Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La cultura, probabilmente
La rappresentazione cinematografica
dell’handicap e la sua edulcorazione
nella società “politicamente corretta”
Ecco come il cinema ha affrontato, secondo differenti visioni
e non senza lampanti incoerenze, la questione della disabilità
di Antonio Tripodi
Il cinema è il medium che meglio di tutti può essere utilizzato come cartina di tornasole per analizzare le tendenze, le speranze, le paure, i sogni e le illusioni di una società. Esso, per i costi che comporta, è strettamente legato alla logica industriale del profitto. Un film è prodotto dall’industria cinematografica con l’obiettivo di incassare almeno quattro volte il suo costo (diversamente si parla di flop). Per questo motivo il cinema più di altri mezzi mediatici mira a rincorrere le aspettative dello spettatore più che a formare quella che, con un termine generico, si definisce pubblica opinione. In tal senso, il cinema si distingue nettamente da altri mezzi di comunicazione di massa, quali Tv e stampa, che, al contrario, hanno lo scopo di condizionare le scelte, ma anche i gusti e la mentalità delle persone, assolvendo quel ruolo che Orson Welles, un’eternità fa, esplicitava così bene nel suo Quarto potere (Citizen Kane, Usa, 1941).

La visione della disabilità “malvagia”...
Pertanto, i film rappresentano una materia per l’analisi sociale più pura di tante altre, però con qualche distinguo.
Non possono rientrare in questo tipo d’indagine i film di propaganda propri dei paesi totalitari (“il cinema è l’arma più forte”), i quali esprimono un deciso messaggio ideologico imposto dal vertice alle masse. Nel caso del fascismo e del nazismo, infatti, il cinema obbediva alle esigenze del regime di manipolare le masse in un’epoca in cui la televisione ancora non esisteva.
Per motivi opposti anche il cinema d’autore, il cinema indipendente, in quanto svincolato da logiche di mera produzione e fornitura della merce-film di intrattenimento, non ci aiuta a capire le tendenze sociali consolidate o emergenti.
Avvicinandoci dunque all’argomento centrale del nostro discorso, la visione della disabilità e dell’handicap nella cinematografia, troviamo una conferma clamorosa delle tesi iniziali.

…il suo ribaltamento...
Vediamo infatti come la rappresentazione della disabilità nel cinema abbia seguito quella che è stata la maturazione della visione sociale del problema.
Secondo una visione tradizionale della società occidentale, si è malvagi perché si è deformi, ma anche si è deformi a causa della propria malvagità. Insomma la deformità serve a caratterizzare fisicamente la figura del “cattivo”.
Tale posizione trova in effetti un suo ribaltamento già nel 1932 nel film Freaks (Tod Browning, Usa, 1932). L’opera inverte i ruoli, elevando a protagonisti i freaks, “gli scherzi di natura”, “i diversi”, mentre la malvagità sta tutta nei “normali” che prosperano sfruttando i poveri mostri da baraccone.
Gli stessi temi saranno poi rianalizzati circa cinquant’anni dopo in The Elephant Man (David Lynch, Gran Bretagna/Usa, 1980), che, di fatto, rappresenta la più profonda riflessione cinematografica che sia mai stata fatta sul tema della diversità.
Ma, a partire dagli anni Ottanta, la moda del “politicamente corretto” investe anche la rappresentazione della disabilità. Il disabile, in quasi tutte le recenti opere cinematografiche, è necessariamente un protagonista positivo, meglio se vittima della società e, se possibile, anche tenero e simpatico. Quasi mai vediamo ritratti di esseri umani con le necessarie sfumature, in cui la cecità, la sindrome di Down o la sordità siano una caratteristica che si aggiunge o anche limita la persona, senza per questo divenire l’unico tratto caratterizzante di quell’individuo.

... e la rappresentazione sdolcinata
Esemplificativo di una tendenza del genere è L'ottavo giorno (Le huitième jour) (Jaco Van Dormael, Francia/Gran Bretagna/Belgio, 1996). Un lavoro ruffiano nei confronti del pubblico: nella rappresentazione della sindrome di Down, esso sprofonda in una pietosa ridda di luoghi comuni, sdolcinatezze e insopportabili pietismi.
Imperdonabile da parte del regista il fatto di essersi fatto scudo dell’irresistibile simpatia che ispira al pubblico l’attore down Pascal Duquenne, la cui recitazione, tuttavia, merita da sola la visione del film.
In film di questo tenore siamo abituati a vedere collocata in primo piano la disabilità e, sotto la patina del problema che tutto acceca, a mala pena emerge la persona.
Insomma non vediamo quasi mai rappresentati esseri umani con cecità, con sindrome di Down o con sordità, ma ciechi, down o sordi a tutto tondo, come se l’handicap dovesse necessariamente prevalere sull’individuo.
Il disabile continua dunque a essere marchiato totalmente, anche se con finalità opposte rispetto al passato, dalla malformazione dalla quale non può emergere una “normale” personalità.

Antonio Tripodi

(direfarescrivere, anno II, n. 3, febbraio 2006)
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