione della funzionalità del sistema politico in relazione al “mondo della vita”, concetto fenomenologico mutuato da Husserl e rielaborato da Costa in opposizione alla nozione luhmanniana di “ambiente”.
Per l’autore, «il mondo della vita non è l’insieme dei sistemi esterni a un sistema ma l’articolazione della vita quotidiana nella sua struttura preriflessiva». Il populismo, da questo angolo prospettico, emerge come un sintomo dell’incapacità delle istituzioni politiche di cogliere il senso da un’esperienza collettiva condivisa. Costa mostra come il sistema rappresentativo contemporaneo sia divenuto «un sottosistema dei mercati finanziari» e che la sovranità popolare si sia «svuotata di ogni significato e funzione».
A questo svuotamento corrisponde la disgregazione dei soggetti collettivi, che non sono più in grado di riconoscersi in mediazioni politiche efficaci. È questa frattura che, secondo Costa, genera lo spazio vuoto in cui il populismo prende forma: non come forza costituente ma come reazione sintomatica a una trasformazione ontologica dell’esperienza sociale.
Contro le semplificazioni ideologiche
Uno dei meriti più significativi del saggio è la critica organica e razionale delle principali letture ideologiche del populismo, sia da parte della cultura progressista sia da parte dei teorici della democrazia agonistica (Laclau e Mouffe), sia da parte della Nouvelle Droite (Michéa, De Benoist). Costa mostra come queste prospettive, pur così differenti tra di loro, condividano una tendenza a ricostruire il populismo come forma discorsiva – “costruzione testuale” – piuttosto che come emergenza fenomenologica di una trasformazione dell’esistenza.
La cultura progressista, per esempio, viene accusata di produrre un discorso patologizzante, che riduce il populismo a “un virus” o “un’espressione della pancia”, ignorando che esso nasce da un’istanza di rappresentatività e da una domanda di alternativa reale in un contesto politico percepito come “omogeneo” e privo di opzioni sostanziali. L’autore ribalta completamente questa interpretazione: «Il populismo non rappresenta dunque, almeno a questo livello, una forma dell’antipolitica […]; è il ritorno, più o meno fallimentare, della politica: è una richiesta di maggior politica».
Anche la proposta di un “populismo di sinistra” viene criticata per il suo costruttivismo: Mouffe e Laclau, infatti, vengono accusati di voler unificare le istanze senza radici, ignorando che «la singola esistenza è un punto di emergenza e di condensazione di quel sistema di rimandi che costituisce un’epoca». L’egemonia proposta da Laclau è, secondo Costa, un’operazione elitistica e volontaristica che non tiene conto delle strutture esistenziali che costituiscono i soggetti sociali reali.
Fenomenologia del populismo e crisi dell’esperienza
L’operazione teorica più audace del libro consiste nella sua proposta metodologica: fare una fenomenologia del populismo non significa determinare che cos’è il populismo, ma «chiedersi: di quali trasformazioni dell’esperienza si nutre?». Costa, in tal senso, rilegge il populismo come esito di una trasformazione antropologica, e non solo politica o istituzionale. Egli si pone in dialogo implicito con Martin Heidegger (attraverso il concetto di Dasein) e con Antonio Gramsci (citato in modo esemplare sul rapporto fra intellettuali e popolo-nazione) per mostrare come la crisi della democrazia sia, in fondo, crisi del legame simbolico e affettivo tra cittadini e istituzioni.
La forza del libro è, dunque, nella sua capacità di connettere microfenomeni della vita quotidiana – la rabbia nei bar, la sensazione di disprezzo, il risentimento identitario – con macrostrutture sistemiche, costruendo una narrazione filosofico-politica che sia in grado di attraversare categorie, linguaggi e tradizioni. Lungi dal cedere alla tentazione della retorica o del moralismo, Costa costruisce un discorso sobrio e analitico, fondato sulla convinzione che «la lotta politica non è mai per il livello di vita, ma per lo stile di vita e per la propria identità».
Lo stile come costruzione della distanza: tono, retorica, impasse
Lo stile adottato da Costa in Populismo senza popolo è denso, ellittico, a tratti barocco. L’autore procede con frasi lunghe, fortemente subordinate, spesso in bilico tra la riflessione fenomenologica e la digressione polemica. Questa tessitura stilistica rivela un’ambivalenza profonda: da un lato, mira alla chiarezza analitica, dall’altro indulge a un intellettualismo che può ostacolare la comunicazione diretta con un pubblico non accademico.
In particolare, l’uso persistente di anafore, antitesi e chiasmi («comprendere le origini, non l’origine»; «non è una risposta alla crisi della democrazia, tuttavia non è neanche una minaccia») crea una retorica del paradosso che accentua la complessità del discorso ma rischia di diventare una cifra formale autoreferenziale. Vi è un ricorso marcato alla metafora sistemica: il populismo come “virus”, come “costruzione testuale”, la democrazia come “sistema disfunzionale”. Anche quando l’autore ne critica l’uso altrui, tali metafore rimangono centrali nella sua stessa narrazione.
Lo stile è spesso performativo: non descrive, ma costituisce l’oggetto di cui parla. Costa non analizza tanto il populismo in quanto tale, quanto i discorsi sul populismo, restando talvolta più interessato al loro ruolo ideologico che alla loro efficacia empirica. Il tono è assertivo, poco ironico, e attraversato da un pathos della disillusione che si condensa in formule che suonano come giudizi definitivi. In certi momenti, l’apparato teorico e citazionale – da Gramsci a Laclau, da Heidegger a Michéa – funziona più da schermatura legittimante che da dialogo aperto.
Tuttavia, proprio questa sofisticazione stilistica si accorda con la tesi centrale dell’autore: non si può affrontare il populismo con gli strumenti analitici ereditati dalla modernità politica. Per quanto criticabile, questa cifra espressiva riflette dunque fedelmente la postura epistemica dell’opera: una diagnosi del presente condotta a distanza, che rifugge tanto l’identificazione quanto la condanna, collocandosi in quella zona grigia dove la filosofia si fa, appunto, figura della disillusione, del disincanto.
Populismo senza popolo è un saggio filosofico-politico di notevole densità teorica e originalità metodologica. Alla pletora di studi sul populismo che si limitano a cartografare sigle e movimenti, Costa oppone un’analisi radicale che risale alle condizioni esistenziali che rendono possibile il populismo stesso. Il libro non offre soluzioni, ma strumenti per comprendere. E, forse, è proprio questo l’intervento più politico che oggi si possa fare.
Ivana Ferraro
(direfarescrivere, anno XXI, n. 234, settembre 2025)
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